lunedì 28 ottobre 2013

A proposito (ed a sproposito) di Peccato Originale



«Troppo comodo scaricare la colpa»
di Pierangelo Sequeri
in “Avvenire” del 27 ottobre 2013
Caro direttore, aderisco volentieri all’invito di interloquire con le puntualizzazioni di Vito Mancuso
a riguardo della sua posizione sul tema del peccato originale. Mi permetto anzitutto un’osservazione
sull’ambivalenza dell’approccio critico, che Mancuso rivendica, di per sé giustamente, come qualità
necessaria dell’impresa razionale della teologia (citando Joseph Ratzinger!). Mancuso si propone di
denunciare «l’insostenibilità» del nucleo centrale del dogma, che sarebbe in aperto contrasto con la
dignità di Dio e dell’uomo. Ma, al tempo stesso, propone che esso venga «riscritto», dato che
concerne pur sempre una drammatica verità del male e del peccato che egli, in quanto teologo, non
vuole in alcun modo vanificare. Mi pare francamente una mossa a effetto. Lo capisco, il tempo si è
fatto difficile e il mondo è cattivo (appunto): se vuoi parlare del cristianesimo e non esibisci
anzitutto un gesto liquidatorio del dogma, poi non te lo lasciano neanche interpretare o trascrivere.
(Come anche Mancuso ci spiega nel finale, se rientri nel club dei sottomessi esci da quello degli
intelligenti). Prendiamoci il rischio, e proviamo a vedere l’intelligenza.
La denuncia dell’insostenibilità del dogma argomenta la necessità di contrastare la sua idea centrale,
ossia che gli uomini siano peccatori agli occhi di Dio «per il fatto stesso di essere uomini». Questa
semplificazione, che intende riassumere il nucleo della dottrina, non è leale. Questa equivoca
forzatura è propria del dualismo gnostico, semmai, al quale il cristianesimo si è duramente opposto
fin dall’inizio.
L’idea della struttura peccaminosa della creatura, che riconduce infine a un «dio maligno», rimane
nella variante-Mancuso, che parla della natura umana come precario impasto di un «caos
originario», in cui lavora un’oscura «forza distruttiva», al di sotto e al di là di ogni profilo morale
(quello più degno dell’uomo, quando si discute del male). È perciò curioso – oltre che “sbagliato” –
che, pur sostenendo questa naturalizzazione del peccato e del male nell’uomo, Mancuso rimproveri
questa «scandalosa» dottrina al Concilio di Trento. Il Concilio di Trento, in verità, che fronteggia
proprio su questo punto il radicalismo agostiniano del protestantesimo, condivide l’idea di una
corruzione della natura umana, ma resiste fermamente all’idea della corruzione come natura
dell’uomo.
L'ingiustizia del male è una faccenda fra l’uomo e Dio: non va divinizzata, né naturalizzata. Certo,
anche la catechesi, maneggiando talora maldestramente i registri narrativi della rivelazione e quelli
metafisici della tradizione, ha accumulato eccessi di semplificazione, che sono diventati altrettanti
motivi di grave fraintendimento. Non per questo dobbiamo buttare il bambino con l’acqua del
battesimo, come fosse un piccolo mostro.
Nonostante tutto (ossia nonostante noi), «i loro angeli vedono Dio» dice Gesù. Il quale, però, ci ha
pure trafitti con quella sua famosa e trascurata doppia sentenza. La prima è questa: «Perché mi
chiami buono? Solo Dio è buono». E poi: «Se voi che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri
figli, quanto più Dio». Se anche non vogliamo perderci nelle difficili interpretazioni del mito e della
metafisica, ce l’abbiamo già tutta qui, in chiaro, la rivelazione del peccato originale. Insieme con il
suo antidoto, sul quale non mi dilungo.
Infine, sembra essere proprio la nominazione della profondità del male come peccato, che ci rende
così suscettibili, noi moderni. Certo, capisco che ereditare «il caos» sembra suonare meglio che non
ereditare «il peccato». Lo dice esplicitamente Mancuso: «Logos + Caos: è questa la formula che sa
rendere conto della contraddizione insita nel processo vitale, uomo compreso, senza colpevolizzare
nessuno». Ecco la parola magica. Noi non vogliamo condividere nessuna colpa di qualcun altro.
Anzi, non vogliamo essere colpevolizzati e basta. Siamo caotici, siamo irrazionali, siamo pure
bestiali.
