venerdì 29 marzo 2013

Scola - Caffarra - Bianchi: Commenti alla Celebrazione della Passione



Di seguito, il testo dell'omelia del cardinale Angelo Scola, arcivescovo di Milano, durante la Messa di oggi pomeriggio, nel Duomo di Milano, per la Celebrazione della Passione e della Deposizione del Signore.

* * *


1. La Sposa contempla lo Sposo che muore
«La Chiesa contempla il suo Sposo che, morendo, si offre vittima al Padre per liberare tutta l’umanità dal peccato e dalla morte» (Orazione all’inizio dei Vesperi).
Carissimi, questa Chiesa sposa, straziata e impotente, che assiste alle ultime ore e alla morte dello sposo amato ricomprende anche noi, convocati qui ed ora ad adorare il Crocifisso. Non togliamo lo sguardo dal dramma del Golgota che sfiora la tragedia. Tutto nella celebrazione di oggi ci porta ad un’esperienza di dolore e di perdita che sembra irreparabile.
Sul Golgota si consuma il dramma della morte che milioni e milioni di donne e di uomini hanno vissuto prima di noi e vivranno dopo di noi. Il Figlio di Dio assume liberamente su di sé la malvagia ingiustizia della morte che sempre, per finire, è subita come una condanna, tanto più se è quella prematura e violenta delle vittime di tutti i tempi e di tutti i luoghi della terra, ancor più se è la morte di un innocente.
«A mezzogiorno si fece buio su tutta la terra, fino alle tre del pomeriggio». Ogni luce è spenta, ogni parola tace, il silenzio, immobile, è ritmato solo dai singhiozzi soffocati di Maria e delle altre donne. Poi, l’urlo del Crocifisso lacera l’opprimente mutismo «“Elì, Elì, lemà sabactàni? Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Vangelo, Mt 27, 45.46). Chiediamoci: è questo forse il grido della speranza mancata? No.
2. Adoriamo l’albero glorioso
Quel palo ignominioso su cui l’Innocente si lascia crocifiggere si trasforma, per la Sua offerta, inun albero glorioso. Il misterioso Servo di cui parla il profeta Isaia che si immola, muto, alla violenza dei suoi aguzzini – figura di Gesù, il Figlio dell’Uomo – non può essere annientato, preda della morte. È forte del legame indissolubile con il Padre della vita. Un legame che in quell’ora estrema lo Spirito assicura: «Il Signore Dio mi assiste, per questo non resto svergognato» (Prima LetturaIs 50,7).
La vita piena sgorga da quella morte. La salvezza degli uomini è generata dal sacrificio di Cristo: questo è l’annuncio inaudito, umanamente incredibile («Chi avrebbe creduto al nostro annuncio?» Is 53,1), eppure più di ogni altro desiderato e, ora, reso a nostra portata. «Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce e si sazierà della sua conoscenza; il giusto mio servo giustificherà molti, egli si addosserà le loro iniquità. Perciò io gli darò in premio le moltitudini» (Seconda LetturaIs 53,11). La speranza non è speranza mancata, ma speranza affidabile.
3. Passio Christi, passio hominis: la misericordia
«Egli è stato trafitto per le nostre colpe, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe siamo stati guariti» (Seconda LetturaIs53,5). La passione di Cristo assume in sé ogni possibile patire umano. Il Venerdì Santo è un mistero abissale di dolore e di amore. Persino la nostra personale morte, che ci può fare molta paura, è già custodita e vinta dalla Sua morte. Soprattutto però è vinto, se lo riconosciamo, il nostro peccato.
4. La vita della comunità cristiana: albore di resurrezione
La liturgia del Venerdì Santo si conclude con la narrazione della deposizione e della sepoltura del Signore. Il Vangelo di Matteo racconta che Giuseppe d’Arimatea si preoccupa della sepoltura e poi se ne va. Restano «sedute di fronte alla tomba: Maria di Magdala e l’altra Maria» (Mt 27,61).
Il loro fedele stare di fronte alla tomba diventi il nostro stare di fronte al Crocifisso fino alla Veglia pasquale di domani notte. Il silenzio del Sabato Santo lasci lentamente germogliare in noi la gioia incontenibile della Sua Risurrezione, caparra certa della nostra. Amen.

