venerdì 23 agosto 2013

Che cosa fare se telefona il Papa


di Beppe Severgnini
in “Corriere della Sera” del 23 agosto 2013
«Pronto, chi parla?». «Sono Papa Francesco, diamoci del tu». È rimasto senza parole Stefano
Cabizza, studente diciannovenne di Ingegneria a Padova: e ci credo. Aveva lasciato una lettera a
Castel Gandolfo, e mai avrebbe immaginato di essere richiamato. Devo dire che mi piace, quest'idea
del Papa che telefona a perfetti sconosciuti. E richiama, quando non li trova in casa. Ma mi metto
nei panni di queste persone: cosa si dice a un Pontefice al telefono?
Uno condisce l'insalata e, con l'olio in mano, deve trovare le parole per conversare col vicario di
Cristo: mica facile. Ma il vicario in questione è affabile e spiritoso; con qualche accortezza, sono
certo, si può uscire bene dalla conversazione. Ecco, quindi, alcune piccole istruzioni telefoniche
pontificie.
a) Papa Bergoglio è forse l'ultimo a chiamare sul numero fisso. Se sentite suonare il telefono di
casa, quindi, preparatevi.
b) Se anche il Santo Padre proponesse di darsi del tu, ringraziate ma restate al classico «lei» o a uno
spagnoleggiante «voi». Evitate di andare oltre, in un senso o nell'altro. Chiamarlo «Franci» o
«Cecco» è inopportuno; esclamare «Santità!» è prevedibile; e lasciarsi andare ad appellativi
fantozziani e/o accademici — «Sommo», «Magnifico», «Megagalattico» — è grottesco.
c) Ascoltate, prima di parlare. Non introducete argomenti. Se la conversazione scivolasse sulla natìa
Argentina, chiedete al Papa come si sono comportati i connazionali quando ha ricevuto la Nazionale
di calcio (caoticamente, la delegazione era tre volte più numerosa del consentito). Già che ci siete
domandate, con tatto, cosa pensa Francesco di Ezequiel Lavezzi seduto sul trono pontificio.
d) Non abbiate paura di essere normali: la leggerezza è una dote. Se Papa Francesco avesse voluto
annoiarsi, avrebbe chiamato un ministro.
e) Non parlategli dei recenti problemi in Vaticano: non sono colpa sua e, certamente, occupano già
molti dei suoi pensieri. Se il discorso scivolasse sugli animali, vietato nominare i «corvi».
f) Papa Francesco, come dicevamo, ha il senso dell'umorismo. Ditegli che è una bella cosa, perché
l'ironia è la sorella della misericordia: permette di sorridere e perdonare le imperfezioni del mondo.
g) Chiedete di salutarvi Benedetto, gli farà piacere.
h) Non chiedete nulla di pratico: il Papa è un uomo importante, ma non è un assessore. Se
pretendete raccomandazioni, permessi, concessioni e facilitazioni il Pontefice si pentirà di aver
chiamato in Italia, e disabiliterà il prefisso internazionale +39.
i) Non chiudete la conversazione. Lasciate che sia il Pontefice a decidere quando congedarsi. Se la
mamma, la moglie o il marito, dalla cucina, gridano «Dai, muoviti, è pronto, metti giù quel
telefono!», ignorateli. Poi, versando il vino, dite: «Vi saluta il successore di Pietro. Cosa c'è di
buono, stasera?».

