giovedì 24 ottobre 2013

Dio è un espressionista



Simposio della Fondazione Joseph Ratzinger. Affidabilità dei Vangeli.
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Anticipiamo — in una nostra traduzione — stralci di una delle relazioni presentate alla Pontificia Università Lateranense nell’ambito del simposio della Fondazione Joseph Ratzinger, «I Vangeli: storia e cristologia. La ricerca di Joseph Ratzinger», in corso fino al 26 ottobre.
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(Klaus Berger) Nell’apologetica più antica era compreso anche il tema dell’affidabilità dei Vangeli; non mi sono mai piaciuti né il tema né gli studi correlati, poiché nascono da criteri che ricordano i moderni interrogatori di testimoni e imputati nei processi penali. Da qui la parola apologetica; che comprende, per esempio, la credibilità morale. Secondo questo criterio moderno, Pietro non avrebbe la stessa importanza che ha nel canone attualmente esistente. Ed emerge anche un altro problema: come gli antichi riuscirono a convincere i destinatari dei testi dei primi due secoli? O, detto diversamente, che cosa li indusse a fidarsi dei Vangeli? Di fatto, c’erano settantadue scritti di argomento evangelico prima che la Chiesa facesse una scelta alla fine del II secolo, quando venne fissato il canone. Molti di questi Vangeli sono stati conservati, cosicché abbiamo qualche chiave interpretativa riguardo al motivo per cui la Chiesa — chi esattamente sia stato non lo sappiamo — ha scelto e accettato i Vangeli canonici, e in base a quali criteri lo ha fatto. Questi criteri, a cui si è attenuta la Chiesa, emergono dal confronto tra i Vangeli canonici e altri testi aperti.
Innanzitutto deve esserci un atto narrativo continuativo cronologicamente (narratio); in tutti i Vangeli accettati la vita di Gesù dopo il battesimo viene presentata come un percorso, un cammino di vita. Poi devono riportare la morte e risurrezione di Gesù. Non è il caso, per esempio, del Vangelo di Tommaso. Ma i Vangeli non devono limitarsi a tale argomento, come sembra avvenire nel Vangelo di Pietro. Non vengono accettate né apparizioni del risorto prive di riferimenti temporali, né narrazioni senza l’indicazione del luogo.
Deve esserci un dibattito con il giudaismo, come conferma o come limite. Gesù ha interlocutori ebrei; come sfondo storico è ammesso solo il primo giudaismo, non la gnosi inerente alle religioni sistematiche dell’epoca. Bisogna accettare che, oltre alle parole di Gesù, ci siano anche azioni, come i miracoli. Gesù aveva diversi discepoli. Non appare come uno che pronuncia monologhi o come un uomo solitario. Ha dato alla sua ristretta cerchia di discepoli una dignità teologica, scegliendone dodici che rappresentavano Israele. La ricerca critica spesso si è adombrata dinanzi alla parola “Chiesa”, affermando che appare solo nel Vangelo di Matteo e concludendo che Gesù non aveva pensato o voluto la Chiesa. Ma è vero che Gesù, con l’elezione teologicamente connotata dei discepoli, ha creato una comunità che è la forma della fede nel Dio uno e trino.
I Vangeli autentici non si interrogano sull’esatto corso degli eventi della resurrezione di Gesù. Diversamente dagli apologeti dell’antichità e da quelli più recenti, i Vangeli non insistono in modo esplicito sul fatto che le testimonianze provengono da testimoni oculari; di solito non indicano quali discepoli erano presenti a ogni evento o discorso di Gesù.
Nel quadro del futuro popolo di Dio, l’identità di Dio era particolarmente importante per i primi cristiani. Ciò emerge dal fatto che le promesse contenute nelle parole dei profeti corrispondono al compimento di eventi reali. La testimonianza della Scrittura secondo lo schema della promessa e del compimento divenne una facile preda della critica storicistica. Sta proprio nella diversa analisi di questo aspetto la maggiore distanza tra la valutazione del cristianesimo dei primordi e la nostra. La critica storicistica ha cercato anzitutto di far crollare il ponte della continuità. Non si tratta, ovviamente, di fiducia cieca. Alla base rimane piuttosto l’identità di Dio, l’identità costante del suo popolo e il principio secondo cui, riguardo al Creatore, parola e atti corrispondono. Solo Dio può essere fedele; altrimenti non sarebbe Dio. L’affidabilità della sua parola, la sua lealtà, è il motivo principale per credere in lui e per seguirlo. Di solito, però, non siamo soliti credere nella fedeltà umana; il rapido aumento dei divorzi nella società moderna è dovuto al fatto che, in termini di fedeltà, al primo dubbio siamo pronti a gettare la spugna. Il Dio biblico, invece, è colui che non ha mai infranto l’alleanza, mentre noi uomini, al primo segno di infedeltà del partner, abbandoniamo la nostra lealtà.