* * *
Di seguito il testo dell'omelia che il Cardinale Carlo Caffarra, arcivescovo di Bologna, ha pronunciato oggi pomeriggio durante la Messa per la Celebrazione della Passione del Signore, nella Cattedrale di San Pietro:
* * *
Anche fra noi, in questo momento, si sta compiendo la profezia ricordata da Giovanni: stiamo volgendo lo sguardo a Colui che abbiamo trafitto. “Abbiamo trafitto”, ho detto. Siamo forse responsabili, ciascuno di noi è forse responsabile della morte in croce di Gesù? Lo abbiamo sentito dal profeta nella prima lettura. «Egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori»; ed ancora più chiaramente: «noi tutti eravamo sperduti come un gregge; ognuno di noi seguiva la sua strada; il Signore fece ricadere su di lui l’iniquità di noi tutti…Egli è stato trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità».
Il profeta dunque afferma la nostra responsabilità e ne spiega esattamente la ragione. Siamo responsabili, ciascuno è responsabile della morte di Cristo a causa dei propri peccati. E’ il peccato la causa della morte di Cristo.
Ogni volta che facciamo la nostra professione di fede diciamo: “fu crocefisso per noi sotto Ponzio Pilato, morì e fu sepolto”. La fede della Chiesa, che noi facciamo nostra, non si accontenta di narrare il fatto della passione e dalla morte di Gesù. Essa ne dice anche il senso fondamentale: «per noi [pro nobis]».
E’ una formulazione della nostra fede cha appare fin dall’inizio, come attestano molti scritti del Nuovo Testamento. Cari fratelli, queste semplici due parole, “per noi”,  ci introducono nel mistero centrale della nostra fede: la Croce è la suprema manifestazione dell’amore di Dio verso l’uomo.
Quando nella professione di fede diciamo “fu crocefisso per noi”, diciamo che Gesù è stato crocifisso per la nostra salvezza. L’apostolo Paolo scrive ai Galati: «mi ha amato e ha donato se stesso per me» [Gal 2, 20]. La salvezza è sempre liberazione da un pericolo, da un rischio, da un male che ci ha colpito. Ci ha liberati dal peccato; e dalla conseguenza più tragica del medesimo, la rottura con Dio fonte della vita, e quindi la morte.
Qualcuno potrebbe chiedersi: “che bisogno c’era che Cristo morisse sulla croce per liberarci dal peccato e dalla morte? non poteva Dio, nella sua onnipotenza, semplicemente perdonarci e rinnovarci, rimanendo nella sua condizione divina: dal di fuori – per così dire – e dal di sopra?”
Cari fratelli e sorelle, qui tocchiamo la dimensione più commovente del mistero della Croce. Quando noi diciamo “fu crocefisso per noi”, noi diciamo: fu crocefisso, è morto al nostro posto. Ha deciso di morire la nostra morte; di condividere la nostra condizione. “Per noi” significa: in luogo di noi; al posto di noi; in nome di noi. La Croce è il mistero della sostituzione di ciascuno di noi da parte del Figlio di Dio fattosi uomo.
E’ ancora l’apostolo Paolo che ci istruisce: «Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della legge», cioè dalla morte; in che modo? «divenuto maledizione per noi» [Gal 3, 13]. Cioè: la maledizione mortale, che ci è stata inflitta a causa del peccato, è stata assunta da Gesù con la morte, accettando Lui stesso di morire.
In questa sostituzione c’è un’infinita tenerezza. Abbiamo sentito nella seconda lettura: «non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia compatire le nostre infermità, essendo stato lui stesso provato in ogni cosa, come noi». «Come noi» dice la Scrittura. Non “quasi come noi”, non “in modo abbastanza simile a noi”. Egli conosce fino in fondo il nostro soffrire.
Quando sarà il momento della nostra morte, non saremo soli. Egli ci dice: “non avere paura; io ci sono già passato; dammi la mano e oltrepassiamo assieme la valle oscura”. Vedete, cari fratelli e sorelle, come la morte di Gesù ha trasformato dal di dentro tutta la nostra vicenda umana, perché le ha dato un senso indistruttibile. «Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia, per ricevere misericordia e trovare grazia ed essere aiutati al momento opportuno».
Mi piace concludere con le parole di S. Bernardo, che contempla il costato trafitto del Signore: «E’ aperto l’ingresso al segreto del cuore per le ferite del corpo; appare il grande sacramento della pietà; appaiono le viscere della misericordia del nostro Dio… Nessuno infatti ha una compassione più grande di colui che dà la vita per gli schiavi e i condannati» [Sermoni sul Cantico dei Cantici, Sermone 61, 4].
* * *

