domenica 24 febbraio 2013

Senza libertà non c'è vera fede




Riporto da “Avvenire” di oggi,  24 febbraio 2013
a firma del Cardinal Gianfranco Ravasi.
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Nec religionis est cogere religionem . Lapidario è Tertulliano, con questo motto del suo scritto A
Scapola (II, 2), nel riconoscere che nel cuore stesso della fede, ove pure impera la grazia divina,
pulsa anche la libertà umana per cui «non è proprio della religione costringere alla religione». Un
principio, purtroppo, non sempre rispettato dalle varie confessioni religiose, compreso il
cristianesimo all’interno della sua storia secolare, ed è significativo che Giovanni Paolo II abbia
anche di queste prevaricazioni chiesto perdono nel Giubileo del 2000. In un itinerario (che non è
teologico ma di taglio culturale generale) all’interno dell’orizzonte della fede, oltre a celebrare il
primato della grazia divina, non possiamo ignorare il necessario contrappunto armonico della libertà
umana. Necessario perché la libertà è strutturale all’antropologia biblica e non solo alla concezione
classica e moderna della persona. Non possiamo ora sviluppare questo tema inseguendo la trama dei
testi biblici. Ci basti evocare due passi.
Da un lato, la scena d’esordio delle Scritture: l’uomo e la donna sono collocati nei capitoli 2-3 della
Genesi all’ombra «dell’albero della conoscenza del bene e del male», un evidente simbolo della
morale nei cui confronti la creatura si trova libera se accettarne il valore oppure, strappandone il
frutto, decidere in proprio ciò che è bene e male.
D’altro lato, citiamo un passo emblematico della sapienza d’Israele: «Da principio Dio creò l’uomo
e lo lasciò in balìa del suo proprio volere. Se tu vuoi, puoi osservare i comandamenti, l’essere fedele
dipende dalla tua buona volontà. Egli ti ha posto davanti fuoco e acqua: là dove vuoi tendi la tua
mano. Davanti agli uomini stanno la vita e la morte: a ognuno sarà dato ciò che a lui piacerà» (Sir
15,14-17). La grazia divina, pur nella sua efficacia, scende non all’interno di un oggetto inerte ma in
un essere libero che può accogliere o rifiutare quel dono, può aprire o lasciare chiusa la porta della
sua anima a cui bussa il Signore che passa, per usare la celebre metafora dell’Apocalisse (3,20).
Esprime bene questo intreccio delicato e fondamentale – sul quale si sono accaniti per secoli i
teologi cercando di definirne l’equilibrio – padre David M. Turoldo quando scrive: «Sono certo che
Dio ha scoperto me, ma non sono certo se io ho scoperto Dio. La fede è un dono, ma è allo stesso
tempo una conquista». L’epifania divina ha mille forme in cui manifestarsi e non è sempre
sfolgorante come sulla via di Damasco. Tuttavia non è mai così cogente da condurre a un assenso
forzato e obbligato.
L’adesione dev’essere personale, libera, anche faticosa.
Siamo, infatti, consapevoli che l’esercizio della libertà è tutt’altro che semplice. Essere liberi non è
una pura e semplice reazione istintiva e 'libertina', né soltanto un sottrarsi a un’oppressione o a
un’imposizione, ma è una scelta coerente e cosciente tra opzioni differenti per una meta da
raggiungere. Per questo il drammaturgo tedesco Georg Büchner nella Morte di Danton (1834)
affermava che la statua della libertà è sempre in fusione ed è facile scottarsi le dita. Vivere nella
libertà autentica, come ricorda spesso anche san Paolo, è un atto impegnativo perché comporta
un’esistenza rigorosamente cosciente, ed è sempre in agguato il rischio del ricadere in schiavitù.
Come accade ai cani a cui si lancia un ramo secco e te lo riportano subito, così per molti la libertà è
un elemento inutile che riportano subito nelle mani del potere. Questa è un’immagine di
Dostoevskij e dal grande romanziere desumiamo una suggestiva riflessione sul nesso tra fede e
libertà. Scriveva: «Tu non discendesti dalla croce quando ti si gridava: Discendi dalla croce e
crederemo che sei Tu! Perché una volta di più non volesti asservire l’uomo… Avevi bisogno di un
amore libero e non di servili entusiasmi, avevi sete di fede libera, non fondata sul prodigio». Lo
scrittore rievoca la scena del Golgota col Cristo morente sbeffeggiato dai passanti: «È il re d’Israele,
scenda ora dalla croce e gli crederemo!» (Mt 27,39-42).
