mercoledì 20 marzo 2013

Meditazioni di Quaresima: il Buon Samaritano


Di seguito il testo della prima meditazione del Rettore della Pontificia Università Lateranense, monsignor Enrico dal Covolo, durante il Ritiro di Quaresima che ha tenuto presso l’Istituto per le Opere Religiose (IOR) nei giorni 12-14 marzo scorsi.
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Lectio divina per la Quaresima dell'Anno della Fede. Prima meditazione


Partiamo senz’altro dal Messaggio per la Quaresima di quest’anno, e da qui accogliamo l’invito del Papa: «La celebrazione della Quaresima nel contesto dell’Anno della Fede», ha scritto Benedetto, «ci offre una preziosa occasione per meditare sul rapporto tra fede e carità».
Ecco le due parole-chiave di questa Quaresima: fede e amore, fede e carità.
Ma – ci chiediamo noi – che cos’è precisamente la carità?
Diciamo subito che la carità non è un concetto astratto. Non si può «definire». La carità è vita, la vita stessa di Dio. E la vita – come la carità – va esperimentata, vissuta, testimoniata…
Una volta un israelita, un dottore della legge, tentava di impostare il discorso sulla carità in termini teorici. «Maestro», chiese a Gesù, «che cosa devo fare per avere la vita eterna?». Proprio la domanda azzeccata per una brillante discussione accademica. Ma la risposta di Gesù è addirittura tagliente nella sua concretezza. «Chi può saperlo meglio di te, che sei dottore della legge?», sembra dire il Maestro. «Smettila di giocare con le parole e i concetti… Piuttosto, metti in pratica la carità con Dio e con il prossimo!». Ma quello insiste: «E chi è il mio prossimo?».
Allora Gesù, che rifiuta di cadere nel tranello dei ragionamenti astratti, racconta un fatto di vita, la famosa parabola del buon Samaritano.
1. Lettura (Luca, 10,30-37)
«Un uomo»,  narra Gesù, «scendeva da Gerusalemme a Gerico e cadde nelle mani dei briganti. Gli portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo mezzo morto.
Per caso, un sacerdote scendeva per quella strada; vide l’uomo ferito, cambiò marciapiede, e passò oltre. Anche un levita del tempio giunse in quel luogo; anche lui lo vide, lo scansò e proseguì. Invece un uomo della Samaria, che era in viaggio, gli passò accanto, lo vide e ne ebbe compassione.
Gli andò vicino, versò olio e vino sulle sue ferite e gliele fasciò. Poi lo caricò sulla sua cavalcatura, lo portò in una locanda e si prese cura di lui. Il giorno dopo tirò fuori due monete d’argento, le diede al padrone dell’albergo e gli disse: “Abbi cura di lui, e anche se spenderai di più, ti pagherò io, al mio ritorno”».
A questo punto il dottore della legge si sarà interrogato sul senso e sulla pertinenza di quella risposta. Ma Gesù lo precede, e formula a sua volta una domanda: «Secondo te, chi di questi si è comportato come prossimo per quell’uomo che aveva incontrato i briganti?». «Naturalmente», risponde il dottore, «quello che ha avuto compassione di lui». E Gesù: «Va’, e comportati anche tu allo stesso modo».
In definitiva, il Signore ribalta la domanda dell’israelita, e gli fa capire che non ha senso interrogarsi astrattamente su «chi è il mio prossimo». Domande di questo genere tradiscono il disimpegno. Invece di perdere il tempo, fatti tu prossimo: questa è la carità…
2. Meditazione
Per meditare la parabola è opportuno scandirla in quattro momenti.
* Il primo momento è come un’introduzione scenica. In alto sta Gerusalemme, con le sue mura sicure, le case accoglienti, il tempio di Dio che offre bellezza e protezione. Mille metri più in basso, Gerico si stende nella bassa valle del Giordano, a trecento metri sotto il livello del mare: tra le due città corre una zona aspra e desertica, con una strada piena di imprevisti e di pericoli. Un uomo, che scende da Gerusalemme a Gerico, incappa nei briganti, che gli portano via tutto, lo bastonano e fuggono, lasciandolo mezzo morto sulla strada.
