giovedì 28 marzo 2013

Quanto una vita intera.



Era il funerale di un ventenne eppure traspariva una strana bellezza, fatta di un dolore discreto, non disperato. C’era di più della fine negli occhi di chi ha accompagnato Luca Cecarini a morire. La sofferenza si mischiava ad un oltre visibile nello sguardo della sorella Alessandra, che esile e composta salutava i presenti. Pareva patire amore, come se quel fratello fosse ancora presente, perché Luca in così poco tempo ha lasciato un segno indelebile, ora davanti agli occhi di tutti: «Sappiamo che sei ancora presente», ha detto un amico dal pulpito.
400 AMICI. Così sabato 23 marzo la chiesa di San Felice (Segrate) era piena fino al sagrato. Gli amici di Luca saranno stati circa 400. «Perché ci hai insegnato a vivere, a lottare, ci hai mostrato che la vita è bella anche quando è faticosa e che le amicizie hanno un grande valore. Ci hai contagiato». A parlare salutando «Luchino», come lo chiamavano tutti, è l’amico che legge dal pulpito. Ricorda Luca sfrecciare sulla sua Lamborghini, «la tua GaGa superleggera», vivere tutto fino alla fine: «Non ti sei mai arreso, la vita l’hai gustata e l’hai trasmessa anche a noi». Eppure immagineresti solo un calvario fatto di una protesi, di chemioterapie aggressive e di ripetuti interventi al polmone. Invece no. Luca guardava ad altro: «Anche se non è semplice, l’obiettivo è di non farmi vincere dalla malattia. È durissima ma ce la si può fare», spiega il ragazzo in un video girato nel 2011 dopo un’operazione.
LA MAMMA E LA MALATTIA. Luca si ammalò di tumore nel 2010, alla notizia molti amici del ragazzo, della sorella e di suo marito Andrea cominciarono a pregare per lui. Ma non solo, perché la voce si sparse e iniziarono ad arrivare post sulla sua pagina Facebook e notizie da tutta Italia: gente inaspettata, anche non cattolica come era Luca, faceva sapere che stava chiedendo aiuto a Dio. Tanto che la sua camera in poco tempo si era riempita di oggetti religiosi provenienti da ogni dove: «Sono tantissime le persone che nemmeno conosce che stanno pregando», raccontava un anno fa la sorella Alessandra a una ragazza che senza aver mai incontrato il fratello aveva cominciato a pregare. Di Luca si sapeva che amava ballare, andare in barca, godersi il mare della Sardegna dove volava appena possibile. Che era un ragazzo normale, simile alla maggioranza dei suoi coetanei, ma che la malattia stava cambiando. Prima ancora del tumore, però, era stata la morte della madre Marina, quando aveva appena 13 anni, a dare la svolta. Anche se la “conversione” di Luca non cambiò le cose che faceva, il carattere, né tanto meno lo “stile di vita” mondano: «I will never change – ripeteva sempre – perché la sfida vera non è guarire, ma non cambiare». E infatti fra un’operazione e l’altra, in un cammino di croci e gioie, ha continuato a ballare, a guidare la sua auto sportiva, a viaggiare appena ne aveva le forze, a fare quello che aveva sempre fatto. Solo in un modo diverso, più profondo. Perché dopo la morte della madre, «ho iniziato una nuova vita», quella che «ti rendi conto essere la vera vita». La stessa appunto, ma vista con gli «occhi di un uomo». Così scriveva il 22 aprile scorso, giorno del suo ventesimo compleanno, in una lettera pubblicata sul libro Io Dopo, scritto da Lorenzo Spaggiari, il chirurgo che lo operò.
luca mare«È MALATO E LO INVIDIO». «Lo invidio… è malato e lo invidio… ha affidato tutta la vita a Gesù e vive ogni istante fino al midollo, non si perde nulla, gusta ogni cosa. È più libero di me. Dice che lo sostiene il Signore. Ultimamente è lui che ricorda a me di andare a Messa tutti i giorni», sono le parole del cognato Andrea, circa tre mesi prima della morte del giovane, ai suoi amici della fraternità di Comunione e Liberazione. E chi l’avrebbe mai detto di uno che sembrava non c’entrare molto con la Chiesa?
Ma «l’uomo è qualcosa di così ampio, multicolore, variegato che ogni definizione gli sta un po’ troppo stretta (M. Scheler)», si legge sotto la foto di Luca in un suo album. Ed è l’unica che pare azzeccarci: «Non lo definivi, era fuori dagli schemi e non aveva bisogno di parlare troppo del suo rapporto con chi ci dà la vita, lo testimoniava molto anche vivendo», continua Andrea. «Non sappiamo nemmeno bene come sia arrivato a Gesù… Sicuramente le preghiere di mezza mondo, della fraternità dei miei, degli amici del movimento e non. La compagnia dei miei genitori, l’affetto del papà Roberto, dei professori. Ma resta qualcosa che sfugge».
