sabato 31 agosto 2013

XXII Domenica del Tempo Ordinario - Anno C


Ascolta fratello, Dio è molto alto. 
Se tu sali, Egli va più in alto; 
ma se tu ti abbassi, Egli viene a te.

S. Agostino

*

MESSALE
Antifona d'Ingresso  Sal 85,3.5
Abbi pietà di me, Signore,
perché ti invoco tutto il giorno:
tu sei buono e pronto al perdono,
sei pieno di misericordia con chi ti invoca.

Colletta
O Dio, nostro Padre, unica fonte di ogni dono perfetto, suscita in noi l'amore per te e ravviva la nostra fede, perché si sviluppi in noi il germe del bene e con il tuo aiuto maturi fino alla sua pienezza. Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio...

 Oppure:
O Dio, che chiami i poveri e i peccatori alla festosa assemblea della nuova alleanza, fa' che la tua Chiesa onori la presenza del Signore negli umili e nei sofferenti, e tutti ci riconosciamo fratelli intorno alla tua mensa. Per il nostro Signore Gesù Cristo...


LITURGIA DELLA PAROLA

Prima Lettura  3,17-20.28-29, neo-volg. Sir 3, 19-21.30-31
Fatti umile, e troverai grazia davanti al Signore.

Dal libro del Siràcide
Figlio, compi le tue opere con mitezza,
e sarai amato più di un uomo generoso.
Quanto più sei grande, tanto più fatti umile,
e troverai grazia davanti al Signore.
Molti sono gli uomini orgogliosi e superbi,
ma ai miti Dio rivela i suoi segreti.
Perché grande è la potenza del Signore,
e dagli umili egli è glorificato.
Per la misera condizione del superbo non c’è rimedio,
perché in lui è radicata la pianta del male.
Il cuore sapiente medita le parabole,
un orecchio attento è quanto desidera il saggio.
 
Salmo Responsoriale
  Dal Salmo 67
Hai preparato, o Dio, una casa per il povero.
I giusti si rallegrano,
esultano davanti a Dio
e cantano di gioia.
Cantate a Dio, inneggiate al suo nome:
Signore è il suo nome.

Padre degli orfani e difensore delle vedove
è Dio nella sua santa dimora.
A chi è solo, Dio fa abitare una casa,
fa uscire con gioia i prigionieri.

Pioggia abbondante hai riversato, o Dio,
la tua esausta eredità tu hai consolidato
e in essa ha abitato il tuo popolo,
in quella che, nella tua bontà,
hai reso sicura per il povero, o Dio.
 

Seconda Lettura
  Eb 12, 18-19.22-24
Vi siete accostati al monte di Sion e alla città del Dio vivente. 

Dalla lettera agli Ebrei
Fratelli, non vi siete avvicinati a qualcosa di tangibile né a un fuoco ardente né a oscurità, tenebra e tempesta, né a squillo di tromba e a suono di parole, mentre quelli che lo udivano scongiuravano Dio di non rivolgere più a loro la parola.
Voi invece vi siete accostati al monte Sion, alla città del Dio vivente, alla Gerusalemme celeste e a migliaia di angeli, all’adunanza festosa e all’assemblea dei primogeniti i cui nomi sono scritti nei cieli, al Dio giudice di tutti e agli spiriti dei giusti resi perfetti, a Gesù, mediatore dell’alleanza nuova.


Canto al Vangelo
  Mt 11,29
Alleluia, alleluia.

Prendete il mio giogo sopra di voi, dice il Signore,
e imparate da me, che sono mite e umile di cuore.

Alleluia.

  
  
Vangelo  Lc 14, 1. 7-14
Chi si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato.

Dal vangelo secondo Luca
Avvenne che un sabato Gesù si recò a casa di uno dei capi dei farisei per pranzare ed essi stavano a osservarlo.
Diceva agli invitati una parabola, notando come sceglievano i primi posti: «Quando sei invitato a nozze da qualcuno, non metterti al primo posto, perché non ci sia un altro invitato più degno di te, e colui che ha invitato te e lui venga a dirti: “Cèdigli il posto!”. Allora dovrai con vergogna occupare l’ultimo posto. Invece, quando sei invitato, va’ a metterti all’ultimo posto, perché quando viene colui che ti ha invitato ti dica: “Amico, vieni più avanti!”. Allora ne avrai onore davanti a tutti i commensali. Perché chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato».
Disse poi a colui che l’aveva invitato: «Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici né i tuoi fratelli né i tuoi parenti né i ricchi vicini, perché a loro volta non ti invitino anch’essi e tu abbia il contraccambio. Al contrario, quando offri un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; e sarai beato perché non hanno da ricambiarti. Riceverai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti».
 