* Il secondo momento della parabola rappresenta il penoso spettacolo della durezza di cuore. Un sacerdote e un levita, che percorrono quella strada, scassano l’uomo ferito e passano oltre, senza prestargli alcun soccorso.
* Il terzo momento è il centro di tutta la narrazione. Consta di una sola parola greca (esplanchnísthe), che significa «fu mosso a compassione». Dei tre verbi, con cui l’evangelista descrive il primo incontro del samaritano con l’uomo derubato e ferito (gli passò accanto, vide, ne ebbe compassione), il più importante è proprio quest’ultimo, ebbe compassione. Come il padre del figlio prodigo (Luca 15,20), il buon samaritano si commosse, ed ebbe compassione di quel poveretto.
In tutti e due i casi, l’evangelista usa un verbo greco un po’ raro, che allude propriamente a un movimento fisico, a un sussulto delle viscere e del cuore. E’ come se voi, mentre guidate la macchina, vi trovaste davanti, all’improvviso, un ostacolo, magari un grosso camion. Allora facciamo così: ah…
Luca designa in questo modo l’intensa commozione e pietà da cui fu afferrato quel samaritano, che andava per la sua strada.
Non dobbiamo pensare a un semplice e superficiale «intenerimento» del cuore. Poche pagine prima, la stessa parola è usata per descrivere la compassione di Gesù dinanzi al funerale del figlio della vedova di Naim (Luca 7,13); e all’inizio dello stesso Vangelo, Luca impiega un termine simile quando afferma che «grazie alle sue viscere di misericordia» Dio ha visitato il suo popolo (1,78).
Dobbiamo pensare dunque che con il verbo «fu mosso a compassione» si allude a un evento misterioso che è accaduto nel cuore del samaritano e lo ha, per così dire, attratto nello stesso movimento di misericordia con cui Dio ama il suo popolo. La carità è la vita stessa di Dio. Chi pratica la carità partecipa di questa vita. È «figlio di Dio», direbbe Giovanni.
* Il quarto momento è una conclusione movimentata, tutta premura e azione: il samaritano si avvicina allo sfortunato, si fa prossimo, versa vino e olio sulle ferite, le fascia; carica lo sconosciuto sulla propria cavalcatura e lo porta alla locanda; infine, sborsa due monete d’argento per le cure che saranno necessarie. Sa che il poveretto può aver bisogno di tante altre cose; allora dice al padrone della locanda: «Abbi cura di lui e, anche se spenderai di più, pagherò io quando ritorno».
3. Per la preghiera e per la vita
Ognuno dei momenti, in cui è scandita la parabola evangelica, suggerisce una riflessione utile per il discernimento e la conversione.
*Il primo momento rappresenta la missione del credente nella storia. Gerusalemme, la città salda e compatta, la casa della preghiera e della lode di Dio, invia i suoi fedeli a Gerico, la città del mondo, indaffarata in mille commerci e impegni.
L’uomo di Gerusalemme non può restare arroccato nelle sue sicurezze gratificanti. Non può vivere in sagrestia. La tentazione di trattenere gelosamente fra le mani l’esperienza dell’incontro con Dio è sempre attuale. Ma il credente è «mandato al mondo». Deve testimoniare. Il cammino della missione è l’itinerario della carità, il tragitto nel quale egli viene continuamente interpellato dalle mille esigenze del servizio al prossimo.
* Il secondo e il terzo momento rappresentano una domanda ineludibile, in linea con il radicalismo evangelico: tu, da che parte stai? Sei uno dal cuore duro, che passa oltre rispetto alle attese del prossimo, o sei uno dal cuore misericordioso, uno che sa prendersi cura? Non c’è una terza via. Le tue scelte, il tuo comportamento ti giudicano. O sei come il sacerdote e il levita, o sei come il samaritano.
