giovedì 24 ottobre 2013

La Carta dei diritti della famiglia e l'emancipazione femminile... 30 anni dopo




(Lucetta Scaraffia) Sono in molti a pensare che l’emancipazione delle donne sia la causa più importante della crisi della famiglia nei Paesi occidentali, cioè in quelli dove ormai il deterioramento di questa istituzione è una realtà affermata. E non si può negare che molte delle conquistate libertà femminili mettono in crisi la struttura basica di famiglia quale la conosciamo.Se prendiamo in esame la carta dei diritti della famiglia questa impressione si fa più concreta e precisa intorno ad alcuni punti che passiamo a esaminare: l’idea che esista una famiglia “naturale”, che la famiglia costituisca una “società naturale”; la proposta di eguali diritti per i coniugi nella complementarietà dei ruoli; la condanna della contraccezione, dell’aborto e della sterilizzazione.
Naturalmente, queste contraddizioni fra emancipazione femminile così come viene intesa oggi e carta dei diritti della famiglia sono collegate fra di loro, e discendono dalla prima affermazione, quella legata alla naturalità della famiglia. Le teoriche dei movimenti femministi tendono a negare questa naturalità, e a considerare la famiglia solo un legame sociale, prodotto dalle condizioni storiche. E, dal momento che individuano nella famiglia patriarcale l’origine dell’oppressione delle donne, vedono nel concetto di naturalità dell’istituto familiare una trappola per perpetuare questa schiavitù. Per le donne, storicamente, tutto ciò che è definito come naturale — a partire dalla struttura biologica del corpo femminile — è visto con sospetto perché è servito a giustificare e a rafforzare la loro oppressione, e quindi ne sono nemiche acerrime.
La famiglia ha senza dubbio una base naturale, quella legata alla generazione, ma su questa base naturale è intervenuta la storia, cioè la cultura, e la tradizione cristiana ha dato un contributo essenziale: l’idea che la celebrazione del matrimonio richieda due coniugi consenzienti, e che marito e moglie godano degli stessi diritti e degli stessi doveri, è nata con il cristianesimo. La realizzazione concreta di questa norma, però, ha visto per secoli il prevalere dell’autorità maschile del padre, anche sulla “proprietà” dei figli, senza che sostanzialmente la Chiesa si opponesse.
È stato solo con la rivoluzione industriale, che ha aperto alle donne inedite possibilità di lavoro, e quindi di autonomia economica, che si è arrivati a sancire legalmente la parità e l’uguaglianza fra i coniugi all’interno del nucleo familiare.
Oggi la famiglia che difendiamo è quella che esclude la poligamia, il diritto di vita e di morte sul figlio, il ripudio e la vendetta per adulterio: questo equilibrio e questa libertà inaudite sono tanto rare nella storia umana da avere voglia di conservarli. È questa la famiglia che bisogna difendere, che è quindi frutto non solo di condizioni naturali, ma anche di un processo storico ben preciso, a cui la Chiesa ha sostanzialmente contribuito. Tanto è vero che, nei Paesi in cui questo processo non è avvenuto, le donne non hanno ancora conseguito la parità legale con gli uomini neppure nella famiglia.
L’idea di una diversità naturale fra donne e uomini fa da base alla proposta di un rapporto coniugale che preveda uguali diritti nella complementarietà. Si tratta di un’interpretazione della diversità fra i sessi che si fonda soprattutto sulla maternità, e quindi è indiscutibile e reale: però proprio su questa diversità naturale si è fondata, nei secoli, l’oppressione delle donne. Tanto è vero che, in alcuni Paesi dell’Occidente, per sfuggire a questo destino naturale, si cerca di sostituire al concetto di diversità sessuale — innegabile realtà per tutti — quello di gender, cioè di una mancanza di differenze, di una neutralità di base che dovrebbe impedire proprio che il riconoscimento di una diversità diventi occasione di emarginazione.
Ovviamente, questa ipotesi di negare la differenza sessuale per sostituirla con il concetto neutro di gender è infondata e pericolosa, ma è anche vero che sottolineare solo la complementarietà rischia di perpetuare l’oppressione femminile. Se esistono, infatti, tante occasioni per realizzare un fruttuoso rapporto complementare — a cominciare, ovviamente, dalla generazione di figli — esistono anche compiti e ruoli che possono essere svolti sia da donne che da uomini, nel campo professionale come nella vita familiare. Una parte dei lavori domestici, l’allevamento e l’educazione dei figli, la cura dei legami familiari e sociali, infatti, può essere affidata sia alla moglie che al marito, così come il lavoro extra-domestico e i rapporti istituzionali con il mondo esterno. Una parziale sovrapposizione dei ruoli maschili e femminili, quindi, può essere positiva per la famiglia così come la complementarietà, e garantisce le donne da una chiusura in ruoli considerati inferiori.
Certo, una delle principali ragioni della crisi della famiglia è indubbiamente nel tipo di emancipazione che si è affermato nei Paesi occidentali, che vede le donne appiattirsi sul ruolo maschile perché più forte socialmente e più conveniente economicamente. Le donne sono riuscite così a entrare nel mondo degli uomini e a occupare i loro posti, diventando sempre più simili agli uomini e arrivando a disprezzare, quindi, il lavoro di cura su cui si fonda la vita di una famiglia, cioè cura quotidiana dei membri familiari, allevamento dei bambini, assistenza dei malati e dei vecchi.