*

Commento

Solo all'ultimo posto il Vangelo è autentico e credibile


Presentandoci la vita come il funerale dei desideri, il demonio vuole indurci a non accogliere l’«invito a nozze» che il Signore ci consegna attraverso i fatti e le persone. Ogni giorno, infatti, rifiutiamo qualcosa della volontà del Padre, spinti a tentare di «occupare il suo posto» per saziare in libertà le concupiscenze. Sperperiamo la sua eredità per «esaltarci» ai «primi posti» del prestigio e dell’onore, dove ci illudiamo si possa realizzare la nostra esistenza. Umiliamo e strumentalizziamo gli altri, mentiamo esibendo curriculum artefatti, sino a che il pallone gonfiato dagli inganni non ci scoppia tra le mani.
Precipitiamo allora all’«ultimo posto», accanto ai porci come il figlio prodigo, dove ci scopriamo «nudi» come i progenitori e, avvolti nella stessa «vergogna», ci nascondiamo dagli altri, affamati e soli. È quando il Signore, certo «più ragguardevole di noi», appare attraverso i fatti che ci umiliano, e il Padre ci dice di «lasciare a Lui il primo posto» nella nostra vita, come in quella della moglie, del marito, dei figli, del fidanzato o degli amici. Grazie all’amore di Dio che, geloso della sua creatura, attraverso la Croce ci umilia seriamente, la superba scalata alla menzogna del primo posto ci precipita sempre nella verità dell’ultimo.
Ma proprio in quel porcile immondo, seduti al «nostro posto», quello che ci spetta quale giusta conseguenza delle nostre scelte, ci raggiunge, gratuito e del tutto inaspettato, l'amore di Dio. Egli, infatti, vede in noi il suo Figlio disceso nel sepolcro, sino al «posto» dell’«ultimo» dei peccatori. E qui, con Gesù, il Padre abbraccia anche noi, ci risolleva e ci sussurra le parole più dolci: «amico mio vieni più avanti», ecco per te l’«onore» che ho dato a mio Figlio risuscitandolo dalla morte.
Il Signore ci chiama dunque a riconoscerci peccatori, ad accettare «umilmente» la nostra debolezza e a «metterci all’inferno e non disperare» (Silvano del Monte Athos) in attesa che ci «innalzi» nel suo perdono. A vivere ogni relazione nella verità che ci fa liberi davvero, senza stupirci di non essere considerati, «diminuendo» agli occhi degli altri perché il Signore «cresca» in noi e in loro, divenendo così il centro dove incontrarci e amarci.
Per questo la Chiesa ogni giorno è messa all'ultimo posto «davanti a tutti»; è solo lì che può annunciare l’«onore» di Cristo risorto preparato per ogni figlio scappato di casa. Altro che onori, legittimazioni, accoglienze nei parterre culturali. La Chiesa, cioè ciascuno di noi, esiste per occupare l’ultimo posto, quello che nessuno vuole. Mamma mia, a scuola ogni giorno come l’ultimo degli studenti? A casa sempre un passo dietro a mio marito? Al lavoro seduto a raccogliere il mobbing ingiusto, a sbrigare le pratiche che nessuno vuole guardare? Io, il parroco, in ginocchio davanti a ogni pecora affidata, lasciando che le nevrosi, le invidie e le gelosie si infrangano su di me?
Sì, perché questo è il posto che Dio ha riservato ai suoi apostoli, quello scelto da suo Figlio per salvare ciascuno di noi. Con Lui siamo chiamati ad essere gli ultimi per lavare i piedi di tutti; come scrive San Paolo, “spettacolo e spazzatura per il mondo”. Perché solo all’ultimo posto il Vangelo è autentico e credibile.
