giovedì 22 agosto 2013

Le false strade delle morti accelerate



Eutanasia e suicidio assistito in un parere del Comitato nazionale di etica francese. 

(Ferdinando Cancelli) Il signor Edward Brongersma, anziano senatore olandese giunto all’età di ottantasei anni, chiese alcuni anni fa al suo medico di aiutarlo a morire poiché era «stanco di vivere» e così avvenne: gli fu somministrato un cocktail letale di farmaci sebbene non soffrisse di alcuna malattia grave e inguaribile. Finora «la corte suprema olandese — afferma il giurista Bérangère Legros in un volume da lui stesso curato — ha dato prova di grande indulgenza per i medici che accettano di praticare l’eutanasia su richiesta di una persona solamente stanca di vivere». Le circa settanta pagine del parere 121 intitolato Fine vita, autonomia della persona, volontà di morire che il Comitato nazionale di etica francese (Ccne) ha pubblicato nel giugno scorso meritano di essere lette con grande attenzione: si capirà meglio perché il comitato non è giunto a riconoscere alla persona in fin di vita un diritto «ad avere accesso a un atto medico che abbia lo scopo di accelerarne il decesso», cioè all’eutanasia o al suicidio assistito. Ancor più si troveranno dati importanti che giustificano il timore che aperture legislative alla cosiddetta “dolce morte” possano dar luogo a pericolose e inquietanti derive, una delle quali, quando ancora in Olanda la legge attuale non era in vigore, è quella che ha riguardato appunto il senatore Brongersma.
L’esperienza di Paesi nei quali si è scelto di legiferare in favore di eutanasia o suicidio assistito rappresenta un importante termine di confronto anche per quegli Stati che pensano sia necessario legiferare in materia o modificare leggi già esistenti. Il parere 121 passa al vaglio l’esperienza dell’Oregon e dello Stato di Washington negli Stati Uniti, di Svizzera, Olanda, Belgio e Lussemburgo in Europa. Non mancano le sorprese, in tutti i sensi. Da un lato, ad esempio, può colpire il basso numero di suicidi assistiti che sono avvenuti nel 2011 in Oregon, 71, cioè circa lo 0,2 per cento dei decessi in un anno, o nello Stato di Washington, 94 casi. O ancora fa riflettere il dato che, sempre in quest’ultimo Stato americano, tra le persone che avrebbero diritto a ottenere la prescrizione di un prodotto letale più di un terzo non se lo fa prescrivere, meno di un terzo ne richiede la prescrizione ma non lo assume e quindi solamente la parte restante lo richiede e lo assume.
D’altra parte l’esperienza di un Paese come la Svizzera è emblematica. Mentre l’eutanasia non è consentita dalla legge, il suicidio assistito è possibile pur in assenza di una legislazione federale o cantonale e con il solo limite che «l’atto non sia fatto in funzione di un movente egoista», cosa peraltro evidentemente difficilissima da verificare. La realtà elvetica, si legge nel rapporto, è fatta di associazioni di assistenza al suicidio molto attive anche in operazioni di marketing e pubblicità (annunci, spot radiofonici, locandine nella metropolitana), con un florido volume d’affari (in qualche caso raddoppiato in pochissimi anni e comunque ben superiore al milione di franchi svizzeri all’anno), capaci di attirare “clienti” anche dall’estero mediante la promozione indiretta di un macabro “turismo della morte” non essendo vincolante il criterio della residenza nel Paese.
A fronte di ciò il parere 121 riporta alcuni casi di ancor più evidenti abusi: nell’autunno del 2007 si sono verificati suicidi organizzati in luoghi incongrui come autovetture o camper in parcheggi; in mancanza del “classico” pentobarbitale sodico da somministrare per via orale non si è esitato in almeno un caso a sostituirlo con gas elio; si sono registrate «voci che riferivano di ceneri gettate nel lago di Zurigo» nell’ottobre 2008; sono sempre più accettati candidati al suicidio non in fin di vita e persino non affetti da alcuna patologia: a titolo di esempio è riportato il dato riguardante l’associazione Exit Deutsche Schweiz che evidenzia che tra il 2001 e il 2004 il 34 per cento delle persone che sono state aiutate a suicidarsi non soffriva di una malattia mortale; vengono aiutate a morire anche persone affette da malattie o disturbi psichici.