*

Chi banalizza papa Francesco
di Gian Luca Potestà
in “l'Unità” del 22 agosto 2013
Lo stile comunicativo di Papa Francesco ha un profilo ben definito: interventi densi e brevi,
imperniati su di un concetto principale, chiarito e rinforzato con un’espressione idiomatica, una
battuta popolare, una metafora singolare.
Un’oratoria concisa, nel solco dei grandi modelli di predicazione dei gesuiti. Con il suo parlare
semplice e schietto, capace di andare al cuore e persino (fatto altrimenti raro) di commuovere, il
Papa entra nella vita di ciascuno come un interlocutore familiare ma non scontato, da cui ci si
attende uno sguardo all’altezza degli occhi e una parola incisiva su ciò che conta. Più ancora dei
discorsi, colpiscono i gesti e lo stile, inusuali nella loro quotidianità. Il primo fu, alla fine del
conclave, la pretesa di pagare con carta di credito il conto di S. Marta. Non tutto è documentato o
documentabile, ma alla fine tutto rientra in una trama sempre più fitta di racconti che prefigurano
una sua «leggenda agiografica». Come il santo di cui ha preso il nome, Francesco diventa
protagonista di una narrazione che, nell’esaltarne la freschezza, rischia di disperdere il messaggio
nella molteplicità puntiforme dei suoi «fioretti».
In realtà, prima ancora che lo diventi per gli storici, già ora Papa Francesco è oggetto di conflitti
interpretativi. Nessuna critica esplicita nei confronti di un personaggio così popolare. Tuttavia
affiora qua e là il fastidio di apologeti di lungo corso del papato, che non riescono a nascondere il
proprio disappunto nei confronti di questo Papa in carne ed ossa: non è come lo avrebbero voluto
loro. Così, ad esempio, qualcuno puntualizza che per la Giornata della gioventù tenutasi a Manila le
presenze furono superiori a quelle di Rio; che i famosi «scarponi» di Francesco sono fatti su misura,
segno quindi di un’esigenza ortopedica e non di una presa di distanza dal modello Prada; che già
diversi suoi predecessori amavano poco la disciplina curiale, osando perfino gironzolare da soli nei
pressi del Vaticano. Argomenti che mirano a spuntare o negare la novità, riportandola entro il
quadro collaudato e rassicurante del già visto e già fatto. L’operazione è nella linea del tentativo
compiuto qualche anno fa nei confronti del Concilio Vaticano II, da parte di chi lo voleva
derubricare da evento radicalmente innovativo per i destini della Chiesa contemporanea a episodio
completamente riconducibile entro il solco del VaticanoI.
Di fronte alle tendenze riduttrici, occorre comprendere bene la posta in gioco, la questione
fondamentale che Francesco pone e affronta a modo proprio. A partire dal secolo XIX il sommo
pontefice è stato celebrato ed esaltato in termini inediti rispetto ai secoli precedenti. Dal canto suo
Francesco non si sottrae al proprio ruolo pubblico, che interpreta con consumata naturalezza, ma lo
rilancia in forma specularmente rovesciata. Siamo agli antipodi rispetto a Pio XII, che nella
rappresentazione di sé-gesti misurati, parole calibrate, figura solitaria e diafana, ieratica nel
portamento principesco - aveva contribuito alla sacralizzazione massima del proprio stato. «È morto
il papa angelico», titolò di conseguenza l’Osservatore Romano all’indomani della scomparsa. Con
Papa Francesco pare compiersi il passaggio alla riva opposta, coraggiosamente iniziato da Giovanni
XXIII. Non si tratta solo di «Papi buoni», scompare la cortina di sacralità ad opera dell’unico che
abbia il potere di ritirarla. L’informalità di Francesco mira a rompere la forma che imbalsama da
vivo la figura del pontefice, restituendola invece - corpo, gesti, parole, intonazione di voce al
mondo della vita, alla sua storia personale e al messaggio che è chiamato a diffondere e anche a
testimoniare visibilmente. Viene in mente il precedente di Marcello Cervini, eletto a metà del 500:
volle mantenere il nome di battesimo (si chiamò Marcello II), a rimarcare disse che ero Marcello,
sono Marcello, e Marcello voglio restare. I gesti semplici del Papa, nella sottolineatura enfatica
delle cronache quotidiane, rischiano però di essere ridotti a banale ferialità, piuttosto che essere
compresi nella loro forza di rottura. In questo senso l’immagine più eloquente dei primi mesi di
Francesco è piuttosto quella del trono vuoto. Nell’iconografia tradizionale, a partire dal Medioevo
bizantino, il trono vuoto è segno di sventura: indica un abissale vuoto di potere, generalmente dovuto a irrisolti conflitti dinastici. In questo caso, invece, mostra la libertà del Papa rispetto a un
ordine di precedenze e convenienze di solito rispettate fino in fondo; e iniziando la propria «visita
pastorale» da Lampedusa, il primate d’Italia delinea un orizzonte alternativo di priorità e decisioni.
Nulla di nuovo sul piano dottrinale, si dirà. La novità è pastorale (cioè, nello stile e nella pratica di
governo, il che non è poco), e si traduce in una scelta evangelicamente ovvia e tuttavia inaudita. Le
implicazioni sociali e culturali dello «sguardo dal basso» non dovrebbero d’altra parte far passare
sotto silenzio la vibrazione intimamente teologica dei suoi interventi. Se la si perde di vista, parole e
gesti rischiano di essere altrettanto impoveriti e appiattiti. La settimana scorsa Claudio Magris ha
commentato sul Corriere della Sera con ammirazione e simpatia un twitter del Papa: «Tutti noi
siamo vasi d’argilla, fragili e poveri, ma nei quali c’è il tesoro immenso che portiamo». E ha voluto
leggervi soprattutto un richiamo cordiale e incoraggiante ad accettare la debolezza della condizione
umana, persino «una sfida a mettersi insieme a dare un buon colpo a qualche prepotente vaso di
ferro che così impara ad andare in pezzi anche lui». A esplicitare il riferimento sotteso, ecco il box
accanto all’articolo con l’inevitabile rinvio a don Abbondio. Così però si resta al di qua del senso
profondo della frase, che forse si comprende meglio ricordando le parole della Seconda Lettera ai
Corinzi (cap. 4), dove Paolo afferma: «Dio disse: Rifulga la luce dalle tenebre, e la luce rifulse nei
nostri cuori, per far risplendere la conoscenza della gloria divina che rifulge sul volto di Cristo. Però
noi abbiamo questo tesoro in vasi di creta, perché appaia che questa potenza straordinaria viene da
Dio e non da noi».
Il messaggio del Papa si ricollega in fondo a quello della sua prima enciclica: «La fede non è luce
che dissipa tutte le nostre tenebre, ma lampada che guida nella notte i nostri passi, e questo basta per
il cammino». Nei primi secoli Gesù veniva appunto presentato come fotòforo, portatore di una
torcia accesa nella notte. Senza indulgere al pessimismo negativo e alle recriminazioni tante volte
ripetute nei confronti del mondo secolarizzato che non ascolta, non capisce e non segue il
magistero, Francesco preferisce riportare in primo piano, con la fragilità dei vasi d’argilla, il tesoro
di luce che contengono.