Pertanto, i Vangeli sono credibili per i cristiani perché in essi è confermata la fedeltà di Dio. Maria è la Vergine che ha partorito l’Emmanuele, il giusto che soffre, secondo i Salmi e i profeti, il Santo di Dio. Per questo Gesù compie i miracoli che Dio ha annunciato: che i ciechi vedranno, che gli storpi cammineranno e che i morti risusciteranno.
Come forse potete immaginare, i primi cristiani sono persone che hanno pregato continuamente «Signore, mandaci un segno della tua fedeltà, di modo che possiamo di nuovo credere in te». E anche la fede nel regno alla fine dei tempi è necessaria in questo contesto, poiché Dio verrà a compiere le promesse che non sono state ancora adempiute.
È questo che intende Luca (21, 22), laddove Gesù dice che ogni parola predetta deve essere e sarà compiuta: «Saranno infatti giorni di vendetta, perché tutto ciò che è stato scritto si compia». Questa è la fine, ed è questo il ponte tra Gesù e Apocalisse (20): come si aspetta il giudaismo apocalittico, ci sarà un tempo in cui Dio non lascerà incompiuta una sola promessa.
La nostra mente critica moderna certamente solleverà un’obiezione: ma che cosa accadrà se tutto ciò non è vero? È facile dire ciò che la gente pia diceva un tempo: basta credere tutto. Se però non si riesce a credere, non bisogna dire a Dio: se non fai questo, io non credo! E i Vangeli sono il nonsense più bigotto mai esistito. In questo modo, la critica illuministica dei Vangeli diventa un esempio di che cosa accade se il Signore Dio finisce nelle mani o sulla scrivania di ragionieri tedesco-austriaci-francesi, che cercano di dimostrare la sua colpevolezza, di condannarlo come bugiardo. Come stanno insieme promessa e compimento? Ecco la mia idea in merito. Il compimento non è alla lettera; la promessa e il compimento non possono incastrarsi l’uno nell’altro. Il compimento spesso giunge inaspettato. Dio ha, per così dire, una propria personalità e quindi non è l’oggetto ideale per un ragioniere. La capricciosità del Dio biblico e il suo carattere irritabile sono tra gli aspetti che più mi fanno credere in lui. La fedeltà di Dio corrisponde alla necessaria pazienza degli esseri umani. Pazienza e lealtà sono spesso le due facce della stessa medaglia. E con la pazienza spesso arriva anche la sofferenza.
Qualunque cosa faccia Dio, rimane sempre aperta a molte persone. Accade anche con i miracoli. Gli esseri umani sono avidamente in attesa delle azioni più grandi di Dio. L’orizzonte è un infinito incomprensibile. Le azioni di Dio sono spesso volte alla salvezza, alla pienezza, alla consolazione, alla speranza, ma anche all’irritazione.
È solito anche agire in segreto: il segreto è spesso il posto di Dio nel mondo. Dio assomiglia a un artista; ciò significa che la mancanza di accuratezza è ingannevole. Spesso accade che dove si chiude una finestra, si spalanca una porta. Come artista, Dio è un espressionista: chi riesce a vedere e a sentire, comprende molto bene l’interiorità di Dio, il suo cuore. La calligrafia di Dio si vede molto chiaramente nel Magnificat: alla fine, Dio non ama le persone che amano mettersi in mostra. Non di rado accade che, in assenza di prove, la causa spesso elude la questione della verifica. Vediamo un evento e iniziamo a chiederci: non è alquanto probabile che un tale effetto provenga da Dio? Dinanzi alle promesse dei profeti, Dio agisce come traduttore: è leale al profeta ed è leale a coloro ai quali sono destinate le sue azioni. Il profeta spesso sembra essere guidato dal proprio mondo, dalle circostanze e dai suoi bisogni.
Tutto questo dimostra perché spesso è tanto difficile riconoscere le vie di Dio. Il mio intervento, quindi, non è una difesa di Dio, non una consolazione, ma solo la proposta di una visione che può dare sostegno.
Per i primi cristiani, il rapporto tra promessa e compimento era il motivo decisivo per credere ai Vangeli. Il compito dell’esegeta non è quello di aggiustare le cose in qualche modo per poter dire che Dio ha ragione. Dio non ha bisogno di un avvocato. Vuole invece un ascoltatore paziente che, guardando tutto ciò che accade all’esterno di se stesso, dovrebbe considerarlo innanzitutto come una sfida.
L'Osservatore Romano