Come durante la sua esistenza aveva evitato gesti taumaturgici spettacolari, preoccupandosi solo di
sanare le sofferenze umane, spesso in disparte dalla folla e imponendo il silenzio ai miracolati, così
in quel momento estremo Gesù affida la sua rivelazione non al prodigio ma allo scandalo della
croce. Egli non cerca adesioni interessate, ma invita a una fede libera e guidata dall’amore che è per
eccellenza un atto di libertà.
Senza questa dimensione la fede diventa parodia, come si intuisce dalla ricostruzione che Simone
de Beauvoir, la scrittrice francese compagna del filosofo Sartre, morta nel 1986, fa della sua crisi
giovanile che le fece abbandonare la fede. Nelle sue Memorie di una ragazza perbene  rievoca il
momento in cui in collegio, ascoltando una predica del cappellano padre Martin sull’obbedienza, si
era fatta in strada in lei la necessità di liberarsi dall’incubo della religione, proprio perché essa –
secondo quella visione che in realtà era una deformazione dell’autentica fede – comportava la
cancellazione della libertà.
Raccontava: «Mentre l’abate parlava, una mano sciocca si era abbattuta sulla mia nuca, mi faceva
chinare la testa, mi incollava la faccia al suolo, per tutta la vita mi avrebbe obbligata a trascinarmi
carponi, accecata dal fango e dalla tenebra; bisognava dire addio per sempre alla verità, alla libertà,
a qualsiasi gioia». Per questo è importante un annuncio corretto della fede che, senza concedere
nulla a un accomodamento troppo facile, a un compromesso generico e comodo, non deformi però
la vera anima della fede, introducendo un volto sfigurato di Dio, quella che Lutero chiamava la
simia Dei, cioè la «scimmiottatura di Dio». Il credere genuino non è schiavitù ma libertà, non è
imposizione ma ricerca, non è obbligo ma adesione, non è cecità ma luce, non è tristezza ma
serenità, non è negazione ma scelta positiva, non è incubo minaccioso ma pace.
Come affermava in un suo saggio, Vivere come se Dio esistesse, il teologo tedesco Heinz Zahrnt,
«Dio abita soltanto là dove lo si lascia entrare». Questa scelta comporta – come in ogni opzione
libera – un aspetto di rischio. Entra, così, in azione un lineamento ulteriore che è la fiducia. È la
famosa fides qua dei teologi, ossia la fede «con la quale» si aderisce confidando in Dio e che fa
accogliere la fides quae, cioè i contenuti della rivelazione divina che il credere ci manifesta.
Abramo, che «per fede, chiamato da Dio, obbedì partendo per un luogo che doveva ricevere in
eredità e partì senza sapere dove andava» (Ebr 13,8), ne è l’esempio archetipico biblico. Mi affido
ai versi di una scrittrice con la quale personalmente ebbi un dialogo intenso negli ultimi anni della
sua vita, Lalla Romano, scomparsa nel 2001: «Fede non è sapere/ che l’altro esiste/ è vivere/ dentro
di lui/ calore/ nelle sue vene/ sogno/ nei suoi pensieri./ Qui aggirarsi/ dormendo/ in lui destarsi» (da
Giovane è il tempo del 1974).
Come pregava un’altra poetessa, segnata però esplicitamente dalla fede, Ada Negri: «Tu mi
cammini a fianco, o Signore, orma non lascia in terra il tuo passo. Non vedo te: ma sento e respiro
la tua presenza in ogni filo d’erba, in ogni atomo d’aria che mi nutre». La fiducia ha il suo vaglio di
autenticità nel tempo oscuro della prova, quando il volto di Dio scompare, la sua parola tace, la sua
presenza si tramuta in assenza.