Come quando Luca parlò un anno fa ad alcuni «miei amici di come capisse che la vita era solo il rapporto con Chi gliela dava. Era un problema di significato. Mi sorpresi quando mi raccontarono questo fatto». Il cognato si stupisce anche della profondità delle frasi con cui Luca racconta la sua storia nella lettera: «Mia madre si è ammalata (…) questo è stato il processo che ha portato un ragazzo di 13 anni, all’inizio della propria vita, a vedere le cose in maniera diversa da come avrebbe fatto altrimenti, incominciare a capire che le cose che avevo non erano scontate».
Sono le stesse frasi che risuonano nell’omelia di don Eugenio Nembrini, il sacerdote rettore del liceo milanese che frequentava: «Luca viveva intensamente, non distratto, ricordandoci cos’è la vita». «Non mollare mai… la vita è così bella», disse alla guida della sua auto mentre in sottofondo il ritornello di una canzone ripeteva: “Ho voglia di non fermarmi mai”. Ma cosa intendeva per vita Luca lo spiegava così nella lettera: «Penso che la vita ci sia donata per capire e per amare, ma non si può amare senza capire e non si può capire senza vivere, e per vivere intendo affrontare tutte le emozioni che ci si presentano. Dolore, amore, nostalgia, paura, stupore, tutto». Quelle che spesso si evitano per paura. Infatti, continua Luca, «confido sempre di avere questa capacità di stupirmi delle cose, di affezionarmi alle persone, e di non congelarmi, di non staccarmi dalla vita, cosa che questa terribile malattia continua minacciosamente e subdolamente a tentare di fare». «Pur avendo una malattia rara e avendone passate tante, io non mi definisco mai uno Sfortunato ma un gran Fortunato, sì fortunato, perché sto vivendo la vera vita, e ritengo sfortunati quelli che hanno tutto», ma «vivono solo come presenze vaganti in una società sterile».
Per questo motivo il ragazzo scelse di non cambiare e di dare la vita «con un obiettivo»: quello di «regalare ai miei amici ciò che questa esperienza mi sta dando, sperando che un giorno anche loro possano avere quel sorriso che non viene sconfitto da percorsi durissimi come il mio». Lo stesso che il giorno della morte di Luca riusciva ad apparire sporadicamente sul viso di Alessandra. E che si scorgeva sul volto in lacrime di molti presenti in Chiesa mentre l’amico dal pulpito continuava: «Appena qualcuno di noi amici si buttava giù tu facevi di tutto per trovare il modo di tirarci su…».
luca amiciLA SORGENTE DELLA FORZA. Da dove tanta forza? Luca lo ha rivelato, sempre inaspettatamente, e con una tenerezza diversa dalla spavalderia del suo solito gergo, nei suoi scritti: «Grazie a una grande fede e al supporto di persone molto care e vicine, sono riuscito a costruire qualcosa di solido e avere quel maggiore amore per le cose (…) devo tanto anche alle persone che ho incontrato in questo cammino, come Simona una bimba di 3 anni a cui mi ero molto affezionato», con «gli occhi non di una bambina di 3 anni, ma di una guerriera, che con la sua piccola protesi alla gamba saltellava per i corridoi della chemioterapia e giocava sulle mie ginocchia». Si ringrazia poi un amico che non c’è più, ma che «non è stato mangiato dalla depressione». E ancora: «Io dico sempre che non è tutto merito mio; è il Signore che mi dà la forza ogni giorno». Poi i messaggi, le chiamate, anche quando «ricoverato non potevo rispondere: sono state importantissime», spiega Luca nel video in cui ringrazia gli amici.
UNA VITA COMPIUTA. Il ragazzo non ha mollato fino alla fine, con il cuore che continuava a reggere più del previsto. Anche se confessò al suo medico di attendere la carezza di sua mamma, presagendo che quei suoi 20 anni, come scrisse, erano «quanto una vita intera». Una vita che così è stata. Compiuta misteriosamente fra un gruppo di amici dove quel Signore era andato a pescarlo quasi a toccare almeno un angolo del cuore di quei 500 di cui molti la fede non sapevano bene che fosse. Forse qualcuno mai lo saprà quanto Luca, ma non importa: «Come ha scritto lui, gli interessava che la gente la vivesse interamente ogni aspetto della vita senza perdere il gusto nelle prove», ripete Andrea. E probabilmente è questo che importa davvero, e non solo a lui. (Benedetta Frigerio)
(fonte: www.tempi.it)