Bose, 29 marzo 2013 
  Omelia di ENZO BIANCHI
per la Liturgia della croce


Anche oggi Dio ci ha parlato e noi abbiamo ascoltato la sua Parola. Si tratta ora semplicemente di ruminare in noi questa parola, di considerarla, in modo da prolungare la nostra assiduità con la Parola che ci dà la vita.
In questa liturgia l’unità delle tre letture è evidente. Nel profeta Isaia (cf. Is 52,13-53,12) viene presentato dal Signore il suo Servo, un Servo che ha successo, un Servo che trova consenso, un Servo che viene esaltato, potremmo dire un Servo la cui missione è veramente compiuta. Ma ecco che improvvisamente questo Servo così glorificato, così esaltato, diremmo così accolto da tutti, viene presentato come un Servo che non ha bellezza né splendore, un Servo che in realtà non attira, un Servo che non ha un parola, che è diventato afono e muto: se aveva una parola, l’ha persa, se aveva un volto che poteva richiamare gli sguardi a lui, ora ha un volto dal quale ci si allontana con lo sguardo. È il volto di qualcuno che ha perso la sua forma, non è neanche più un volto. Girolamo, con la sua intelligenza spirituale, finisce per tradurre, non certo fedelmente all’ebraico: “Nos putavimus eum quasi leprosum”, “lo abbiamo ritenuto come un lebbroso” (Is 53,4 Vulg.), il lebbroso che fa ribrezzo, il lebbroso la cui vista è insostenibile. Ma come è possibile, come è possibile tutto questo? E alla presentazione che il Signore fa del suo Servo, ecco che intervengono le moltitudini, le quali sommessamente cominciano a interrogare se stesse: come è possibile? Come è possibile?