Non molto diversa nella pratica è la situazione dell’Olanda, Paese in cui l’eutanasia è permessa come in Belgio e in Lussemburgo, ove si verifica un costante aumento dei casi: 18 per cento in più tra il 2010 e il 2012. Situazione talmente grave che già nel 2009, quando l’aumento era “solo” del 13 per cento annuo, l’Organizzazione delle Nazioni Unite in una nota aveva manifestato la propria preoccupazione di fronte all’aumento del numero di casi. Se si pensa poi che in questo Paese la persona che chiede l’eutanasia o il suicidio assistito «deve avere almeno 12 anni» e che esiste, benché non riconosciuto dalla legge, un “protocollo” come quello di Groningen che permette l’uccisione di neonati gravemente malformati, ci si renderà conto di avere sotto gli occhi la rappresentazione pratica di quel “piano inclinato” spesso temuto dai bioeticisti.
In un simile clima nemmeno alcuni fra i medici sfuggono alla tentazione di prendere delle scorciatoie: nonostante la legge preveda di dover consultare almeno un collega (nel 2001 erano due di cui almeno uno psichiatra) prima di procedere a un’eutanasia o a un suicidio assistito, sono sempre in aumento i casi in cui, in “urgenza”, non vi è alcun consulto e il medico decide da solo. La situazione del Belgio, Paese in cui sempre secondo il parere del Ccne il numero di eutanasie di persone sofferenti per malattie neuropsichiatriche è passato dall’8 per cento al 24 per cento del totale in due anni, è per certi versi peggiore: si è passati da 429 casi di eutanasia nel 2006 a 1.133 casi nel 2011 e la commissione federale di controllo e di valutazione istituita dal Governo non pare avere alcuna efficacia nell’evitare i casi di abuso poiché può agire solo a posteriori.
Così non sono rari casi come quello verificatosi nel 2011 quando una coppia ha ottenuto l’eutanasia essendo il marito in fase terminale per un tumore e la moglie sofferente solo per l’età avanzata e la malattia del coniuge oppure i casi di eutanasie praticate direttamente dagli infermieri.
E in questo panorama che ruolo hanno le cure palliative? È noto come i sostenitori della possibilità di abbreviare la vita a chi lo richiede affermino ripetutamente che medicina palliativa e logiche eutanasiche possono coesistere quasi queste ultime fossero in grado di risolvere i casi difficili e comunque non intralciare lo sviluppo delle prime. Il parere 121 parla chiaro: le cose non stanno così.
In Olanda sono effettivamente cresciute numericamente le unità di cure palliative ma pare si faccia un utilizzo sempre più largo della sedazione farmacologica che di per sé nulla ha a che vedere con la volontà di abbreviare la vita ma che se utilizzata secondo la buona pratica clinica deve essere riservata ai casi di sintomi refrattari in fine vita; in Belgio nel 2002 i medici consultati per eutanasia erano per circa il 20 per cento formati in cure palliative ma tale percentuale si è dimezzata nel 2009 come se si assistesse a un’involuzione formativa in tale branca della medicina. «C’è il rischio — afferma chiaramente il rapporto — che i pazienti che avrebbero potuto ritrovare il gusto di vivere non ricevano le cure alle quali avrebbero diritto».
Interessante è anche il dato che indica a quali medici viene richiesta più frequentemente la “dolce morte”: nel 50 per cento dei casi sono generalisti, nel 40 per cento sono specialisti vari e solo nel 10 per cento dei casi sono palliativisti. Il dato è peraltro confermato anche dalla nostra esperienza quotidiana: in più di un decennio di attività sono state rarissime (forse due o tre) le vere richieste di eutanasia che ci sono state rivolte su centinaia di pazienti assistiti.
È anche a partire da dati come quelli sopra esposti che bisogna promuovere un’ampia riflessione in tema di fine vita: la speranza è quella che le esperienze altrui aiutino a evitare false strade già percorse.
L'Osservatore Romano