Così accadde a San Francesco Saverio, apostolo indomito dell’Asia. Un giorno si trovava a Yamaguchi, in Giappone, annunciando il Vangelo; in giapponese sapeva solo il Credo, e questo ripeteva, con un sorriso disarmante. Alcuni ragazzini, vedendolo vestito così stranamente e con una faccia così ridicola, e udendolo balbettare in un giapponese improbabile parole astruse, presero a insultarlo, a sputargli e a tirargli pietre. E Francesco impassibile continuava “seduto all’ultimo posto”, il sorriso sul viso e il Credo sulle labbra. Passava di lì un samurai, osserva la scena e si ferma impietrito. Poi, stordito, si avvicina a Francesco. Attraverso il suo compagno e interprete gli dice: “Che cos’hai tu più di me? Io sono il primo in questa città, e l’onore è la cosa più importante per la mia vita. Tu qui sei l’ultimo, eppure devi avere una cosa più grande e importante dell’onore, per essere così libero da lasciare che te lo tolgano. Voglio quello che tu hai”. Fu il primo samurai convertito al cristianesimo. L’ultimo posto lo aveva attirato a cercare il tesoro meraviglioso che vi si nasconde.
Forse per noi continua ad essere diverso… Nella nostra vita sperimentiamo che ogni relazione, precaria nella friabilità degli affetti e instabile sotto la dittatura degli umori, nasce ferita da un’assenza. Nessuno può dare l'amore che il cuore dell'altro desidera. E invece ci ostiniamo a chiedere al prossimo di saziare i nostri vuoti. Quando «invitiamo amici, fratelli e parenti» ad entrare in comunione con noi ai nostri «banchetti», e sembriamo aprirci alle loro necessità, in realtà «offriamo» sofisticati menù a base di compromessi e ipocrisia; pensieri, parole e gesti come lacci tesi perché ci «invitino a loro volta» nell’intimità.
Come incantatori di serpenti cerchiamo di ipnotizzare e legare a noi il coniuge, i figli, gli amici. La nostra identità dipende dall’esile filo che ci lega al «contraccambio» degli sforzi profusi per contare qualcosa nel cuore degli altri. Non possiamo vivere senza la loro attenzione, l'indifferenza ci polverizza. Così, ad esempio, diluiamo i «no» che dovremmo dire ai figli e gli permettiamo vestiti e orari inaccettabili, discoteche sature di droga e sesso, vacanze promiscue, gadget costosissimi: li tempestiamo di «inviti» al dialogo per non perdere l'affetto e non dover sopportare ribellione e rifiuto. Allo stesso modo con il coniuge, il fidanzato e gli amici: non amiamo perché non ci interessa il bene dell’altro. Non siamo “inquieti” per loro, come dice Papa Francesco. Al contrario, siamo sterili perché in tutto cerchiamo i primi posti” dove saziare noi stessi.
Ma la verità è che siamo tutti «poveri, storpi, zoppi e ciechi». Abbiamo bisogno di gustare le primizie della «ricompensa» celeste, la vita e l’amore più forti della morte capaci di liberarci dalla paura e dall’esigenza. Il compimento di ogni vita è in Cielo, inutile e dannoso sperare di cambiare i rapporti per perfezionarli qui sulla terra, mentre proprio la precarietà che è un’eco del peccato e del disordine da esso provocato, ci impedisce di appropriarcene aprendoci alla beatitudine. Dietro ad essa vi è l’amore di Dio, non il suo castigo.
Attraverso di essa ci chiama a guardarlo e a cercare le cose di lassù in ogni cosa di quaggiù. Lavorare, studiare, cucinare, lavare e stendere, fare qualunque cosa aspettando o esigendo una ricompensa è stolto e frustrante, perché ci schiaccia sulla carne e ci impedisce di sperare il Cielo. «Beato», invece, è colui che «invita» il prossimo accogliendolo proprio quando non ha nulla per «contraccambiare»: è allora che il Signore si fa presente provvedendo con più generosità, facendoci così gustare le primizie della Vita Beata.
Siamo chiamati ad “invitare” la moglie quando è più povera e più debole; a perdonarla e a donarci a lei quando la carne la rifiuterebbe perché non vi trova nessuna soddisfazione. Questo è il Cielo sulla terra! Questo amore è il segno che esiste la vita eterna, infinitamente più grande, libera e felice di quella della carne. Ogni rapporto è un cantiere aperto al dono di Dio; l’unico modo per vivere in pienezza il matrimonio, la famiglia, l’amicizia e il fidanzamento è accogliere insieme l’«invito» del Signore alla sua mensa della Parola e dei Sacramenti; e qui lasciarsi sfamare ogni istante dai frutti fecondi della sua «risurrezione».