E mentre leggono i segni di questo rigetto, di questa passione del Servo, cominciano a comprendere che in realtà sono proprio loro, le moltitudini, che hanno causato questo al Servo: “Noi lo credevamo castigato da Dio, ma eravamo noi in realtà che abbiamo dato colpi a questo Servo, che lo abbiamo sfigurato”. Nella seconda lettura (Eb 4,14-5,10) c’è un sommo sacerdote, meglio, un sacerdote dei sacerdoti, il quale avendo partecipato in tutto alla nostra umanità, quando deve entrare nel Santo dei santi per portare i peccati del popolo, vi entra una volta per sempre, definitivamente, e in un santuario che è Dio stesso. Nella passione secondo Giovanni che abbiamo ascoltato (Gv 18,1-19,37), questo Servo di Isaia e questo sacerdote dei sacerdoti della Lettera agli Ebrei, è semplicemente Gesù di Nazaret che nella sua passione ha realizzato pienamente sia la figura del Servo, sia la figura del sacerdote dei sacerdoti.
 Ma noi ci soffermiamo, come tutti gli anni, soprattutto sul racconto della passione secondo Giovanni, questo lungo racconto che si snoda dall’arresto al di là del torrente Cedron fino alla sepoltura nel giardino, dove Gesù, ormai morto, viene deposto da alcuni tra i suoi amici. Il racconto è lungo, non possiamo commentarlo per intero: sostiamo quest’anno sull’incontro tra Gesù e Pilato, il procuratore romano che a Gerusalemme rappresentava l’imperatore e dunque rappresentava il potere totalitario imperiale in quella Giudea che ormai da un secolo era stata conquistata e continuamente vessata e dominata da Roma. Nel quarto vangelo, il vangelo “altro”, la passione non è tanto una cronaca teologica degli eventi, ma è soprattutto un racconto della gloria di Gesù, è una lettura che è possibile fare solo nella fede, è un racconto di esaltazione e di glorificazione, anche quando Giovanni oggettivamente racconta un rigetto, una passione, degli scherni. È un racconto della gloria, gloria dell’amore, e nella passione secondo Giovanni c’è un crescendo di manifestazione, c’è un susseguirsi di epifanie dell’amore, fino al culmine, quando Gesù consegna il suo Spirito nell’ora della croce (cf. Gv 19,30).

Gesù è uscito con i suoi discepoli, è andato al di là del torrente Cedron – precisa Giovanni – “sapendo tutto quello che gli doveva accadere” (Gv 18,4). Siamo di fronte a un’espressione analoga a quella trovata ieri sera, all’inizio del racconto della cena: “Gesù, sapendo…” (Gv 13,1.3). E Gesù – si badi bene – ha una conoscenza umana, secondo Giovanni, umanissima; non è la conoscenza del superuomo e neanche di una persona divina. È la conoscenza di un uomo esercitato come una sentinella all’attenzione, all’ascolto, di giorno e di notte. Gesù ha letto e compreso bene la vicenda del suo rabbi, Giovanni il Battezzatore, e di tutti i profeti che lo hanno preceduto: ne aveva visto la fine, non poteva essere altrimenti anche per lui. Ha vissuto ormai mormorazioni, diffidenze, ostilità, calunnie, ma Gesù sa che deve anche subire il rigetto e la condanna: queste sono davvero vicine. E quando arrivano ad arrestarlo, è Gesù che si presenta, è lui che va verso le guardie, è lui che domina la scena e pone la domanda: “Chi cercate?” (Gv 18,4.7), con una forza che non è divina ma semplicemente umana, una forza che viene dalla sua convinzione, una convinzione nutrita per tutta una vita dall’aver ben osservato, ben ascoltato e dall’essersi esercitato in quell’adesione alla realtà. L’unica preoccupazione che Gesù ha è quella degli altri: i discepoli siano lasciati andare via…

E così è trascinato da Anna e poi da Caifa, sommo sacerdote o sacerdote dei sacerdoti in quell’anno. Davanti a colui che aveva profetizzato: “Conviene, è una cosa buona che un uomo solo muoia per tutto il popolo” (Gv 11,50; 18,14), Gesù è al suo posto, con la postura di chi, pur fatto oggetto, fatto cosa, mantiene la sua convinzione e la sua forza. Ed è significativo che questo interrogatorio di Gesù da parte del sacerdote capo sia un interrogatorio molto breve; è molto più descritto, eventualmente, l’interrogatorio di Pietro. Pietro è interrogato tre volte, Gesù una sola volta. Pietro è interrogato tre volte, e per tre volte nega di essere stato un uomo coinvolto nella vita di Gesù, di essere stato un suo discepolo. Paura, superficialità, intontimento spirituale? Certo, Pietro non sa cosa dire e non capisce neanche quello che stava succedendo: non era né una sentinella, né un profeta, né a questo si era esercitato. Gesù invece nell’interrogatorio brevissimo – una sola domanda – in realtà non risponde, ma dice: “Io ho parlato apertamente al mondo (egò parrhesía leláleka tô kósmo: Gv 18,20), ho parlato conparrhesía, non ho niente da dire a te, sacerdote dei sacerdoti”. Non solo, gli dice: “Interroga loro, interroga i discepoli” (cf. Gv 18,21), quelli che lo avevano ascoltato. Ma i discepoli significativamente non ci sono; c’è soltanto Pietro che, proprio a questa interrogazione che gli viene fatta, e neanche nel contesto solenne, da parte del sommo sacerdote, ma semplicemente da parte di alcuni personaggi minori, per tre volte nega la sua appartenenza a Gesù. Gesù dice: “Non ho mai parlato di nascosto”, perché era un uomo di una sola parola, e quando aveva emesso una parola non la ritirava e non la nascondeva.