Ma quando ci mettiamo dalla parte della Legge e del Logos, della disciplina e della ragione, non
vogliamo essere colpevolizzati da nessuno. Tanto meno da Dio, che semmai ha molto da farsi
perdonare da noi. Non che ci sia un qualche senso, in (quasi) tutto questo. Figuriamoci. Non siamo
così sottomessi da non capirlo. Eppure quel tanto di accecamento che sta racchiuso in questa nostra
presunzione, dovrebbe renderci più pensosi. L’oscura rivelazione del peccato che sta all’origine, ed
è tramandato di generazione in generazione fino a noi, accende una luce su ciò che non vediamo,
anche quando ci sentiamo illuminati a giorno.
L’uomo moderno alza il suo ditino fino al cielo, non solo perché sofferente del male, ma anche
perché indignato per l’aliena e ingiustificata incursione del male nella nostra vita. L’impotenza non
è una colpa, certo. Ma lo scandalo del male che è perfettamente in nostro potere evitare, non è il
vero (e scandaloso) enigma? Noi facciamo il male, ogni giorno, a mente lucida e anche senza alcun
tornaconto. Da quale delirio di onnipotenza si leva il nostro ditino innocente? E quale viltà ci
impone di chiamarci fuori dalla colpa in cui siamo avvolti, come genere umano, soltanto per il fatto
che non noi precisamente abbiamo fatto questo o quello, che pure ci appare «indegno» dell’uomo, e
ci fa giustamente «vergognare» di appartenere alla stessa umanità? Non dovremmo incominciare di
qui, a ragionare sulla nostra autonomia, e sul caos e sul logos?
Ma c’è di più. Tutto questo avviene anche dalla parte della ragione, non solo del caos. E persino
dalla parte della religione, e non solo dell’incredulità (come dice esattamente Paolo: fuori e dentro
la Legge).
Non conosciamo forse una lucida burocrazia del male, tutta legge e ordini che non si discutono?
Non calcoliamo forse a tavolino, con razionale economia, la quota di esseri umani destinati a morire
di fame per mancanza di risorse? La carestia, forse, non dipende da noi. Ma le risorse? Non si
crocifiggono ancora umani in nome di Dio? Non si sacrificano umani in nome del progresso, del
benessere, del pensiero illuminato – e dogmaticamente irrevocabile – su ciò che è degno o indegno
di vivere? Non siamo diventati un po’ vili, quando mendichiamo comprensione alla patetica
ideologia delle pulsioni, degli ormoni, dei neuroni e dei geni, perdendo l’intelligenza della
grandiosità e della profondità “ontologica” della storia: ossia della drammatica morale in cui si
decidono la realtà e la giustizia di quello che siamo e saremo? Non siamo un po’ cinici, quando
protestiamo la nostra innocenza soltanto perché noi non abbiamo fatto niente (appunto)? E come
riusciamo, senza arrossire, a mettere in carico al caos primordiale anche tutta la vergogna della
nostra presunta impotenza, e a merito del logos moderno anche tutto il nostro delirio di
onnipotenza?
Di tutto questo tratta il dogma del peccato originale, comunque, se lo si vuole realmente indagare.
(Caro Vito, lo so, il nostro è un mestiere difficile. Ci tocca dar retta senza fiatare a un racconto
“razionale” delle origini che parla di scimmioni che si sono inventati “dio” dopo una rissa per una
questione di donne andata a male, e poi essere rimproverati di ascoltare ancora il “mito” biblico del
bellissimo e drammatico primo incontro dell’uomo con Dio. Hanno studiato Kant, l’illuminato, che
lo pasticcia, e non hanno neppure letto la Parola, che ci rischiara. Ti chiedo francamente: a chi e a
che cosa siamo sottomessi, realmente, se accettiamo quel piatto di lenticchie in cambio
dell’obbedienza della fede? E con quale vantaggio, per la comune intelligenza della fatica di essere
umani?).

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“Avvenire” - Rassegna "Fine settimana"
(Vito Mancuso) Caro direttore, la ringrazio molto per l’opportunità di chiarire il mio pensiero sul peccato originale dopo le critiche mossemi da Gianni Gennari in seguito alla mia partecipazione alla trasmissione tv Che tempo che fa. Tralascio il sarcasmo di cui sono (...)
- Che tempo che fa”? Lepidezze e tanti sorrisi maldestri(Gianni Gennari in “Avvenire” - Rassegna "Fine settimana")

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