mercoledì 20 febbraio 2013

La saggezza è frutto della sofferenza.




Il male, il dolore, la colpa sono manifestazioni del limite della creatura umana, tuttavia, i grandi mezzi di comunicazione ci insegnano tutto sulle mode e sui modi di vivere, ma ignorano ogni interrogativo e risposta di senso dell’esistenza. È entrata nel vivo la seconda parte degli esercizi spirituali alla Curia Romana, alla presenza di Benedetto XVI, tenuti dal cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura. Mercoledì mattina, 20 febbraio, il porporato ha iniziato a delineare i tratti del «Volto dell’uomo», a cominciare dall’«uomo credente» e dall’«uomo creatura fragile». Lo ha fatto partendo dall’ultima delle sette lettere dell’Apocalisse, quella diretta alla Chiesa di Laodicea in Asia Minore. «Sembra — ha detto il cardinale — il ritratto di molte comunità cristiane contemporanee, ma anche della stessa società in cui siamo immersi». In essa viene evidenziata la tiepidezza, la superficialità, la mediocrità, la banalità. «Non è immorale, ma amorale», ha affermato il porporato. Alla fine della lettera, la «nausea» per questa condizione si dissolve e appare il Cristo che «passa per le strade del mondo» e si accosta a una porta e bussa. Il rimando è alla simbologia «amorosa dell’innamorato che sta alla porta dell’amata, la quale si mostra ritrosa ad aprire». Questa scena manifesta «il primato della grazia, la cháris che diventa caritas». Se Cristo «non passasse e non bussasse, noi resteremmo chiusi nella nostra storia solitaria e autonoma». In questa scena entra un nuovo elemento, ha detto il porporato. «Sta a noi ascoltare quel bussare e quella voce che chiama». C’è chi rimane chiuso e sceglie di non essere disturbato e ignora quella voce. «È questo — ha detto — il momento della libertà umana, della pístis, la fede che accoglie la cháris, la chiamata, il dono, la teofania». 
Nella seconda meditazione della mattina, il cardinale ha spiegato un altro volto, quello dell’«uomo creatura fragile». L’esperienza del dolore ha «provocato tutte le teologie ed è divenuta la sostanza di infinite preghiere in tutte le religioni». A questo proposito, il porporato ha fatto notare che quasi un terzo del salterio è «costituito di suppliche personali o di lamentazioni comunitarie». Perché? si chiede l’uomo lacerato dal dolore. L’orante dei salmi dà «voce a tutti noi quando sperimentiamo quello che in ebraico è chiamato sar, cioè “angustia”, un vocabolo che indica una ristrettezza, una chiusura senza respiro». 
La sofferenza e il male, ha aggiunto il cardinale, «sono legati alla stessa creaturalità che è limitata e caduca». La malattia, non è solo «una questione fisiologica, biologica e medica, ma è anche una realtà esistenziale, sapienziale, filosofica, psicologica e teologica». Accanto al sofferente non «basta la scienza medica», ma è necessaria anche la «compassione»; la terapia «non può ignorare l’umanità, l’anatomia corporale esige l’attenzione alla spiritualità». I salmi, ha detto, «registrano a più riprese questa radice antropologica profonda della sofferenza». Nel dolore, l’uomo cerca di trovare un senso, considerando questa prova come una «paideia, una catarsi pedagogica che conduca alla conversione o alla purificazione o alla formazione interiore». Il dolore, infatti, genera «al tempo stesso una crisi di senso più profonda e radicale che non può essere razionalizzata o smitizzata o ignorata». 
Dopo le manifestazioni di Dio nella parola, nel cosmo, nel tempio, nella liturgia, nella storia della salvezza e nel Messia, il cardinale Ravasi, nella meditazione di martedì pomeriggio, 19 febbraio, aveva illustrato l’ultima epifania della galleria di icone salmiche: nella creatura umana. Dio appare nella creatura: uomo e donna. Nel loro amore, ha spiegato il porporato, «capace di generare la vita», troviamo un «segno che rimanda a Dio». Nella creatura umana «sessualmente bipolare si ha la statua vivente vera del Creatore, per cui Israele non avrà bisogno di immagini divine e idoli come ammonisce il primo comandamento. È per questo che non di rado nel salterio il Signore appare come padre e madre al tempo stesso, essendo questa una suggestiva via analogica per rivelarsi nel suo mistero di amore». Per la Bibbia, ha aggiunto il cardinale, «la figura di Dio Creatore ha la sua rappresentazione simbolica viva ed efficace proprio nei due che generano, e così offrono la trama vivente per la storia della salvezza».
Nel riflettere sulla speciale epifania divina che è l’uomo vivente, il porporato ha messo in evidenza come ogni creatura umana custodisca «in sé questa grandezza, pur nella diversità delle identità personali e nell’assoluta irripetibilità di ogni persona». Questa nobiltà di ogni persona umana «nell’identità e nella diversità inizia già nella stessa concezione». Ecco, perché possiamo cercare la presenza divina in ogni creatura umana «fin dalla sua genesi primordiale; ma anche scopriamo l’attenzione costante con cui Dio accompagna l'uomo nella sua storia senza mai lasciarlo solo». La creatura umana è quindi, «il luogo in cui intercettare Dio», anche perché suo Figlio è divenuto anch’egli «carne umana, con un principio e una fine». 
Citando il salmo 8, il cardinale Ravasi ha invitato a riflettere sul fatto che l’uomo, pur fragile creatura «ha in sé una dignità così alta che la rende “poco meno di un dio”». È infatti «il luogotenente del Signore stesso nel dominio dell’essere». È un potere non «acquisito autonomamente» o per conquista in una lotta contro Dio, ma gli è concesso «in amministrazione».
L'Osservatore Romano, 21 febbraio 2013.