venerdì 27 settembre 2013

Chi non muore si rivede



Sconfiggere la morte
intervista ad Alberto Maggi a cura di Franco Marcoaldi
in “la Repubblica” del 27 settembre 2013
Alberto Maggi ha visto la morte da vicino. Ma poiché, oltre che frate, raffinato teologo e religioso
spesso accusato di “eresia”, è un uomo spiritoso, il titolo del libro che dà conto di quell’esperienza,
uscito da poco per Garzanti, suona: Chi non muore si rivede.«Avevo appena ultimato un saggio
sull’ultima beatitudine. La morte come pienezza di vita, ma sentivo che mancava qualcosa. Poi sono
stato ricoverato d’urgenza per una dissezione dell’aorta: tre interventi devastanti, settantacinque
giorni con un piede di qua e uno di là. È stato allora che ho capito cosa mi mancava: l’esperienza
diretta e positiva del morire. E ho anche capito perché San Francesco la chiami sorella morte:
perché la morte non è una nemica che ti toglie la vita, ma una sorella che ti introduce a quella nuova
e definitiva.
Nei giorni in cui ero ricoverato nel reparto di terapia intensiva, con stupore mi sono accorto che le
andavo incontro con curiosità, senza paura, con il sorriso sulle labbra. Oltretutto percepivo con
nettezza la presenza fisica dei miei morti, di coloro che mi avevano preceduto e ora venivano a
visitarmi... Chissà perché quando qualcuno muore gli si augura l’eterno riposo, come se si trattasse
di una condanna all’ergastolo. Io penso invece che chi muore continua a essere parte attiva
dell’azione creatrice del Padre».
Fatto sta che oggi si persegue tutt’altro sogno, quello di una tendenziale immortalità garantita
dalle biotecnologie.
«È una novità che mette in difficoltà anche la Chiesa, chiamata ad approfondire il senso del sacro.
Perché se è sacra la vita dell’uomo, anche quando si riduce alla sopravvivenza di una pura massa
biologica, allora è giusto procrastinare quella vita all’infinito, utilizzando tutti gli strumenti della
scienza medica. Se invece ad essere sacro è l’uomo, bisognerà garantirgli una fine dignitosa…Io
non capisco questa smania di accanirsi su un vecchio, portarlo in ospedale, intervenire a tutti i costi,
anche in prossimità del capolinea. Si potrà prolungare la sua esistenza ancora per un po’, ma in
compenso lo si sottrae alla condivisione familiare di quel passaggio decisivo rappresentato dalla
morte.
Quante volte mi capita di venire chiamato in ospedale per l’estremo saluto e assistere alla seguente
commedia. I parenti mi implorano: la prego, non gli dica niente. Crede di avere soltanto un’ulcera.
E il morente, perfettamente consapevole del suo stato, a sua volta mi chiede di rassicurare i familiari
perché non sono pronti alla sua dipartita. Quando io ero piccolo, il vero tabù era rappresentato dal
sesso. Ora invece è la morte il tabù. È scomparsa qualunque dimestichezza con la pratica mortuaria,
delegata alle pompe funebri, e gli annunci funebri escogitano ogni escamotage pur di non affrontare
il punto: il tal dei tali si è spento, ci ha lasciati, è tornato alla casa del padre. Mai una volta che si
scriva semplicemente: è morto».
Per un credente questo passaggio dovrebbe essere reso più facile dalla credenza nella
resurrezione dei morti.
«Io veramente credo alla resurrezione dei vivi. La resurrezione dei morti è un concetto giudaico. Ma
già con i primi cristiani cambia tutto, come mostra San Paolo nelle sue lettere: “Noi che siamo già
resuscitati”, “noi che sediamo nei cieli”. Gesù ci offre una vita capace di superare anche la morte.
Ecco perché i primi evangelisti usano il termine greco zoe. Mentre bios indica la vita biologica, che
ha un inizio, uno sviluppo e, per quanto ci dispiaccia, un disfacimento finale, la vita interiore (zoe)
ringiovanisce di giorno in giorno. Da qui le parole folli e meravigliose del Cristo: chi crede in me,
non morirà mai».
E allora l’Apocalisse, il giudizio universale, la fine dei giorni?