La cosa è tanto più inquietante, se si pensa che il sacerdote e il levita potevano anche avere i loro buoni motivi per non fermarsi: forse erano in viaggio per un ministero urgente. Ma il semplice fatto di passare oltre li giudica per sempre, e li condanna. Hanno il cuore duro, non conoscono le viscere di misericordia del loro Dio.
* Il quarto momento dice che non basta la commozione di un istante per praticare efficacemente la carità.
Stando alla parabola evangelica, le viscere di misericordia devono suscitare una catena organizzata, una serie di conseguenze pratiche, in cui si svela tutta la concretezza del servizio al prossimo. Il buon samaritano non solo si avvicina allo sfortunato, facendosi prossimo, ma versa vino e olio sulle ferite, le fascia; carica lo sconosciuto sulla propria cavalcatura e lo porta alla locanda; sborsa due monete d’argento per le cure che saranno necessarie. La cosa più bella è che non lo abbandona al suo destino: «Abbi cura di lui», dice all’albergatore, «e, anche se spenderai di più, pagherò io al mio ritorno».
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Non basta «provare compassione» per i due bambini su tre che fanno la fame; non basta «scaricarsi la coscienza» con un’offerta più o meno generosa. Occorre progettare il servizio della carità in modo più ampio e complessivo, fino a coinvolgere in esso tutta la nostra vita. L’impegno della carità non è un sentimento di vaga compassione o di superficiale intenerimento per i mali di tante persone, ma la determinazione ferma e permanente di impegnarsi per il bene comune: ossia per il bene di tutti e di ciascuno.
Così non è più una semplice questione di portafogli (per quanto l’elemosina sia sempre considerata nella tradizione della Chiesa come un’opera di misericordia insostituibile). Piuttosto, è in questione il progetto globale della nostra vita, che deve essere sempre interamente orientata al dono di sé: nulla più mi appartiene in proprio (salute, simpatia, intelligenza, cultura, lavoro, studio, risorse varie…).
Tutto questo è per il servizio dell’Altro, con un occhio di privilegio a chi ha più bisogno.
«Quello che spenderai in più, lo pagherò io, quando ritorno». L’impegno per la carità non conosce confini. C’è sempre qualche cosa di più da fare e da spendere. Ma chi  pratica la carità sa che nulla va perduto: la vita donata vince la morte, e vive per sempre.
Possiamo concludere la nostra lectio dicendo che quel «sussulto di amore e di misericordia» del buon samaritano – che poi è il «sussulto di amore e di misericordia» del nostro Dio – deve tradursi in una vita interamente orientata alla carità.
In questo lavoro delicato di traduzione ci guida il Messaggio del Papa per la Quaresima nell’Anno della Fede: un Messaggio che – a questo punto – porteremo nel nostro cuore, quasi come un solenne testamento.
«Una fede senza opere» – osserva Benedetto XVI – «è come un albero senza frutti. Queste due virtù», la fede e la carità, «si implicano reciprocamente. La Quaresima ci invita proprio, con le tradizionali indicazioni per la vita cristiana, ad alimentare la fede attraverso un ascolto più attento e prolungato della Parola di Dio e la partecipazione ai Sacramenti, e, nello stesso tempo, a crescere nella carità, nell’amore verso Dio e verso il prossimo, anche attraverso le indicazioni concrete del digiuno, della penitenza e dell’elemosina» (n. 3).
Sia veramente così per noi!
Il «sussulto d’amore e di misericordia» del nostro Dio diventi il progetto della nostra vita, dentro alla fede della santa Chiesa. E questo «sussulto d’amore» faccia ripartire la grande corsa verso la santità.
Santità, lo sapete, significa semplicemente «essere felici di qua e di là».
Siate dunque felici, amici miei: siate santi!