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 Commento della Congregazione per il Clero

La liturgia della Parola di questa XXII domenica del tempo ordinario presenta alla nostra riflessione  quali devono essere  le grandi aspirazioni del cristiano che devono orientare il vivere quotidiano di ogni fedele: la corsa all’ultimo posto e l’imbandire tavole con disinteressata generosità per gli affamati.

Sono due realtà che sicuramente cozzano con i principi mondani del vivere, ma che il cristiano, come seguace di Cristo, non può non accettare e mettere in pratica per conquistare quella meta che è il fine ultimo del suo cammino: il Regno di Dio.

Sono stati, infatti, l’umiltà e la povertà gli insegnamenti principali di Gesù nella sua vita pubblica e il brano evangelico dell’invito a pranzo da parte di un fariseo nei confronti di Gesù, fornisce a Gesù stesso l’occasione per ribadire l’importanza di queste virtù e conferire ad esse una nuova luce, una luce che deriva dal mistero di Cristo, Figlio di Dio fatto uomo che da ricco diventò umile e povero, per rendere così gli uomini ricchi della sua povertà e quindi degni della gloria di Dio.

Il Signore Gesù, nel brano lucano, non vuole suggerire delle regole di comportamento sociale, ma intende offrire piuttosto un insegnamento per la nostra partecipazione di ogni giorno al banchetto della fede e della vita cristiana, che ha il suo culmine nella celebrazione dell’Eucarestia: serve a noi il suo Corpo e il suo Sangue, la sua umanità sacrificata e risorta che, unitamente alla divinità, si nasconde nell’umile povertà delle apparenze del pane e del vino.

E partendo dall’esperienza di quel banchetto, dove la maggior parte degli invitati si dava da fare per occupare i primi posti, Gesù trae lo spunto per rivolgere un invito caloroso all’umiltà, una virtù che dà i suoi frutti anche sul piano umano.

Infatti, nelle relazioni umane è sempre preferibile, per l’invitato, occupare l’ultimo posto onde poter suscitare la simpatia del padrone di casa che si adopererà per avvicinarlo a posti a lui più vicini, mentre chi si siede al primo posto corre il pericolo di dover retrocedere ad un posto più lontano e quindi sottoporsi all’umiliazione davanti ai commensali.

Da ciò nasce l’atteggiamento della vera saggezza che è propria del cristiano, il quale, come seguace di Cristo, trova più giusto e coerente occupare l’ultimo posto, e questo non per una questione di debolezza o di timidezza, ma perché essere umili significa sottomettersi al gioioso peso dell’amore. Dio stesso si è umiliato e sicuramente non per debolezza o maggior bisogno di aiuto, ma si è abbassato per salvare l’uomo, per amore!

Per servire l’uomo si è fatto piccolo, si è umiliato e lo ha fatto nella persona del Figlio suo che, spogliandosi della sua condizione divina, pur rimanendo sempre Dio, ha assunto la condizione di servo divenendo simile agli uomini.

Inoltre, è bene ricordare come Gesù, nella lavanda dei piedi, ha offerto un grande esempio di umiltà compiendo un gesto grande di amore e svelandoci il vero volto di Dio, che è amore infinito e non esita ad abbassarsi alla condizione di schiavo pur di servire l’uomo e così purificarlo dal suo peccato.

Il cristiano vivrà, dunque, con questi principi, in quella dimensione di carità che lo avvicinerà maggiormente a Dio e la cui autenticità si manifesterà ancora di più allorquando all’umiltà unirà la gratuità delle sue azioni.

È la seconda parte del brano evangelico in cui Gesù esorta il padrone di casa ad invitare in futuro non solo gli amici che sono nelle condizioni di poter ricambiare l’invito, ma anche quelle persone che, a causa del loro stato di indigenza non potranno ricambiarlo. Gesù si riferiva a quelle persone che erano emarginate: storpi, ciechi, zoppi, cioè già carichi di una povertà esterna che rendeva più grave quella interna e che aveva come conseguenza l’esclusione dalla partecipazione alla vita sociale del tempo.

L’amore, però, quello vero che deriva da Dio, non può essere solo espressione di simpatia e amicizia umane, ma anche e soprattutto espressione di una profonda fraternità manifestata in una scelta più vicina ai poveri, abbracciandone la causa, perché sicuri che essi sono il segno privilegiato della presenza di Cristo nella storia.

È questo il tema della prima lettura in cui si invoca per gli uomini la modestia, l’equilibrio, la lontananza dalle grandi pretese. Infatti, afferma che chi nella vita sociale occupa un posto elevato, certamente per ciò stesso non è in posizione di superbia, ma più facilmente potrebbe essere tentato per cui viene esortato. Quanto più una persona è in posizione sociale elevata tanto più deve adoperarsi per sollevare le difficoltà di chi si trova oppresso da qualsiasi tipo di povertà. Questo atteggiamento, fra l’altro, risulta pure vantaggioso per espiare le proprie manchevolezze.

Anche la seconda lettura esorta ad un’autentica vita religiosa con un pressante appello alla carità: virtù che tutti siamo chiamati a realizzare nella nostra vita, essendo la nostra meta il cielo, la Gerusalemme celeste che possiamo raggiungere solo per mezzo di Gesù Cristo mediatore della nuova alleanza, sommo sacerdote che realizza la riconciliazione dell’umanità con Dio.

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Monsignor Francesco Follo, osservatore permanente della Santa Sede presso l'UNESCO a Parigi, offre la seguente riflessione sulle letture liturgiche per la XXII.ma domenica del Tempo Ordinario – Anno C.
Il presule propone anche una lettura spirituale.
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LECTIO DIVINA
Pedagogia dell’umiltà
Rito romano
XXII Domenica del Tempo Ordinario – Anno C – 1° settembre 2013.
Sir 3, 19-21.30-31; Sal 67; Eb 12, 18-19.22-24; Lc 14, 1. 7-14
Rito ambrosiano
I Domenica dopo il martirio di San Giovanni il Precursore
Is 30,8-15b; Sal 50; Rm 5,1-11; Mt 4,12-17
1) Norma religiosa e non di galateo.

