martedì 23 aprile 2013

Perchè Papa Francesco ha conquistato il cuore della gente



Fin dai primi momenti del suo Pontificato, Papa Francesco ha conquistato il cuore dei fedeli con il suo linguaggio semplice e diretto. Uno stile che desta l’attenzione anche dei non credenti e che trova particolare eco nelle omelie che, quotidianamente, il Papa tiene la mattina nella Messa alla Domus “Sanctae Marthae” in Vaticano. Per una riflessione sul linguaggio “comprensivo e comprensibile” di Jorge Mario Bergoglio, Alessandro Gisotti ha intervistato la giornalista Stefania Falasca, legata a Papa Francesco da una lunga amicizia: 

R. - Bisogna dire che le coordinate portanti dello stile di Papa Francesco si fondano proprio sul primato della parola, il primato della parola nel suo statuto comunicativo-relazionale, che vuol dire l’oralità: è il primato della colloquialità, dell’accessibilità e della chiarezza e anche della bellezza. Lui è un amante di Dostoevskij, per avere un riferimento letterario, e di Tolstoj, i quali definivano la semplicità e la bellezza “funzioni della verità”, quindi anche attraverso la scelta di parole che subito aprono e subito illuminano.

D. - “Gesù - diceva lo scrittore argentino Borges - pensava per parole e usava frasi che facevano colpo”. Certo si potrebbe dire che proprio questo fa Papa Francesco: le sue parole colpiscono immediatamente e restano…

R. - Sì, anche queste sono espressioni di un linguaggio che si può dire figurato... in due parole riesce a condensare efficacemente temi che hanno un ampio respiro, un’ampia trattazione e consentono quell’aspetto che dicevo prima: dare subito un effetto. E’ una sorta di espressionismo, anche molto tipico nella lingua spagnola, molto marcato: non sono dei "mezzucci di comunicazione". Si ridà la corporalità, la fisicità alle parole, perché tutti possano comprendere. Questo poi è anche - diciamo - un tratto tipico della comunicazione odierna, quella del web, quella del linguaggio post-moderno. 

D. - Su "Avvenire" hai scritto che il parlare di Papa Francesco è un sermo humilis...

R. - Maestro per eccellenza del sermo humilis è stato Sant’Agostino. Vuol dire parlare a tutti, vuol dire l’universalità e, allo stesso tempo, la contemporaneità, l’immersione nel divenire del mondo, che è proprio il linguaggio evangelico. E’ il linguaggio delle Sacre Scritture, è la sapienza del porgere, quella cioè che i Padri della Chiesa consideravano arte: l’omelia, l’arte di conversare semplicemente con gli uomini. Diciamo che alla base di questo c’è una natura teologica, perché Sant’Agostino condensa proprio il significato del sermo humilis in due termini che sono “utile” e “adatto”: lui dice che essendo la verità cristiana “amorosa e soave salvezza”, deve essere posta suaviter, con delicatezza, e questo per rispetto sia alla natura stessa della Salvezza, della Verità, sia tanto più al rispetto delle possibilità di recezione dell’uditore. Quindi io credo che siano queste le ragioni di un linguaggio che abbraccia ed è comprensivo del mondo e degli uomini; comprensivo quindi e comprensibile perché sermo humilis è anche caritas, lieta novella nell’accezione agostiniana. 

D. - Non c’è una strategia di comunicazione nel parlare di Bergoglio: l’unica sua vera strategia è l’adesione al Vangelo…

R. - Sì. C’è un retroterra sicuramente anche per la vastità della cultura di Bergoglio, ma quello che si esprime maggiormente è questa sua ansia di trasmettere la Parola di Dio. Io dico che il fascino di questo suo parlare che arriva a tutti, anche ai lontani e ai non credenti, è che non sono parole soltanto predicate, ma veramente vissute. “La vita è il paragone delle parole”: questo diceva Manzoni e ricordo che lui mi citò questa frase, che peraltro è nel capitolo dei Promessi Sposi da lui molto amato, quello della "Conversione dell’Innominato". La vita è il paragone delle parole. Dal suo modo di parlare si capisce quanto per lui è vero e vissuto quello che dice.
Radio Vaticana

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Esiste un pericolo più grande del peccato per un cristiano? Certo, ci dice Papa Francesco, si chiama “corruzione”. In un libretto agile, ma denso (Guarire dalla corruzione, ed. Emi), Jorge Mario Bergoglio descrive dettagliatamente l’oggetto da cui vuol mettere in guardia i fedeli.
Corruzione fa rima con decomposizione. È un processo di morte, spesso identificato al peccato, anche se le cose non stanno cosi. Stiamo parlando di due realtà distinte, anche se legate. «Peccatori sì, corrotti no!» invita infatti a ripetere il Santo Padre, in modo da evitare di considerare la corruzione una dimensione “accettabile” della vita e della società e, in definitiva, soltanto un peccato in più. Anche perché, prosegue il Pontefice, per il peccato esiste il perdono, per la corruzione no. Essa dev’essere innanzitutto curata.
Il corrotto si considera autosufficiente e si stanca di chiedere perdono. Il suo cuore è schiavo di un tesoro che lo seduce ed emana il cattivo odore della putrefazione, anche se lui non se ne accorge. Come i “sepolcri imbiancati” di cui parlava Gesù.
Nella maggior parte dei casi, la corruzione si nasconde con le buone maniere, salvando le apparenze. «Il corrotto passa la vita in mezzo alle scorciatoie dell’opportunismo… Ha la faccia “da santarellino” – prosegue il Papa –, si offende dinnanzi a qualunque critica e fa in modo che qualsiasi autorità morale in grado di criticarlo sia eliminata».
Ma c'è anche un altro tratto inconfondibile per riconoscerla: il trionfalismo. Dato che nel mondo, questi atteggiamenti danno ottimi risultati, il corrotto vince le sue battaglie e non aspetta il perdono, come il peccatore: lui ha trionfato.
“Mondanità spirituale” è la categoria di Henri-Marie de Lubac che Bergoglio usa per chiarire ancora di più: «il trionfo che confida nel trionfalismo della capacità umana, l’umanesimo pagano adattato a buon senso cristiano».
Parole pesanti come pietre, che ammoniscono ciascuno di noi. «Il corrotto non conosce la fraternità o l’amicizia, ma la complicità», insiste il Santo Padre. Non c’è libertà in un ambiente corrotto, che per sua natura è “proselitista”, tende cioè a contagiare e ad arruolare nello stato di corruzione.
Ma com’è possibile evitare di scivolare in questo cammino di morte nel quale i peccati possono rappresentare i gradini che conducono al baratro?
Oltre a saper distinguere bene peccato e corruzione, occorre vigilare («vigilate che nessuno venga meno alla grazia di Dio. Non spunti né cresca alcuna radice velenosa in mezzo a voi», dice la Lettera agli Ebrei). Anche perché non sono esenti da questo rischio persone e istituzioni religiose.
Un’anima che si accontenta rischia addirittura di vivere anche la vita consacrata come realizzazione della propria personalità e cercare una realizzazione nel “supermercato del consumismo religioso” (dove ognuno può trovare il suo spazio e la propria sfumatura, sociale, godereccia, progressista o conservatrice…).
Vigilate, quindi, ci dice Francesco, affinché il cuore non si corrompa: «Peccatori sì, corrotti no!». (R. Pozzi)
La nuova bq