Ma il confronto diventa ancora più chiaro tra Pilato e Gesù, tra il potere romano totalitario e il profeta di Nazaret. C’è un’accusa? Costui è un malfattore, o meglio, è una persona che è diventata nociva alla comunità di Israele. Questa era l’accusa con cui la comunità religiosa, rappresentata dai sommi sacerdoti, aveva consegnato Gesù ai pagani. Tutto il processo di Gesù di fronte a Pilato è narrato solo con lo scopo di rendere chiara l’innocenza, la giustizia di Gesù, il suo non aver mai violato il diritto romano. Pilato interroga Gesù, ma deve poi dire a quei giudei che glielo hanno consegnato: “Io non trovo in lui nessuna colpa” (Gv 18,38). E tre volte, tre volte Pilato esce verso la folla e i sacerdoti per dichiarare la non colpevolezza di Gesù. Gesù è riconosciuto giusto dal procuratore stesso, non colpevole di violazione della legge. Pilato per tre volte lo dichiara in modo aperto, pubblico, dopo aver invitato a fare accuse contro Gesù, dopo averlo interrogato, addirittura dopo averlo fatto flagellare presentandolo alla folla come uomo sfigurato dalle torture, se mai la folla si convincesse ad avere pietà di un uomo senza volto, di un uomo talmente disarmato da essere facilmente ridotto a vittima, senza resistenza. Pilato arriva addirittura al punto di volerlo liberare, lo avete ascoltato: “Pilato cercava di liberalo” (Gv 19,12), cercava, ma la folla, quella folla presente grida: “Crocifiggilo!” (Gv 19,15), e i sacerdoti capi accusano Gesù di essere un concorrente del potere di Cesare, fino a dire la bestemmia più grande, cioè che loro preferiscono avere come re Cesare, che non vogliono un altro re. È la bestemmia più grande per dei giudei, per i quali soltanto Dio era il re, come cantano numerosi Salmi (cf. Sal 9,8; 47,8; 93,1, ecc.). E così anche Pilato, pur sapendo che Gesù era giusto, a quel punto lo consegna perché lo crocifiggessero.

Ma come è stato possibile questo? Come è possibile la soppressione e il martirio di un giusto, di un uomo per altro mitissimo, disarmato, senza nessuna pretesa, di un uomo che si è difeso solo con la parola limpida e sincera? Noi a volte andiamo a cercare quando appare il male assoluto in questo mondo, ma il racconto, il racconto della passione ci mostra il male assoluto, il male assoluto – secondo l’espressione di Hannah Arendt –, il male insensato, il male che viene ad abbattersi senza che ci sia una ragione. Non a caso – dice il quarto vangelo – si compiva in Gesù la profezia del salmo: “Mi hanno odiato senza una ragione” (Gv 15,25; Sal 69,5). Gesù è giunto dunque all’ora della croce in questo modo, il male si è scatenato su di lui fino alla morte violenta, fino alla tortura, ma in un modo che noi diremmo banalissimo. È come se si fossero concentrati nell’ora della croce una serie di atteggiamenti che, presi uno per uno, sono gli atteggiamenti quotidiani e banali che noi assumiamo nella vita, atteggiamenti ordinari che producono l’abominio. Noi pensiamo che il male assoluto, l’abominio, venga da grandi disegni, venga eventualmente da poteri altissimi, distanti da noi: non è vero, il male assoluto viene da noi, da ciascuno di noi. Come è stata possibile la condanna e la morte di Gesù? Questa morte non era per Gesù un destino, tanto meno la volontà del Padre, il quale nel suo silenzio muto, unica possibilità di rispetto dell’agire dell’umanità, è restato come nascosto, assente, pur soffrendo con Gesù e in Gesù, suo Figlio, nell’ora della croce.