La liturgia del rito romano ci propone nella prima lettura presa dal libro del Siracide una raccomandazione paterna: assumere un atteggiamento di attenzione e di docilità, un atteggiamento da discepoli, di fronte a colui che ci parla come un padre. Non solo riconoscerà in lui l'uomo ricco di esperienza, ma avrà fiducia nei suoi consigli dettati da paterna sollecitudine. La mitezza porta all'essere amato (v. 17), l’umiltà apre l'uomo ai doni di Dio (v. 18), lo colloca di fronte a Dio, di fronte alla grandezza della Sua potenza (v. 20) perché lo destina al posto che gli compete e ne fa un testimone di Dio e della Sua grazia. 


Passando al Vangelo di Luca, osserviamo innanzitutto che è un fatto capitato a Gesù. Arrivato a casa di un capo dei farisei che l’aveva invitato, il Messia osserva che gli ospiti fanno ressa per assicurarsi i primi posti. Sono persone convinte di avere diritto al posto d'onore. Allora il Redentore racconta una parabola, con la quale non intende ricordare una semplice regola di galateo, ma vuole offrire una regola religiosa sul come comportarsi con Dio e, di conseguenza, con gli uomini.
Per dare questo suo insegnamento religioso, il Redentore afferma: “Quando sei invitato a nozze da qualcuno, non metterti al primo posto, perché non ci sia un altro invitato più degno di te, e colui che ha invitato te e lui venga a dirti: ‘Cedigli il posto!’. Allora dovrai con vergogna occupare l’ultimo posto. Invece, quando sei invitato, va’ a metterti all’ultimo posto, perché quando viene colui che ti ha invitato ti dica: ‘Amico, vieni più avanti!’. Allora ne avrai onore davanti a tutti i commensali. Perché chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato” (Lc 14,7-14).
Ci sono due brani nel Nuovo Testamento che possono illuminare questa parabola: 

Il primo è la lettera di San Paolo ai Filippesi 2,3-11 in cui la frase centrale è l'invito ad “avere gli stessi sentimenti di Cristo Gesù... il quale... umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce... Per questo Dio lo esaltò...”. 
La verità della parola di Gesù sull’umiltà appare nel fatto che egli stesso ha vissuto questa parola nella sua stessa persona a convalida della sua missione e della sua predicazione: abbandonare il primo posto per prendere l'ultimo è appunto il senso della sua incarnazione. 

Il secondo brano è il Magnificat (Lc. 1,46-55 ): “Dio ha guardatol’umiltà della sua serva...”; questi ultimi due termini (umiltà e serva) indicano chiaramente che la straordinaria e unica missione affidata da Dio a Maria ha avuto l'origine nella sua stessa umiltà vissuta con semplicità e gioia, aperta e disponibile alla volontà di Dio. 

2) A scuola dell’umiltà.
Andiamo a scuola da Maria, per imparare da questa Madre umile a seguire suo Figlio, peridentificarcicon lo stesso Signore Gesù (che, dalla sua condizione di Figlio di Dio, si è abbassato e umiliato fino ad assumere la nostra condizione umana), per potere con Lui e in Lui giungere alla gloria dellaresurrezione.

Nella Madonna, ma ciò va detto di ogni cristiano, l'umiltà non riguarda la stima di se stessi, ma il rapporto con Dio, che guarda in giù. Verso la serva prediletta, il cui amore è umile perché si mette a servizio dell’Amore e accetta di appartenere all’amore, dandoGli carne.
Dunque l’umiltàinsegnata e pratica dalla Madre Dio è il punto focale dove Dio fissa il Suo sguardo, dove Egli può stabilire un rapporto profondo e chiamare l’umile2 con il nome di “amico”. E l’amico non è il conoscente, il complice, è l’umile fedele alla Parola del Padre. Dunque, seguiamo Maria, per identificarci in lei che, come umile serva, ha accettato di diventare dimora della Sua Parola, di custodirla nel suo cuore e nel suo corpo, e di offrirla a tutta l'umanità. 

