giovedì 21 marzo 2013

Fratello a chi?


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di Costanza Miriano
C’è solo un momento in cui sono più insopportabile rispetto a quando sono di cattivissimo umore (come ieri), ed è quando mi sento buona. Allora sì che sono terribile. Credo che chi mi incontri a percorrere i corridoi della redazione o le strade del quartiere col sorriso superiore e compreso di chi sa, di chi ha capito tutto della vita, di Dio e anche un po’ del decoder (che poi quello sarebbe il vero miracolo), ci metta poco a decidere che quello è il momento di starmi alla larga.
Di Giovanna d’Arco e Caterina da Siena ce ne sono state due sole, purtroppo, e attualmente in magazzino le hanno finite. Sarebbe bello mettersi alla testa di un piccolo gregge, ma sono missioni riservate a pochi, di sicuro non a me. Peccato, perché sentirsi piccolo gregge comporterebbe invece dei (pericolosissimi) vantaggi, primo fra tutti quello di sentirsi meglio degli altri.
È vero, io sono prontissima a definirmi una peccatrice, una miserabile, un’insignificante tessera nel mosaico del grande disegno della Chiesa. Sì, però – sia chiaro – solo in confronto a Dio, perché di fronte ai fratelli, be’, non esageriamo. Io faccio schifo (tanto che mi costa umiliarmi di fronte a Dio?), ma loro fanno molto più schifo di me (son soddisfazioni anche queste).
Invece la verità è che siamo molto, ma proprio parecchio, ma davvero incredibilmente simili gli uni agli altri, con le magagne, le piccinerie, le meschinità, la piccola, borghese ricerca di sicurezza che ci segna tutti. Questa cosa, assomigliarci, ci dà un fastidio incredibile.
Essere figli di Dio ci piace un sacco. Essere sorelle e fratelli di tutti un po’ meno. Perché gli altri possono essere sgraziati, egoisti, ignoranti, pure un po’ puzzolenti, a volte. In pratica come noi. Hanno le scarpe sbagliate, fanno le letture sbagliate, hanno vite tutte un po’ sbagliate. Hanno dei difetti e anche dei problemi che nel caso rileviamo con sottile, inconfessabile soddisfazione. Il fatto è che i difetti degli altri ci danno fastidio perché ci assomigliano, e allora è più comodo  dividersi, e partire con i distinguo e le accuse, persino dentro la Chiesa: movimento uno contro spiritualità due, tradizionalisti contro progressisti, misericordia versus regola, collegialità contro primato, dimenticando che il deposito della fede è uno solo, e che nessun uomo ne è da solo la garanzia, perché la Chiesa è una ed è solo di Cristo, è la sua sposa, non la nostra.
Quando ci sentiamo buoni ci vogliamo sentire i soli a esserlo. C’è più gusto, così. Credere di essere buoni circondati dai cattivi è gratificante, ma è un atteggiamento spirituale pericolosissimo, ed è l’esatto contrario di ciò a cui siamo chiamati.
Mi chiedo se è anche per questo che leggo con sottile fastidio i panegirici a Francesco. Voglio dire, dovrei saperlo, i giornali con qualcosa dovranno pur riempire le pagine, sarebbe poco dignitoso incartare le uova con fogli disegnati, per cui adesso tutti devono dire la loro. Sappiamo bene che tanta fretta di esaltare il nuovo Papa da parte del giornalista collettivo rischia di finire tra qualche giorno, alla prima uscita ufficiale sugli argomenti sensibili, perché fino a che si parla di amare gli uomini e rispettare il creato chi mai potrebbe non essere d’accordo? Quando ci sarà da accennare a qualche ovvio paletto – mai stato in discussione – che limiti la sacra inviolabile assoluta libertà dell’uomo, allora probabilmente gli ultras del cosiddetto nuovo stile – quale nuovo? Ha duemila anni. – avranno qualche piccolo ripensamento. Ma questo è ovvio, è appena superfluo dirlo qui.
La domanda che mi faccio invece è: perché aspetto con sottile gioia, e non con rammarico, quel momento? Perché invece non gioisco di questo entusiasmo? Perché non riesco a dire a me stessa “ma che bella questa accoglienza festosa?”. È vero, anche lo zucchero quando è troppo stucca, ma non è questo il problema.
Il problema è che ci vogliamo sentire diversi, un po’ meglio degli altri, magari anche un po’ da soli, o con una ristretta, eletta compagnia a cui non puzzi mai l’alito. Siamo gelosi della nostra appartenenza, ci conferma, ci rassicura, ci garantisce che non siamo come lo schifo che vediamo intorno. Insomma, ci piace essere figli di Dio, ma quello che ne consegue ci piace di meno. Se siamo figli siamo anche in famiglia con dei fratelli da aspettare con pazienza, se sono più indietro, o da imitare con umiltà, se sono più avanti. La famiglia è il disegno di Dio sul mondo, è quello che vuole Lui per noi, e ogni volta che dividiamo, distinguiamo, puntualizziamo, separiamo, puntiniamo le i, facciamo il gioco dell’altro, il divisore. Se è così, meglio essere di cattivissimo umore che sentirsi buoni, allora.