Quando Gesù è catturato, il racconto ci dice che i discepoli hanno preso paura e sono fuggiti. Poveri discepoli, hanno preso paura: la paura, voi sapete… Come avevano abbandonato tutto per seguire Gesù – dice il vangelo secondo Marco – così hanno abbandonato Gesù per fuggire tutti (cf. Mc 1,18.20; 14,50). Pietro, che Gesù aveva eletto come colui che tra i fratelli confessa sempre la fede in lui, per tre volte ha negato di conoscere Gesù. I giudei, fratelli nella fede di Gesù, appartenenti alla comunità dei credenti, appartenenti alla “chiesa” di Gesù, all’assemblea santa in cui Gesù era anche lui un figlio di Israele, non gli riconoscono nessuna giustizia e lo consegnano ai romani. Pilato, che conosce che Gesù non è colpevole, che ha capito che semplicemente era conveniente in politica assecondare la maggioranza di quella folla scatenata, permette la condanna. Non si può neanche dire che nel vangelo secondo Giovanni ci sia una condanna da parte di Pilato. No! E anche questo ha il suo senso: Pilato ha permesso che lo uccidessero…

Ecco, va riconosciuto che qui c’è il concentrato di ciò che ha permesso la morte in croce di Gesù: ignoranza, pigrizia, servilismo, indifferenza, paura. Se voi attribuite ciascuna di queste debolezze a una persona, fate sì che ognuno di noi si riconosca lì e non vada a cercare altrove, ognuno di noi. Perché questi sono gli atteggiamenti di uomini e donne in cui si accumulano mediocrità, paura, rozzezza, intontimento, e soprattutto le piccole menzogne quotidiane. Se prendiamo una per una le persone che erano là, erano certamente persone giudicate buone, normali, ma poi, tutte insieme, ognuna ha dato il suo contributo affinché il male si instaurasse e regnasse, magari solo con l’atteggiamento di chi non vuole entrare nel problema, di chi lascia scivolare via il problema, di chi non vigila. Sicché tutto questo nella nostra vita – non pensiamo di essere intrigati di fronte alla scena della condanna a morte di Gesù –, nella nostra vita questo che cos’è? È l’indifferenza verso il vicino, è lo zelo della gelosia, è il desiderio di non sapere, è la paura di parlare, è la mancanza di franchezza, sono le piccole menzogne, gli “arrangiamenti” della propria coscienza e magari anche buone ragioni per scusare, perché tutto – sapete – “si arrangia, si aggiusta”… Nella passione di Gesù c’è stato l’accumulo di tutti questi atteggiamenti: ecco la banalità del male, come dice Hannah Arendt, è banale in questo modo il male. Vogliamo anche subito sentire le scuse: i discepoli, poverini; Pietro, poi, stava a vedere come andava; hanno sofferto anche loro…