I compiti tradizionalmente femminili, quindi, sono sempre più disprezzati tanto che, appena possibile, vengono affidati a persone che sono in fondo alla scala sociale, come gli immigrati. Le donne considerano punitive queste occupazioni, così come considerano punitivo il lavoro di cura, che invece è ricco di ricompense umane e di soddisfazioni affettive.
Certo, in questa demonizzazione del lavoro di cura le donne hanno una responsabilità non indifferente, dal momento che hanno scelto un’emancipazione centrata sull’eguaglianza agli uomini invece che un tipo di parità fondato sulla valorizzazione della differenza, quindi anche del lavoro di cura. Ma oggi molte giovani donne preferirebbero allevare i loro figli che correre a lavorare fuori, e sanno che le soddisfazioni e le felicità che si ottengono dalla cura dei rapporti umani sono molto più solide e danno più felicità di quelle che si possono avere da un lavoro competitivo. Ma la società non prevede queste scelte, penalizza i loro desideri.
Certo il punto sul quale il concetto di complementarietà è stato sottoposto a una critica più decisiva è stato il comportamento sessuale, proprio quello che legava indissolubilmente la donna alla maternità e quindi — agli occhi di molte donne — alla ragione principale della loro emarginazione. Separare la donna dalla maternità voleva dire affrancarla dal suo destino biologico, permetterle di affrontare una vita di lavoro come gli uomini, di avere una vita sessuale libera dalla paura della gravidanza.
Le battaglie sui contraccettivi, sull’aborto e poi, dall’altro lato, su ogni tipo di intervento per concepire un figlio al momento in cui lo si desidera, sono state tutte considerate dalle donne battaglie fondamentali per ottenere la libertà. Per decenni, infatti, l’emancipazione delle donne è stata misurata con la libertà di aborto e di contraccezione, in qualsiasi contesto culturale, indipendentemente da altri fattori quali il livello di istruzione e le possibilità di inserimento professionale.
Il collegamento fra emancipazione delle donne e possibilità di evitare la maternità, che ha costituito un motivo ricorrente nella cultura occidentale, ha senza dubbio incrinato la prima funzione della famiglia, quella di garantire e custodire la procreazione. Una famiglia in cui i figli non sono più al centro del progetto futuro, in cui la sessualità è separata dalla procreazione, è certamente una famiglia fragile e anche, per molti aspetti, inutile.
Questo svuotamento della funzione primaria e del significato forte della famiglia è avvenuto anche se la propaganda che ha portato alla diffusione degli anticoncezionali chimici e alla legalizzazione dell’aborto — entrambi definiti solo come diritto delle donne, esclusivamente dipendenti dalla loro scelta — si è fondata, almeno nei primi decenni, su una utopia almeno all’apparenza “familista”. Cioè sull’utopia che il “figlio desiderato” avrebbe non solo reso più felici e facili i matrimoni, ma anche avrebbe contribuito a migliorare l’umanità, creando figli migliori.
È stata questa la propaganda che ha contribuito in modo determinante a diffondere un nuovo modello di vita: i giovani sono frutto, ormai per il novanta per cento, di un desiderio privato. Abbiamo assistito all’appropriazione soggettiva del processo vitale. E, come ha scritto Marcel Gauchet, non si può pensare che un cambiamento antropologico di tale portata non arrivi a influenzare la costituzione psichica degli esseri. Per i giovani ne deriva un disorientamento profondo e un’insicurezza strisciante: «sono veramente la persona che i miei genitori desideravano?». Domanda che non si poneva il figlio nato dal caso, che doveva la vita alla vita, all’oggettività del processo vitale. Naturalmente, perché esista il figlio desiderato, deve esistere anche il figlio rifiutato, ben visibile nel rifiuto per il bambino, e tutto ciò che esso rappresenta, emerso nelle nostre culture.
Ma ci sono anche pesanti conseguenze sul piano sociale: se la sessualità smette di essere un problema collettivo collegato al prolungamento del gruppo umano nel tempo, e diventa affare privato ed espressione della propria individualità, ne discende ovviamente una crisi dell’istituto famigliare e un cambiamento nello statuto dell’omosessualità.
Mentre una volta, infatti, era la famiglia che produceva il figlio come ovvia conseguenza dell’attività sessuale dei coniugi, oggi sempre più spesso è il figlio desiderato che crea la famiglia. E quindi può essere considerata famiglia quella di chiunque desideri un figlio.
Le giovani donne oggi stanno pagando caro questa utopia, sia come “figlie del desiderio” con tutti i problemi che ciò comporta, sia per l’impossibilità di avere dei figli in giovane età e quindi, in molti casi, di avere dei figli comunque.
E bisogna anche segnalare i nuovi modi di sfruttamento del corpo femminile che la nostra società “liberata” sta producendo, come l’affitto dell’utero e la vendita degli ovuli.
Per le donne, quindi, la famiglia e i figli rimangono un sogno spesso irrealizzato, che non può venire compensato dai nuovi diritti e dalle nuove possibilità di carriera.
L'Osservatore Romano