Se la Madonna non fosse stata umile, “piccola”, non avrebbe potuto accogliere la “grandezza” di Dio.Quel piccolo che portò nel grembo è la cosa grande che noi, oggi e sempre possiamo e dobbiamo accogliere come bene più grande da condividere gratuitamente.
Dunque accostiamoci ogni giorno (o almeno il più frequentemente possibile) all’Eucaristia, con un cuore puro e umile, quindi completamente libero e disponibile ad accogliere in noi il Dio vivente, a concepirlo e a darGli la vita tramite la nostra fragile carne redenta da Lui.
3) Gratuità senza frontiere.
Dopo la parola ai convitati, Gesù dice anche una parola per il padrone di casa: “Quando vai a un pranzo, non invitare gli amici o i ricchi vicini, ma i poveri”. Perché invitare sempre soltanto parenti ed amici? Siamo sempre all'interno di un amore interessato, all'interno di una concezione chiusa della vita: ci si invita fra amici, fra persone alla pari, oggi io invito te e domani tu inviti me. E i poveri restano sempre fuori, sempre esclusi. Il Vangelo vuole invece una fraternità con due caratteristiche ben precise: la gratuità e l'universalità. Devi dare anche a coloro dai quali non puoi sperare nulla in cambio. Gesù sta pensando alla sua futura comunità: la sogna come un luogo di ospitalità per tutti gli esclusi. Non si tratta certo di un insegnamento nuovo. Gesù l'ha già rivolto a tutti nel discorso della montagna (Lc 6.32-34): se amate soltanto coloro che vi amano, qual è il vostro merito? Anche i peccatori amano coloro che li amano. 
C'è la beatitudine per chi è povero (“beati voi poveri, perché vostro è il Regno di Dio”) e c'è anche la beatitudine per chi trasforma i propri beni in occasione di ospitalità, ma deve trattarsi di un'ospitalità anche verso gli esclusi (“sarai beato perché non hanno da ricambiarti”).
Ma questa ospitalità è possibile solamente se accogliamo l’altro, come la Madonna ha verginalmente accolto l’Altro con una fede e un amore così grandi, che i suoi occhi ed il suo cuore si sono aperti alla Carità di Dio e “il Verbo si è fatto carne e ha posto la sua dimora in mezzo a noi”.
La vita cristiana, quindi, non è in primo luogo meditare e praticare le virtù, ma ospitare e vivere della presenza di Cristo, che ci ama di amore infinito.
Se viviamo la realtà di questo mistero di carità, viviamo già in Paradiso. Le persone consacrate vivono già in Paradiso. Infatti, la vita religiosa nella teologia cattolica è stata sempre ritenuta come una anticipazione della vita del cielo.
Si dice che le suore di vita contemplativa vivono in clausura. Non è vero, perché una monaca che vive totalmente per Iddio vive la libertà pura di un’anima che spazia nell’immensità divina.
Anche per le appartenenti all’Ordo Virginum il loro luogo è l’immensità di Dio. Non sono chiuse in casa o nei luoghi di lavoro. Sono chiusi quelli che sono nomadi, vagabondi nel mondo e non vivono altro che la loro piccola vita nel piccolo mondo, granello minuscolo dell’Universo. La loro anima respira l’Infinito. Vivono in Dio e Dio è l’immenso, vivono nel Cristo e Cristo è l’Amore. “Dieu est le Dieu du coeur humain” [Dio è il Dio del cuore umano] (San Francesco di Sales3, Filotea o Trattato dell’Amore di Dio, I, XV).
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LETTURA SPIRITUALE
FILOTEA o Trattato dell’Amore di Dio
di San Francesco di Sales
Vescovo e Dottore della Chiesa
Capitolo V
L’UMILTA’ INTERIORE
“Tu, Filotea, mi chiedi di condurti avanti nell’umiltà: quello che ho detto finora riguarda più il campo della saggezza che quello dell’umiltà; quindi andiamo avanti.
Molti non vogliono pensare alle grazie che Dio ha loro dato personalmente, non ne hanno il coraggio perché temono di cadere nella vanagloria e nel vuoto compiacimento. E qui si sbagliano: S. Tommaso d’Aquino dice che il mezzo per giungere all’amore di Dio è il pensiero dei suoi benefici; meglio li conosciamo e più amiamo Dio.
Direi proprio che niente può umiliarci di fronte alla misericordia di Dio quanto i suoi benefici, e niente può umiliarci di fronte alla sua giustizia quanto le nostre offese. Pensiamo a quello che Egli ha fatto per noi e a quello che noi abbiamo fatto contro di Lui; e, come dobbiamo pensare ai nostri peccati più piccoli, dobbiamo pensare alle sue grazie più piccole. Non dobbiamo temere che il conoscere i doni che ha posto in noi ci gonfi; è sufficiente che abbiamo sempre presente questa verità: ciò che di buono c’è in noi non viene da noi.
Rifletti: i muli, animali pesanti e maleodoranti, non cessano di essere tali solo perché sono carichi di mobili preziosi e profumati appartenenti al principe. Che cosa abbiamo di buono che non ci sia stato dato?