Ecco che cosa produce il male. Questa insensatezza del male è la responsabilità di ciascuno di noi e la responsabilità comune. Gesù sa, perché si è esercitato a vedere, si è esercitato ad ascoltare, si è esercitato a uscire da se stesso e dal proprio io minimo e ingessato per raggiungere l’altro. È questo che può rendere eventualmente un cristiano profeta, non i doni intellettuali che sono un ingombro, perché quelli portano il profeta a sedurre, non a convertire; non i discorsi sapienti, ma un esercizio, un esercizio di vista, di ascolto, di uscita da se stesso ai bordi, ai confini, giorno e notte. Che straordinario in questi giorni – almeno in questa ora lo devo dire per comunione – l’invito continuo che papa Francesco sta facendo a uscire da se stessi come è uscito Dio: la chiesa deve uscire, il cristiano deve uscire da se stesso! È inutile dire perché dunque i discepoli, Pietro, quelle persone presenti al processo di Gesù non sapevano. Questa lettura del male che si scatena su Gesù ci convince di essere noi, ciascuno di noi colpevole della sua morte, che riassume la morte, il pianto, la sofferenza di tanti uomini che sono accanto a noi e che noi facciamo solo soffrire perché magari non siamo cattivi, ma siamo semplicemente mediocri, appiattiti da una cultura che ci vuole tutti omologati e non ispirati da ciò che umanizza, bensì da ciò che obbedisce agli idoli sempre presenti.

E qui, va detto, è proprio su questo male banale, assoluto che Gesù ha detto la sua ultima parola, che non è semplicemente di perdono: stiamo attenti, stiamo attenti! Gesù non ha detto semplicemente: “Padre, perdona loro perché hanno fatto del male”. Sarebbe già un grande gesto, ma quello siamo capaci anche noi di farlo. Gesù ha detto qualcosa di più: “Padre, perdona loro perché non sanno né quello che dicono né quello che fanno” (cf. Lc 23,34). Questa è la nostra realtà: non sappiamo né quello che diciamo né quello che facciamo. Certo, questo perdono che il Signore ci dà attraverso la misericordia di Dio non può essere per noi auto-giustificazione, ma un appello a sapere quello che facciamo, a sapere quello che viviamo, a sapere quello che sentiamo. Venerare la croce, adorare il mistero della passione e morte del Signore ci deve far giungere a un’assunzione di responsabilità, a una resistenza al non sapere; in caso contrario, anche la celebrazione della passione è un esercizio estetico, patetico, una rappresentazione teatrale religiosa che ogni anno si rinnova nella settimana santa e nella quale investiamo anche dei sentimenti di dolore e di sofferenza. No, Dio ci dà il perdono, ce lo dà in Gesù Cristo, ma noi dobbiamo percepire che il Cristo che sta davanti a noi come destinatario del male che quotidianamente facciamo è colui che noi incontriamo, è il nostro prossimo, è lui in croce: il malato, l’affamato, il perseguitato, lo straniero, l’uomo bisognoso (cf. Mt 25,31-46), il peccatore, quello che è la piccola vittima del nostro vivere quotidiano senza gli altri e contro gli altri. Occorre sapere, occorre conoscere in questo modo, e saremo preservati da quello che papa Francesco chiama la pretesa gnostica ecclesiastica, una pretesa di conoscere tutto a livello ecclesiastico e di non discernere invece la realtà di Cristo nella vita degli altri.
Una delle cose straordinarie, che un tempo veniva percepita all’interno della chiesa, anche prima del Concilio, è che il venerdì santo per la gente semplice era semplicemente il giorno del perdono. Si chiamava così: il giorno del perdono. Si andava ad adorare la croce per ottenere il perdono: non si diceva altro, eppure era l’essenziale. Più tardi ho scoperto che davvero il venerdì santo è lo Jom Kippur dell’Antico Testamento e dell’ebraismo che prosegue nell’Israele fratello gemello, che sta accanto a noi. Giorno del perdono: chiediamo il perdono, ma assumiamo tutta la nostra responsabilità, perché siamo noi, ciascuno di noi, quelli che non sanno ciò che fanno e non sanno ciò che dicono.