Giobbe coinvolto in pieno nella tenebra, non cessa di credere e di aver fiducia: «Quand’anche egli
mi ucciderà, non me ne lamenterò» (13,15).
La tradizione giudaica mette in scena in una parabola un ebreo sfuggito all’Inquisizione spagnola
con moglie e figlio che, durante una tempesta, approda in un’isola. Lì, però, un fulmine uccide la
moglie e un’onda trascina in mare il ragazzo.
Solo, nudo, flagellato dalla tempesta, atterrito, errabondo su quell’isola rocciosa, leva la sua voce al
cielo: «Dio d’Israele, sono finito! Proprio ora, però, non ti posso servire se non liberamente. Tu hai
fatto di tutto perché io non creda più in te. Bene, te lo dico, Dio mio e dei miei padri, tu non ci
riuscirai: io crederò sempre in te, ti amerò sempre, tuo malgrado!». Evidente è il paradosso, ma in
questa ripresa del dramma di Giobbe, brillano la totale libertà e l’assoluta fiducia in Dio. Una
fiducia che è esaltata anche nella tradizione musulmana con accenti altissimi (muslim significa
appunto «chi ha fiducia e si abbandona a Dio»), anche se però non di rado a danno della libertà
umana. Significativa è una pagina del Memoriale dei santi del grande scrittore mistico persiano del
XII secolo Farid ed din ’Attar che ha per protagonista «un adoratore del fuoco», cioè uno
zoroastriano, quindi un pagano agli occhi del musulmano. Farid vede che egli getta miglio sulla
distesa di neve che circonda la sua abitazione e spiega che lo fa per gli uccelli del cielo, «sperando
che l’Altissimo avrà misericordia di me». Ma Farid obiettò: «Tu sei un infedele e il grano seminato
da un infedele non germoglia!». Quell’uomo replicò: «Pazienza! Se Dio non accetta la mia offerta,
posso almeno sperare che veda il piccolo gesto di amore che io faccio». Mesi dopo ’Attar ripassa e
ritrova l’uomo: «L’Altissimo ha fatto germogliare quei semi. Grazie, o Dio, che regali il paradiso
per un pugno di grano! Il cuore di Dio si commuove sempre di fronte a un gesto d’amore!». Amore,
fiducia, fede si uniscono tra loro e donano serenità. È ancora un musulmano, il poeta nazionale del
Pakistan Muhammad Iqbal, morto nel 1938, a scrivere: «Ti dirò il segno del credente:/ quando a lui
giunge la morte,/ sulle sue labbra sboccia un sorriso». Vivere la fede genera una fiducia che fa
fiorire, anche nella crudezza dell’agonia, un sorriso.
Concludiamo, allora, con una delle Quattordici preghiere che compose Robert L. Stevenson, il
geniale autore ottocentesco inglese dell’Isola del tesoro e dello Strano caso del dottor Jekyll e del
Signor Hyde, un vero canto di fiducia nel Dio che non abbandona mai le sue creature coi suoi
piccoli e grandi doni: «Ti ringraziamo, Signore, per questo luogo nel quale dimoriamo, per l’amore
che ci tiene insieme, per la pace che oggi ci è accordata, per la speranza con la quale aspettiamo il
domani, per la salute, il lavoro, il cibo, il cielo chiaro che riempiono la nostra vita di fiducia e di
serenità».

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Il tempo e noi: la parabola del congedo
di Gianfranco Ravasi
in “Corriere della Sera” di oggi, 24 febbraio 2013
Una parabola giudaica immagina che, quando Dio creò il mondo, si accostarono a lui per servirlo
gli angeli. Uno di essi recava su un vassoio dieci porzioni di bellezza: il Signore ne assegnò nove a
Gerusalemme e una sola a tutto il resto del mondo. Un altro si fece avanti col vassoio della sapienza
e le sue dieci quantità: anche in questo caso il Creatore ne attribuì nove alla città santa e una sola al
resto della terra. Così avvenne per tanti altri doni creaturali. Giunse alla fine anche l'angelo che
recava il grande bacile del dolore. E qui il lettore pensa che debbano invertirsi le proporzioni e,
invece, Dio gettò ugualmente su Gerusalemme nove porzioni di sofferenza e una sola consegnò al
resto dell'umanità.