E se ci è stato dato, perché insuperbircene? E’ proprio il contrario: la seria riflessione sui doni ricevuti ci rende umili; la conoscenza genera la riconoscenza.
Ma se poi, vedendo i doni di Dio in noi, venisse a solleticarci in qualche modo la vanità, c’è sempre pronto un rimedio infallibile: pensiamo alla nostra ingratitudine, alla nostra imperfezione, alla nostra miseria: se pensiamo ai guai che abbiamo combinato quando Dio non era con noi, scopriremo subito che quanto di buono riusciamo ad imbastire con Lui, non è nel nostro stile e del nostro sacco. Ne proveremo gioia sincera perché il bene c’è, ma ne daremo il merito a Dio perché Lui solo ne è l’autore.
La Santa Vergine dice che Dio opera in lei meraviglie, e lo fa soltanto per umiliarsi e dare gloria a Dio; la mia anima magnifica il Signore, dice, perché ha fatto in me cose grandi.
Spesso diciamo che non siamo nulla, anzi che siamo la miseria in persona, la spazzatura del mondo; ma resteremmo molto male se ci prendessero alla lettera e se ci considerassero in pubblico secondo quanto diciamo. E’ proprio il contrario: fingiamo di fuggire e di nasconderci solo perché ci inseguano e ci cerchino; dimostriamo di voler essere gli ultimi, seduti proprio all’ultimo angolino della tavola, ma soltanto per passare con grande onore a capotavola.
L’umiltà vera non finge di essere umile, a fatica dice parole di umiltà; perché è suo intendimento non solo nascondere le altre virtù, ma soprattutto vorrebbe riuscire a nascondere se stessa; se le fosse lecito mentire, o addirittura scandalizzare il prossimo, prenderebbe atteggiamenti arroganti e superbi, per potercisi nascondere e vivere completamente ignorata e nascosta.
Eccoti il mio parere, Filotea: o evitiamo di dire parole di umiltà, oppure diciamole con profonda convinzione, profondamente rispondente alle parole. Non abbassiamo gli occhi senza umiliare il cuore; non giochiamo a fare gli ultimi se non intendiamo esserlo per davvero. Questa è la mia regola generale e non faccio alcuna eccezione; aggiungo soltanto questo: la buona educazione esige qualche volta che cediamo la precedenza a persone che certamente non l’accetteranno; questa non è doppiezza o falsa umiltà: in tal caso l’offerta della precedenza è un segno d’onore, e poiché non ci è concesso di tributarlo a chi di dovere secondo il merito, non è cosa fatta male darne almeno un piccolo segno. Questo vale anche per alcune espressioni di onore e di rispetto che, strettamente prese, non sembrano rispecchiare la verità: ma lo sono abbastanza se colui che le pronuncia ha seriamente l’intenzione di onorare e dimostrare rispetto a colui cui sono indirizzate. Anche se le parole hanno un significato che va oltre la nostra intenzione, non facciamo nulla di male a servircene quando l’uso è corrente. Personalmente preferirei che le parole fossero rispondenti, il più fedelmente possibile, ai nostri pensieri, e questo per poter seguire sempre e dappertutto la linea della semplicità e della spontaneità affettuosa.
L’uomo sinceramente umile sarebbe più contento se fosse un altro, anziché lui stesso, a dire di lui che è un miserabile, un nulla, un buono a nulla; o, perlomeno, se sa che si dice, non si oppone, ma approva di cuore. Perché, se è vero che ne è convinto, è naturale che ne sia contento di vedere condivisa la sua opinione.
Molti affermano che vogliono lasciare l’orazione mentale ai perfetti perché essi non ne sono degni; altri protestano che non hanno il coraggio di fare spesso la comunione, perché non si sentono sufficientemente purificati; altri ancora dicono di temere di essere causa di disonore per la devozione se ci si impegnano, a causa della loro enorme miseria e fragilità; altri rifuggono dal mettere i loro talenti al servizio di Dio e del prossimo perché, dicono, conoscono la loro debolezza e potrebbero inorgoglirsi vedendosi strumenti di qualche cosa di buono; temono di consumarsi facendo luce agli altri. Tutte queste preoccupazioni sono soltanto inganni, una sorta di umiltà non soltanto falsa, ma perversa, per mezzo della quale, con molta sottigliezza e senza dirlo, si critica l’operato di Dio, o almeno si tenta di coprire di umiltà l’orgoglio della propria opinione, della propria indole, della propria pigrizia.
