sabato 31 agosto 2013

Martire per la fede e l’unità dei cristiani



"Se tu metti Dio in tutto ciò che fai, lo troverai in tutto ciò che ti accade."
Beato Vladimir Ghika (1873 - 1954)

*

A Bucarest il cardinale Amato presiede la beatificazione di Vladimir Ghika.

«Il martire è testimone della vita e non della morte»: lo ha detto il cardinale Angelo Amato, prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi, ricordando la testimonianza di Vladimir Ghika (1873-1954), il sacerdote romeno vittima della persecuzione del regime totalitario e morto per le estreme conseguenze della prigionia. Presiedendo a nome del Pontefice il rito di beatificazione sabato 31 agosto, a Bucarest, il porporato ha presentato la figura del martire richiamando proprio le parole della lettera apostolica di Papa Francesco, che lo ha definito «pastore zelante, testimone tenace della carità divina, difensore coraggioso della fede cattolica e della comunione con la Chiesa di Roma». Nella sua omelia il cardinale ha fatto riferimento alle violente persecuzioni del secolo scorso contro i cristiani, tra le quali ha menzionato «la tragedia messicana, la persecuzione spagnola, lo sterminio nazista, l’olocausto comunista». E ha sottolineato come «una tra le peggiori persecuzioni del secolo» sia stata quella avvenuta in Romania. «I cattolici — ha detto — furono umiliati, i loro beni confiscati, vescovi e sacerdoti imprigionati e uccisi, seminaristi torturati, laici costretti ad abbandonare la fede cattolica, religiosi dispersi, istituti di educazione confiscati, chiese chiuse, libertà religiosa negata».
Di fronte a questa tragedia — ha ricordato il porporato — Pio XII rivolse ai vescovi, al clero, e al popolo della Romania un forte messaggio, nel quale espresse solidarietà, preghiera e vicinanza a quanti erano vittime di ingiustizia e di violenza in quanto cattolici. In questo contesto così tribolato emerse la figura di Ghika, che, battezzato nella Chiesa ortodossa, dopo un percorso di riflessione passò al cattolicesimo il 13 aprile 1902. Questa conversione, come ha sottolineato il cardinale, «non fu un semplice cambio di confessione, ma la scelta deliberata di un progetto di vita totalmente consacrata a Dio nel sacerdozio, a servizio del prossimo e dell’azione per l’unità della Chiesa».
All’età di cinquant’anni Ghika venne ordinato sacerdote a Parigi, dove iniziò un intenso apostolato di carità a favore dei piccoli e dei poveri. Dopo l’invasione nazista della Polonia, decise di rimanere in Romania per aiutare i rifugiati polacchi. «Fedele alla sua teologia del bisogno, théologie du besoin — ha aggiunto il porporato — egli si occupò dei malati, dei feriti e dei prigionieri di guerra. Confermò questa sua decisione anche nel 1948 quando, dopo l’abdicazione e la partenza del re Michele, il regime comunista iniziò una violenta e sistematica repressione dei cattolici». Il 18 novembre 1952 venne incarcerato a Jilava, «uno dei più terribili campi di sterminio», dove, il 16 maggio 1954, a causa «delle crudeli torture inflittegli dalla Securitate», trovò la morte.
Il porporato ha poi evidenziato tre aspetti della carità pastorale del nuovo beato. Il primo riguarda l’anelito ecumenico. «Sognava — ha detto — l’unità della Chiesa. Per lui l’Oriente e l’Occidente erano i due polmoni dell’unica Chiesa di Cristo. Per questo ebbe il privilegio, eccezionale a quell’epoca, del “biritualismo”. Egli proponeva la santità come un mezzo indispensabile per promuovere l’unità dei cristiani». Promuoveva anche l’ecumenismo delle opere: vedeva cioè «nell’esercizio della carità il luogo di una nobile emulazione tra tutti i cristiani». Secondo lui, l’ecumenismo «doveva essere fondato sull’apostolato dell’amore, rispettando la libertà e la buona fede altrui ed evitando polemiche inutili e dannose». Inoltre, ha aggiunto il cardinale, «vedeva nel martirio di milioni di cristiani ortodossi perseguitati soprattutto in Russia e nell’Europa dell’est dai regimi comunisti la garanzia di una vera risurrezione, che, nella logica del mistero pasquale, doveva portare all’unità ritrovata».
Il secondo aspetto della sua figura riguarda l’impegno a favore dei rifugiati, dei feriti di guerra, dei malati. «Visitava spesso i detenuti della prigione di Văcăreşti, alla periferia di Bucarest — ha ricordato — per confortarli durante i bombardamenti, parlare di Dio e celebrare la messa». Utilizzò anche la sua influenza presso le autorità per salvare molti ebrei dalla deportazione verso i campi di concentramento. Sollecitò inoltre l’aiuto degli Stati Uniti d’America, attraverso il nunzio apostolico, perché fornissero cibo durante la terribile carestia del 1946. Volle che gli aiuti venissero distribuiti anche ai monasteri ortodossi della Moldova.
Il terzo aspetto concerne infine la sua sofferenza e la sua morte sotto il regime stalinista. Egli fu sottoposto a «lunghi e sfibranti interrogatori di giorno e di notte, pestaggi feroci tanto da far temere la perdita dell’udito e della vista, simulazioni di impiccagione». E «sopportò con fede e coraggio questo martirio con l’aiuto della preghiera». Recitava il rosario ogni giorno con un gruppo di detenuti e a ogni decina teneva una piccola meditazione. «Un giorno — ha ricordato in conclusione il cardinale Amato — aprì la sua meditazione citando le parole di Giacobbe: “questo luogo è santo e io non lo sapevo”». Quando pregava, «dava l’impressione di essere veramente felice. Smagrito, malato, sfinito, la sua fortezza era quella dell’isaiano servo del Signore di fronte alla morte». Accusato falsamente di «minacciare l’ordine sociale, in realtà egli fu incarcerato perché era un prete zelante e santo che attirava molte persone a Dio».
L'Osservatore Romano