mercoledì 29 maggio 2013

Davanti all’universo simbolico della liturgia: bellezza disarmante


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Due giorni a Bose. Il 30 maggio e il 1° giugno si terrà presso il monastero di Bose l’undicesimo Convegno liturgico internazionale, intitolato «Il concilio Vaticano II. Liturgia, architettura, arte». L’incontro è promosso dal monastero in collaborazione con l’Ufficio nazionale per i Beni culturali ecclesiastici della Conferenza episcopale italiana e la redazione di «Rivista Liturgica». Anticipiamo stralci dell’intervento del cardinale arcivescovo emerito di Mechelen-Brussel.
(Godfried Danneels) Nella Lettera ai Romani (1, 19) Paolo afferma che l’uomo è capace di conoscere Dio mediante la ragione naturale. Lo afferma de iure e non necessariamente de facto, poiché la ragione umana è offuscata dal peccato. Ma resta vero che Dio può essere conosciuto attraverso il ragionamento.
Ci sono tre vie che conducono a Dio: quella della verità, quella della bontà e quella della bellezza. Sono i tre universali e anche i tre nomi di Dio.
Dio è infatti la verità suprema: l’al-di-là di ogni verità conoscibile. Ogni pensiero aspira alla propria trascendenza, a un al-di-là del pensiero. Dio è inoltre la bontà-perfezione suprema ed è, infine, anche la bellezza suprema. Sono le tre porte che si aprono su Dio. Ma per l’uomo contemporaneo queste porte sono difficili da aprire. La porta della verità suscita lo scetticismo: «Che cos’è la verità?» (Giovanni, 18, 38), diceva già Pilato, seguito da tanti nostri contemporanei. La porta della bontà-perfezione è a sua volta difficile da aprire, perché tale bontà sembra troppo perfetta per l’uomo e dunque irraggiungibile. La porta della bellezza, invece, si apre più facilmente per i nostri contemporanei. La verità suscita il dubbio, la bontà lo scoraggiamento, la bellezza disarma.
Forse altre epoche hanno conosciuto di meno questi ostacoli. Ma attualmente la porta della bellezza è pressoché la sola ad aprirsi per trovare Dio e Cristo. È la via regale per il nostro tempo, nella sua ricerca di Dio. Del resto la bellezza è anche vera. Già Aristotele diceva: pulchritudo est splendor veri. La bellezza è l’alone luminoso attorno alla verità. E il bello è detto anche buono (kaloskagathòs): il bello è nel contempo buono.
La creazione è diafana: è il substrato portatore di significati che la oltrepassano. Ogni realtà visibile è “sacramentale”. Possiede il suo “mistero”: è significante di un significato. Mediante la fede tutta la creazione ci rinvia a un Creatore: a partire dall’incarnazione del Figlio di Dio il mondo ha il suo mistero “soprannaturale” in senso lato. Esso possiede una densità, uno spessore: Dio è apparso nella materia.
Tutto questo ci viene dal mistero dell’incarnazione. E Cristo, il Figlio di Dio incarnato, è il grande “sacramento”, il mistero. In lui la realtà creata è divenuta luminosa e la natura è ontologicamente fondata in Dio e lo rivela. I sacramenti propriamente detti ne sono una condensazione particolare.
San Leone dice che tutto ciò che Cristo ha fatto durante il suo passare tra noi sulla terra è ora passato nei sacramenti della Chiesa. La liturgia diventa allora il giardino degli angeli: il giardino del nuovo Eden e della sua bellezza. La liturgia è un immenso universo di simboli che fanno riferimento al mistero della salvezza e lo rendono presente.
Concetto e simbolo sono entrambi dei referenti verso un al-di-là. Ma a un grado differente. Il concetto rinvia a un al-di-là che si chiama significato. Si muove dal visibile verso l’invisibile. Ma il concetto è preciso, breve, chiaro, ben delimitato. Un simbolo, invece, rivela e suggerisce piuttosto un al-di-là. Il simbolo suscita immaginazione, emozione. Non si limita a significare: rivela, suggerisce, desta, tocca. Non informa anzitutto, tocca i sensi e il cuore. La liturgia è quell’insieme di simboli che si velano e realizzano la glorificazione di Dio e la santificazione dell’uomo sulla terra.