Domanda a Dio un segno dall’alto, dal cielo o dal basso, dal profondo del mare, dice il Profeta all’infelice Acaz, che risponde: No, non lo domanderò e non tenterò il Signore! E’ veramente perverso. Ostenta un grande sentimento di rispetto verso Dio e, colorando d’umiltà la sua presunzione, rifiuta la grazia di cui Dio vuole dargli un segno. Non pensa che rifiutare i doni che Dio vuole darci è orgoglio! Dobbiamo ricevere i doni che Dio ci manda; l’umiltà è obbedire e seguire da vicino i suoi disegni. Dio vuole che noi siamo perfetti e unendoci a Lui esige che lo seguiamo da vicino il più possibile. Il superbo, che confida solo in se stesso, ha infinite ragioni per non porre mano ad alcuna iniziativa; ma l’umile trova tutto il coraggio nella sua incapacità: più si sente debole e più diventa intraprendente, perché tutta la sua fiducia è riposta in Dio, che si compiace di manifestare la sua potenza nella nostra debolezza e far trionfare la sua misericordia basandola sulla nostra miseria.
Molto umilmente e santamente dobbiamo tentare tutto quello che è giudicato opportuno per il nostro progresso spirituale da coloro che hanno la responsabilità della nostra anima.
Pensare di sapere ciò che non si sa, è stupidità manifesta; voler fare il sapiente in un campo in cui sappiamo benissimo di essere ignoranti, è una vanità insopportabile; per conto mio non vorrei fare il sapiente nemmeno in quello che so, ma nemmeno atteggiarmi a ignorante.
Quando lo richiede la carità, bisogna dare al prossimo, con franchezza e dolcezza allo stesso tempo, non soltanto quanto gli è utile all’istruzione, ma anche ciò che gli fa piacere. L’umiltà nasconde e copre le virtù per conservarle, le lascia vedere quando lo esige la carità, per accrescerle, svilupparle e perfezionarle.
L’umiltà richiama alla mente quell’albero delle isole di Tilo che di notte chiude e protegge i suoi bei fiori di colore incarnato e li dischiude soltanto quando si alza il sole, sicché la gente del paese dice che questo fiore di notte dorme. Così fa l’umiltà che copre e nasconde tutte le virtù e le perfezioni umane e le lascia apparire solo per il servizio della carità, perché è una virtù del cielo, non della terra, divina, non umana: è il vero sole delle virtù sulle quali deve sempre brillare. Si può concludere che le forme di umiltà che portano pregiudizio alla carità, sono certamente false.
Non vorrei atteggiarmi a matto, ma nemmeno a saggio: perché se l’umiltà mi impedisce di fare il saggio, la semplicità e la franchezza mi impediscono di fare il matto; se è vero che la vanità è contraria all’umiltà, è anche vero che l’artificio, l’affettazione e la finzione sono contrarie alla franchezza ed alla semplicità.
E anche se qualche celebre servitore di Dio ha fatto il matto per essere schernito dal mondo, ammiriamolo pure, ma non imitiamolo. Per lasciarsi andare a quegli eccessi quei Servi di Dio hanno avuto motivi personali fuori dall’ordinario che non ci autorizzano a trarre conclusioni per noi.
Davide, saltando e danzando più di quanto sembrasse opportuno, davanti all’Arca dell’alleanza, non voleva fare il matto; ma, molto semplicemente e senza artifici, con quelle danze voleva dimostrare la gioia straordinaria di cui traboccava il suo cuore.
Quando sua moglie Micol glielo rimproverò cime una follia, non fece caso all’umiliazione, ma continuò a manifestare con naturale schiettezza la sua gioia e diede prova di saper accettare un po’ di disprezzo per il suo Dio.
Per questo io ti dico che, se a seguito di atti di una vera e schietta devozione, sarai stimata persona di poco conto, degna di disprezzo o pazza, l’umiltà ti farà gioire per quel fortunato attacco che non ha le sue ragioni in te, ma in coloro che ti attaccano.”
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NOTE
1 Il verbo greco utilizzato dal Vangelo di Luca andrebbe tradotto letteralmente: “ha guardato in giù”, verso la bassezza dell’umile sua schiava.
2 da humus parola latina che vuol dire terra. Essere umili è riconoscere che noi siamo polvere di terra amata da Dio.
3 Dieu est le Dieu du coeur humain” [Dio è il Dio del cuore umano] (Trattato dell’Amore di Dio, I, XV): in queste parole apparentemente semplici cogliamo l’impronta della spiritualità di un grande maestro di san Francesco di Sales, Vescovo e Dottore della Chiesa. Nato nel 1567 e morto nel 1622, in una regione francese di frontiera,visse a cavallo tra due secoli, il Cinquecento e il Seicento, raccolse in sé il meglio degli insegnamenti e delle conquiste culturali del secolo che finiva, riconciliando l’eredità dell’umanesimo con la spinta verso l’assoluto propria delle correnti mistiche. Fra i vari suoi scritti segnalo anche uno dei libri più letti nell’età moderna, l’Introduzione alla vita devota.