«Gesù, polemizzando con i Sadducei, afferma che Dio non è il Dio dei morti, ma dei vivi. E non
resuscita i morti, ma comunica ai vivi una qualità di vita che scavalca la morte stessa. Questa è la
buona novella. Quando qualcuno muore e il prete dice ai parenti: un giorno il vostro caro risorgerà,
questa parola non suona affatto come consolatoria, ma incrementa la disperazione. Quando
risorgerà?, si chiedono. Tra un mese, un anno, un secolo? Ma alla sorella di Lazzaro, Gesù dice: io
sono la resurrezione, non io sarò. E aggiunge: chi ha vissuto credendo in me, anche se muore
continua a vivere. Gesù non ci ha liberati dalla paura della morte, ma dalla morte stessa».
Non è una visione del cristianesimo un po’ troppo gioiosa, consolatoria?
«Tutta questa gioia però passa attraverso la croce, non ti viene regalata dall’alto. Quando stavo
male, le persone pie — che sono sempre le più pericolose — mi dicevano: offri le tue sofferenze al
Signore. Io non ho offerto a lui nessuna sofferenza, semmai era lui che mi diceva: accoglimi nella
tua malattia. Era lui che scendeva verso di me per aiutami a superare i miei momenti di
disperazione».
Torniamo al nostro tema. Per un lunghissimo periodo il freno principale all’effrazione del
limite era rappresentato proprio dal terrore di incorrere nel peccato di superbia, di credersi
onnipotenti come Dio.
«Questo secondo l’immagine tradizionale della religione, che presuppone un Dio che punisce e
castiga. Per scribi e farisei è sacra la Legge, per Gesù invece è sacro l’uomo. Per i primi il peccato
era una trasgressione della Legge e un’offesa a Dio, per Gesù il peccato è ciò che offende l’uomo ».
Ecco che salta fuori Maggi l’eretico, che vede nella religione un ostacolo che si frappone alla
vera fede.
«La religione ha inventato la paura di Dio per meglio dominare le persone e mantenere posizioni di
potere acquisite. Per religione si intende tutto ciò che l’uomo fa per Dio, per fede tutto ciò che Dio
fa per l’uomo. Con Gesù invece Dio è all’inizio e il traguardo finale è l’uomo. Per questo ogni volta
che Gesù si trova in conflitto tra l’osservanza della legge divina e il bene dell’uomo, sceglie sempre
la seconda. Al contrario dei sacerdoti. Facendo il bene dell’uomo, si è certi di fare il bene di Dio,
mentre quante volte invece, pensando di fare il bene di Dio, si è fatto del male all’uomo».
Se non è più il terrore di commettere peccato a fare da freno alla nostra hybris, cos’altro
spinge un cristiano a riconoscere la bontà del limite?
«Il tuo bene è il mio limite. La mia libertà è infinita; nessuno può limitarla, neppure il Cristo, perché
quella libertà è racchiusa nello scrigno della mia coscienza. Sono io a circoscriverla. Per il tuo bene,
per la tua felicità. È così che l’apparente perdita diventa guadagno. Lo dicono bene i Vangeli: si
possiede soltanto quello che si dà».
Mi sbaglierò, ma è proprio la parola limite che non si attaglia al suo vocabolario.
«Preferisco il termine pienezza. La parola limite ha una connotazione claustrofobica. La pienezza
mi invita a respirare. Ogni mattina che mi sveglio, io mi trovo di fronte all’immensità dell’amore di
Dio e cerco di coglierne un frammento, per poi restituirlo al prossimo. A partire, certo, dal mio
limite. San Paolo usa a riguardo una bellissima espressione: abbiamo a disposizione un tesoro
inestimabile e lo conserviamo in vasi da quattro soldi. Questa è la nostra condizione: una ricchezza
immensa, a fronte della nostra umana fragilità e debolezza. Che però non necessariamente è
negativa. Perché sarà il mio limite a farmi comprendere anche il tuo. E di nuovo ecco la rivoluzione
di Gesù. Nell’Antico Testamento il Signore dice: siate santi come io sono santo. Gesù invece non
invita alla santità, dice: siate compassionevoli come il Padre è compassionevole. La santità
allontana dagli uomini comuni, la compassione invece ci unisce».