giovedì 26 settembre 2013

Nelle periferie dell’anima




Il film vincitore a Venezia. 

(Lucetta Scaraffia) Vi è una singolare coincidenza fra le parole di Papa Francesco, che incita fedeli e clero ad andare nelle “periferie” della società e dell’anima, e il film che ha vinto il festival di Venezia, Sacro Gra, dedicato al Grande raccordo anulare di Roma e meritoriamente prodotto dalla Rai. Costata anni di lavoro, l’opera non è di denuncia sociale, ma una narrazione poetica in cui la solitudine e l’estraneazione dell’essere umano di fronte all’invasione della tecnica vengono trasmesse da immagini e rumori: di vite passate in auto, di appartamenti piccoli e miseri, di locali squallidi.
Nel silenzio rotto raramente da voci umane si ascolta il rombo del nastro di asfalto che circonda la città, qualche aereo che passa a quota troppo bassa, la televisione accesa. E, ricorrente, l’urlo delle sirene. La tecnologia – rappresentata dal movimento incessante delle auto che produce intorno a sé degrado sociale e ambientale – conta i suoi caduti: scena che si ripete è l’ambulanza che arriva e carica il ferito in un incidente stradale.
Ma in questo paesaggio orribile, in questo frastuono incessante, in una condizione che ricorda un girone infernale, Dio è presente. Non tanto nei luoghi deputati a custodirlo – in una chiesa brutta e moderna il prete si aggira solitario – ma nell’animo degli esseri umani che abitano questo inferno. Fra le donne riunite all’aperto che pregano quasi con violenza, ma soprattutto nei delicati rapporti che riscaldano la vita quotidiana di chi, spinto ai margini della vita sociale, in questo inferno è costretto a vivere.
Rapporti umani, illuminati da sogni impossibili, ma che riescono a stabilire vere correnti amorose. Vincono su tutti per il calore e la freschezza quelli fra padre e figlia e madre e figlio, rappresentati in piccoli episodi e in ambienti di grande e suggestivo realismo. Ma anche il botanico che si aggira in una natura degradata e sporca per salvare le palme malate, ascoltando con timore e insieme muta ammirazione il rumore ingigantito degli insetti che le divorano, è un esempio di rapporto amoroso con l’ambiente.
L’amore trasmesso attraverso una parola o uno sguardo è così, in questo luogo terribile, la forza che permette di affrontare la morte, lasciata in mano alle ruspe e a operai indifferenti, affrontata come un fatto tecnico, una appendice del Gra. Ma Dio è anche nel finale, nell’unica musica del film, una vecchia canzone che si chiama Il cielo: certo, qui il cielo, nelle sue due accezioni — quella naturale e quella simbolica di sede di Dio — può sembrare lontano e indifferente, ma è l’unico luogo luminoso a cui gli occhi si possono volgere. Anche nel fragore delle auto e nella solitudine di una periferia degradata.
L'Osservatore Romano