martedì 20 agosto 2013

Dalla bocca del vulcano di Rio



Il cardinale Turkson rilancia il messaggio della gmg celebrata da Papa Francesco in Brasile. 

(Mario Ponzi) Prove di futuro. Questa è stata l’impressione che le giornate della gmg di Rio de Janeiro hanno suscitato nel cardinale Peter Kodwo Appiah Turkson, presidente del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, che ha potuto seguire da vicino tutti gli avvenimenti nei quali i giovani sono stati protagonisti. E proprio nel loro entusiasmo, nella determinazione con la quale guardano al futuro, nei dialoghi che hanno avuto con Papa Francesco, il porporato ha intuito la possibilità per questi giovani di dare un senso al loro domani. Ma occorre — precisa il cardinale in questa intervista rilasciata al nostro giornale — che gli adulti la smettano con il loro egoismo e si assumano la responsabilità delle generazioni di domani.
Lei ha seguito da vicino gli avvenimenti della gmg di Rio. Se dovesse usare una parola, come definirebbe il senso di quanto si è vissuto in quei giorni?
Uso un termine forte e spesso impiegato in modo improprio, e intendo usarlo in modo niente affatto retorico: potenza. Mi riferisco alla potenza liberatrice della “pubblicità”, cioè del rendere pubblico e condiviso un senso di libertà e di giustizia che monta nel tempo attuale tra le giovani generazioni. In questo senso Papa Francesco a Rio ha dispiegato il terreno. Direi meglio: ha dissodato e reso fertile il campo sul quale centinaia di migliaia, anzi milioni di ragazzi, hanno potuto sprigionare la loro voce, il loro grido e la loro energia. Ma poi si potrebbe anche parlare di “potenza della relazione”.
In che senso? 
Nel senso che il Santo Padre è riuscito a parlare a ciascuno. E si trattava di persone con nome e cognome, non una massa indistinta. Così l’impressione che ho avuto fin dal primo momento è stata quella di un vero e schietto dialogo sul terreno della verità, della giustizia che preme alle porte della storia contemporanea. Le persone lanciavano fiori, bandiere, si assiepavano intorno a un pastore vicino, vicinissimo, che cercava il contatto umano con soste impreviste, abbracci, sguardi, risate, battute, carezze incessanti. Questo non vuol essere un punto di vista apologetico o retorico, o addirittura da facile entusiasmo di maniera. Vorrei, piuttosto, che questo punto di vista sia considerato anche alla luce della consapevolezza profonda dei drammi atroci che troppi giovani nel mondo subiscono. La potenza della verità, della giustizia e della libertà è tale, infatti, proprio perché si trova in lotta con il male del mondo. Una lotta addirittura fisica, direi carnale, materiale, in quei luoghi dove ha voluto recarsi personalmente il Santo Padre, come le favelas, dove il dolore è un abisso quotidiano.
Cosa le è rimasto più impresso dello straordinario spettacolo dei giovani stretti con tanto affetto attorno al Papa?
Un pensiero su tutti: l’emarginazione di tanti, tantissimi ragazzi. Ragazzi marginalizzati nella vita, nelle professioni, nella loro creatività, nella loro sete e fame di giustizia, nella loro interiorità: ragazzi pressati da un mondo che nessuno sembra più riuscire a capire a fondo. Non è da trascurare, infatti, che prima della visita del Papa, vi siano state delle manifestazioni giovanili proprio per denunciare tutto ciò.
Cosa ha rappresentato in questo senso la gmg di Rio?
Questa Giornata mondiale della gioventù, in un Paese così sanguigno, così intriso di vita, nel bene come nel male, così impregnato di umanesimo e umanità come il Brasile, nel contesto più ampio dell’America latina, ha rappresentato, a mio modo di vedere, l’immagine di un organismo complesso — fatto di nervi, muscoli, passioni, intelletto, esercizio, generosità — che ha sfidato pioggia, vento e freddo per garantire conforto e assistenza a tutti. Un’immagine che esprime la verità di un frustrato, ma non per questo sopito, senso di giustizia che, come la lava di un vulcano, corre rovente nelle viscere del Paese e che, tutt’a un tratto, trova uno sfogo potente. Ecco, Rio è stata la bocca del vulcano. E Papa Francesco ha avuto la formidabile capacità, profondamente umana nella sua libera e vigorosa spiritualità, di permettere e sollecitare questo “miracolo”.
Addirittura un “miracolo”? 
Sì, perché questo mondo a tanti sembra senza più speranze. E sono per primi i giovani — lo si vede bene in particolare in Occidente — a dare talvolta l’impressione di non credere più a un’umanità che possa essere diversa e migliore. Ma spesso si tratta solo di un’impressione.
Perché?
Perché il fuoco rovente, la lava, scorre nel sottosuolo. Occorre dunque forza per tirarla fuori. E quale forza, se non quella dei giovani del mondo, può essere in grado di portarla all’aria aperta per farla volare? Io guardo a questi giovani dal punto di vista della mia generazione e scopro che, quando avevamo la loro età, per noi il futuro era una promessa. Per loro sembra di no.
È una situazione che può cambiare?
A Rio ho avuto questa certezza. In quei giorni mi è sembrato che le cose potessero cambiare. Sta ora a tutti, giovani e meno giovani, non perdere quel seme prezioso. Sta a noi tutti, e soprattutto a loro, non permettere che ciò che è accaduto a Rio si perda nel ricordo, un ricordo prezioso ma non operante. Papa Francesco ha fatto la sua parte. Ora sta ai pastori delle singole Chiese mantenere accesa la fiamma senza confini che lui ha acceso in modo così potente e chiaro. Papa Francesco ha parlato. E ha parlato con la chiarezza del Vangelo. Il Vangelo è contemporaneo. Cristo è sempre un contemporaneo. E senza questo senso di contemporaneità, perderemmo anche la speranza. Ecco, a Rio ho avvertito, anche fisicamente, nelle mie personali emozioni interiori, la presenza prorompente della speranza del Cristo vivente.
L'Osservatore Romano