giovedì 18 aprile 2013

La malattia della Chiesa si chiama "clericalismo"

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Il 18 aprile 2013 è stata resa nota la lettera che Papa Francesco ha inviato ai vescovi dell'Argentina riuniti nella loro Assemblea Plenaria a Pilar.
Il documento si apre con un tocco di umorismo tipico di Papa Bergoglio, il quale afferma che avrebbe dovuto partecipare alla riunione di Pilar, ma che «impegni assunti di recente» non glielo permettono. Ma è come se ci fosse.
I vescovi argentini avranno infatti riconosciuto nel messaggio del Pontefice un riassunto della sua diagnosi dei problemi della Chiesa, non solo argentina, esposta in tutti i libri del cardinale Bergoglio.
La Chiesa è malata, ma non perché parla troppo o troppo poco di temi morali, non perché le sue liturgie siano più o meno belle ed entusiasmanti, benché non si tratti certo di problemi irrilevanti. La Chiesa è malata di autoreferenzialità e di clericalismo.
Il Papa lo aveva detto con grande chiarezza nella Messa Crismale del Giovedì Santo: troppi preti, e anche troppi laici cosiddetti impegnati, passano il proprio tempo a discutere tra loro in gergo ecclesialese di problemi che interessano solo a loro, a frequentare e a organizzare corsi più o meno utili o inutili. Così si riducono a «gestori tristi» della fede, che non avvicinano, ma allontanano le masse maggioritarie che da anni hanno perso l'abitudine di andare in chiesa: i «poveri», che non sono solo quelli materiali, ma anche chi è povero di verità e di bellezza, le «periferie», che non sono solo quelle geografiche ma sono anche quelle «esistenziali» di chi è privo di sicurezza e di gioia, «dove c’è sofferenza, c’è sangue versato, c’è cecità che desidera vedere, ci sono prigionieri di tanti cattivi padroni».
In quell'occasione, non senza severità, Papa Francesco aveva affermato che «non è precisamente nelle auto-esperienze o nelle introspezioni reiterate che incontriamo il Signore: i corsi di auto-aiuto nella vita possono essere utili, però vivere la nostra vita sacerdotale passando da un corso all’altro, di metodo in metodo, porta a diventare pelagiani, a minimizzare il potere della grazia, che si attiva e cresce nella misura in cui, con fede, usciamo a dare noi stessi e a dare il Vangelo agli altri, a dare la poca unzione che abbiamo a coloro che non hanno niente di niente».
C’è purtroppo oggi, aveva aggiunto, un «sacerdote che esce poco da sé, che unge poco», che non «è capace di attivare la parte più profonda del suo cuore presbiterale» e «invece di essere mediatore, diventa a poco a poco un intermediario, un gestore». E «tutti conosciamo la differenza: l’intermediario e il gestore “hanno già la loro paga” e siccome non mettono in gioco la propria pelle e il proprio cuore, non ricevono un ringraziamento affettuoso, che nasce dal cuore». Si parla tanto di sacerdoti insoddisfatti, e qui sta la radice del problema. Troppi preti «finiscono per essere tristi, preti tristi, e trasformati in una sorta di collezionisti di antichità oppure di novità, invece di essere pastori con “l’odore delle pecore”».
«La malattia tipica della Chiesa ripiegata su se stessa - scrive ora Papa Francesco ai vescovi argentini - è l'autoreferenzialità: guardarsi allo specchio, incurvarsi su se stessa come quella donna del Vangelo. È una specie di narcisismo, che ci conduce alla mondanità spirituale e al clericalismo sofisticato».
La terapia che il Papa propone ai vescovi argentini e alla Chiesa tutta è sempre la stessa: «uscire da se stessi per andare verso le periferie esistenziali». O si fa così, o la malattia si aggrava. «Una Chiesa che non esce fuori da se stessa, presto o tardi, si ammala nell'atmosfera viziata delle stanze in cui è rinchiusa».
Certo, uscire dalle sagrestie e andare a cercare nelle «periferie esistenziali» i nuovi naufraghi dell'esistenza, che non vengono in chiesa, espone anche a rischi. «È vero - scrive il Pontefice - che, come capita a chiunque, uscendo fuori di casa si può incorrere in un incidente. Ma di fronte a questa alternativa vi voglio dire molto chiaramente che preferisco mille volte una Chiesa incidentata a una Chiesa ammalata».
L'autoreferenzialità e il clericalismo alla fine «non consentono di sperimentare la dolce e confortante gioia dell'evangelizzare». È vero, «questa gioia tante volte si accompagna alla Croce. Però ci salva dal risentimento, dalla tristezza e dalla solitudine clericale.
Questa gioia ci aiuta a essere ogni giorno più fecondi, spendendoci e impegnandoci al servizio del santo popolo fedele di Dio; questa gioia crescerà sempre di più nella misura in cui prendiamo sul serio la conversione pastorale che la Chiesa ci chiede».
Vale anche per i vescovi: «che il Signore ci liberi dal pericolo di macchiare il nostro episcopato con gli orpelli della modalità, del denaro e del “clericalismo di mercato”», che vanno sostituiti dal gusto «dell'umiltà e del lavoro silenzioso e coraggioso che viene dallo zelo apostolico».
E vale anche per il Papa, che chiede ai vescovi e ai fedeli di pregare «affinché non mi inorgoglisca – scrive – e sappia ascoltare ciò che Dio vuole e non ciò che voglio io». (M. Introvigne9
Fonte: La nuova bq