La bellezza viene spesso identificata con la bellezza delle forme. È la bellezza “estetica”. Ma il bello è ben più della bellezza delle forme. È un “universale”, un nome di Dio. (...) “bello” è un termine complesso, come lo è la parola ebraica shalom, che non significa semplicemente l’assenza di guerra e di violenza, ma uno stato di benessere completo, il compendio di tutto ciò che fa la felicità dell’uomo. Anche il pulchrum significa uno stato integrale e completo di tutto ciò che piace all’uomo. Questa bellezza possiede una sua forza, ma è mite e non schiaccia, non scoraggia, scaccia il dubbio. Così è anche la bellezza dell’universo liturgico: è disarmante.
La celebrazione liturgica si svolge non secondo il gusto del celebrante o dell’assemblea, ma secondo un ordine stabilito nei libri liturgici. Ciò non significa che la creatività non abbia alcun diritto, ma che sono le regole del cerimoniale a strutturare lo svolgimento della celebrazione secondo un ordine prestabilito. Il ruolo degli attori liturgici è fissato. Un cerimoniale ha una sua bellezza specifica, la bellezza del rito. I riti si ritrovano in tutte le religioni. Simboleggiano il fatto che l’azione liturgica è obbedienza a un’istanza che trascende il gusto degli “attori”. Uno svolgimento che mutasse ogni volta, significherebbe invece che l’azione liturgica trae la sua legittimità dagli attori e non è un’azione santa, legittimata da Dio e da Cristo nei suoi misteri. Certo, la variazione dell’ordo missae può produrre un’emozione più forte nell’assemblea. Ma in liturgia l’emozione non è prioritaria. Ciò che ha il primato è il celebrare il memoriale del mistero della Pasqua di Cristo e la bellezza delle azioni di Dio.
La fonte dell’azione liturgica è in alto. La festa liturgica è l’inverso della festa umana. Quest’ultima trova la sua fonte negli uomini: si festeggia l’uomo e il mondo dell’uomo. In liturgia, invece, si festeggia Dio e il suo regno, ed è in lui la fonte. L’azione liturgica è stata definita una “ergoterapia” data da Dio agli uomini, per elevarli a un mondo superiore, per renderli docili e ricettivi ai modi di agire di Dio: vivere la festa come la vive Dio.
Ora, si deve forse adattare la liturgia ai cambiamenti e alla diversificazione delle culture che mutano? Indubbiamente tale mutamento impone le sue esigenze: mantenere un’intelligibilità dei misteri celebrati. Tutte le culture hanno il loro valore. La loro sensibilità si evolve. Ma l’azione liturgica non si conforma mai interamente alla cultura circostante. Il culto non coincide con le culture. La domenica non sarà mai il lunedì. Così la liturgia non può mai essere immersa semplicemente nella dimensione culturale e imprigionata. Essa è il memoriale dei misteri di Cristo, che sono fatti storici inscritti per sempre in un dato momento della storia, che supera tutte le vicissitudini delle culture. Prendiamo l’abito liturgico del celebrante. Nulla impedisce che la forma di una casula cambi con il tempo. Ma ciò che non cambia è che quest’abito rimanga il mezzo per “disindividualizzare” l’uomo concreto che resta il celebrante.
L’originalità della liturgia cristiana consiste nel fatto di essere il memoriale dei misteri di Cristo. Tutta l’emozione viene da queste fonti.
Il sacro divino produce un’armonia pacificante, piena, un’azione di grazie, un’atmosfera di fiducia e di pace: l’atmosfera di una relazione personale e amorosa tra Dio e l’uomo. Il bello divino suscita una nuova nascita, accompagnata da una conversione morale. Si tratta di un bello che purifica e che guarisce. La chiave della bellezza, dice Gregorio di Nazianzo, è la natura umana in movimento nello spazio di una relazione nuova di amore verso Dio. Il bello liturgico conduce alla soglia del paradiso. Solo la preghiera vi entrerà.
L'Osservatore Romano