Abbiamo rievocato questo racconto perché esso ci introduce nel quarto luogo ove incontrare il volto
di Dio e la sua rivelazione, dopo la Parola, la creazione, il tempio con la liturgia.
Si tratta dell'orizzonte in cui si svolge la storia umana, cioè il fiume del tempo: là si vivono la gioia,
la festa, il benessere, i sorrisi, la bellezza, la luce, ma si hanno in agguato anche il male, il lutto, la
tristezza, la sciagura, le lacrime, le brutture e le bruttezze, la tenebra. Tutte queste realtà sono
equamente distribuite in tutte le vicende personali e sociali, tra credenti e increduli, tra uomini e
donne, pervadendo i secoli e gli eventi. Ebbene, la Bibbia — in modo piuttosto originale tra tutte le
culture — privilegia il tempo come categoria religiosa: Dio non lo devi cercare prima di tutto nello
spazio ove pure, come si è visto, si mostra, bensì devi scoprirlo soprattutto mentre entra nella storia
umana, divenendo veramente l'Emmanuele, il Dio-con-noi.
Egli sceglie, dunque, la realtà che più aderisce a noi, che è intrinseca al nostro esistere. Nascendo,
noi usciamo dall'utero di nostra madre per essere accolti da due immensi grembi, quello dello
spazio e quello del tempo. Ma quest'ultimo si attacca più intimamente a noi, soprattutto nella sua
forma — come dicevano i Greci — di kairós, cioè di tempo personale vissuto, e non tanto di
chrónos, ossia di scansione temporale oggettiva segnata attualmente dagli orologi atomici. Dio,
l'Eterno per eccellenza, si comprime nel tempo umano, che è sviluppo successivo, e si presenta ai
crocicchi della storia, oltre che ai crocevia dello spazio, un po' come accade nei quadri biblici di
Chagall che introducono angeli e presenze divine nella quotidianità modesta dello shtetl, il villaggio
giudaico mitteleuropeo.
Gandhi, in maniera felice, chiamava la preghiera «la chiave del mattino e il catenaccio della sera».
Essa cerca e incontra Dio proprio nell'esistenza dell'orante. Lo trova nei grandi eventi della storia
della salvezza, ove anche Dio cammina con la sua creatura. Col cristianesimo lo scopre in un uomo
che è anche Dio, Gesù Cristo, la cui storia è, perciò, irradiata di eterno; infine, lo intuisce nel
prossimo e nei semplici fatti della quotidianità. Il Dio del Salterio è il Signore della storia, la quale
cessa, quindi, di essere soltanto una nomenclatura di date e di dati, ma si trasforma in storia santa. E
questo accade nella linea della tradizione biblica che professa il cosiddetto «Credo storico». Esso è
proclamato, ad esempio, dal fedele ebreo a primavera, mentre presenta al tempio il cesto d'offerta
delle primizie (Dt 26,5-9), è proposto solennemente da Giosuè a tutto Israele appena entrato nella
Terra promessa con l'assemblea di Sichem (Gs 24,1-13), ed è cantato anche nella liturgia del tempio
di Sion. Analogo sarà anche il Credo cristiano fondato sull'incarnazione del Figlio di Dio nella
storia.
Noi ora ci affideremo a un Credo cantato nel culto del tempio, leggendo il Salmo 136 che il
giudaismo ha chiamato «il Grande Hallel», l'inno di lode pasquale per solista e coro. Entra in scena
appunto un solista levita che, dopo l'invito alla lode al «Dio degli dèi, al Signore dei signori perché
è buono», intona con asserti lapidari gli eventi della storia della salvezza in ventidue distici, tanti
quante sono le lettere dell'alfabeto ebraico: è quasi una sintesi gioiosa di tutte le azioni divine e di
tutte le nostre parole di ringraziamento. L'assemblea risponde costantemente a ogni asserto con
un'antifona fissa: kî le‘olam hasdô, «perché per sempre è il suo amore». Affiora il vocabolo hesed, «fedeltà, amore, grazia», particolarmente caro al Salterio che lo usa centoventisette volte. Difficile è
rendere la trama allusiva dei significati di questo termine con una nostra sola parola.