giovedì 24 ottobre 2013

Venerdì della XXIX settimana del Tempo Ordinario



Solo l'amore distingue i figli di Dio dai figli del diavolo. 
Se tutti si segnassero con la croce, 
se rispondessero Amen e cantassero tutti l'Alleluia; 
se tutti ricevessero il battesimo ed entrassero nelle chiese, 
se facessero costruire i muri delle basiliche,
resta il fatto che soltanto la carità 
fa distinguere i figli di Dio dai figli del diavolo. 
Quelli che hanno la carità sono nati da Dio, 
quelli che non l'hanno non sono nati da Dio. 
È questo il grande criterio di discernimento.
S. Agostino, Commento prima lettera di Giovanni 5, 6-7.




Dal Vangelo secondo Luca 12,54-59.
Diceva ancora alle folle: «Quando vedete una nuvola salire da ponente, subito dite: Viene la pioggia, e così accade. E quando soffia lo scirocco, dite: Ci sarà caldo, e così accade. Ipocriti! Sapete giudicare l'aspetto della terra e del cielo, come mai questo tempo non sapete giudicarlo? E perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto? Quando vai con il tuo avversario davanti al magistrato, lungo la strada procura di accordarti con lui, perché non ti trascini davanti al giudice e il giudice ti consegni all'esecutore e questi ti getti in prigione. Ti assicuro, non ne uscirai finché non avrai pagato fino all'ultimo spicciolo».

Il commento

Ce lo «assicura» il Signore, la vita è un cammino «con il nostro avversario» per giungere infine «davanti al Giudice». Ma non è proprio così che siamo abituati a «giudicare questo tempo»; Non sappiamo "discernere" il "kairos", secondo il greco originale, il momento favorevole per "metterci d'accordo" e riconciliarci con le persone care. O meglio, non discerniamo quello che si agita nel nostro cuore, e non riusciamo ad accettare che l'altro è realmente un "avversario" del nostro io. Da una parte il sentimentalismo ci spinge a guardare sentimentalmente le relazioni e sperare da esse quel romanticismo con cui riscaldare il nostro cuore. E' impossibile che proprio l'amore del nostro cuore sia un nemico. Ci poniamo davanti alla storia come quando si guarda l’«aspetto della terra e del cielo» per prevedere il tempo: allo stesso modo che quando «soffia lo scirocco» ci aspettiamo «il caldo», o come da "una nuvola che sale a ponente" ci aspettiamo la pioggia, da una persona cara attendiamo comprensione, rispetto, amore. E quando ciò non «accade» è la fine del mondo, con i suoi terremoti affettivi. «Come mai» non riusciamo a frenarli? Perché siamo intrappolati nell' «ipocrisia». Essa significa doppiezza e falsità, es è quella che definisce le nostre relazioni. Quando l'amore autentico, l'agape gratuita nella quale siamo chiamati a donarci, si trasforma in eros, ovvero egoismo, l'altro diviene un "avversario". Quando superiamo la linea che separa amore ed eros, la relazione si trasforma in una guerra. Si alza la voce, ci afferra il nervosismo, giudichiamo tutto senza pietà. Così, ad esempio, una madre che ha perduto l'orizzonte gratuito dell'amore, comincia a non accettare sua figlia, troppo diversa dai suoi schemi, sfuggevole come un'anguilla dalle sue mire e dai suoi progetti. Non sopporta più il suo modo di parlare, di vestire, di tagliarsi i capelli. Quando l'agape diviene eros entriamo nel territorio dell'ipocrisia: tutto diviene una caricatura dell'amore. A volte esplode la passionalità e la carica erotica della sessualità, più spesso si diviene insopportabili e si stenta a controllarsi. Ciò accade perché dall'altro si comincia ad esigere l'amore, la riconoscenza, la dedizione. Sempre di più, in un parossismo sfrenato... E allora si diventa anche violenti, verbalmente o fisicamente, sino ad arrivare, in casi estremi, all'omicidio; dopo essere stati lasciati da colei nella quale si era creduto di poter attingere la vita si può giungere alla violenza cieca di una bestia ferita. Orgoglio, affettività malata e idolatra, sono un mix esplosivo. E ne facciamo esperienza ogni giorno, dal momento che, ingannati dalla solita menzogna del demonio che ci insinua che Dio non ci ama, ci aspettiamo dall'altro che sia quello che abbiamo stabilito debba essere: un marito o una moglie, un figlio o una figlia, i genitori, i fidanzati, gli amici, tutti. E finiamo con il credere che il problema sia proprio negli altri che non ci amano, mentre è dentro di noi, nel nostro cuore. Siamo "ipocriti", viviamo una vita che non ci appartiene, che non c'entra nulla con la nostra vocazione. Come i farisei «giudichiamo» gli altri senza misericordia per non avere nei nostri riguardi le attitudini e i comportamenti che, ingannati, presumiamo di aver avuto con loro. E come i farisei che, accecati dal disprezzo, non hanno conosciuto la giustificazione di Dio, così anche noi sperimentiamo la «prigione» della gelosia e del rancore, dove siamo condannati a «pagare sino all’ultimo spicciolo» di noi stessi nel tentativo, inutile, di ricostruire le relazioni che abbiamo distrutto.
Ma Dio non ci ha abbandonato al nostro destino perché conosce il peccato di Adamo che ha ferito e sconvolto la natura; non si aspetta quello che non possiamo dare perché la superbia ci ha resi suoi «avversari» come qualunque altro uomo. Senza il suo perdono non possiamo fare nulla. Per questo ha «rivolto contro di sé» (Benedetto XVI) la condanna che ci spettava, inviando il suo Figlio sul nostro cammino per «accordarsi» con noi e «liberarci dal debito» che le nostre opere morte, come «esattori» esigenti, ci contestano. Ha pagato per noi l’ultimo spicciolo con l’ultima goccia del suo sangue. Per questo il «discernimento» sulla vita e le persone nasce dall’amore, sa cogliere la verità nella selva delle apparenze. Chi ha conosciuto se stesso scoprendosi identico a Giuda «avversario» del Signore, può accettare senza stupirsi che l’«avversario» si nasconda anche nella persona più cara. Così, come Gesù ha amato Giuda chiamandolo amico quando con un bacio lo tradiva, può riconoscere come favorevole per amare proprio «questo tempo» nel quale cammina accanto ai suoi nemici; «giudica da se stesso», dal profondo della propria debolezza amata gratuitamente, dai propri pensieri ormai rinnovati e non più schiavi del mondo e dei suoi criteri; e così sa discernere che è «giusto» «accordarsi» con chi tradisce le sue attese, perché erano solo esigenze dettate dalla concupiscenze di un'affettività malata. Anche noi possiamo allora «procurare» di "restituire" a chi ci è accanto quanto sino ad ora gli abbiamo sottratto. Possiamo offrirci a loro, senza sperare nulla; amarli lasciandoli liberi, nell'amore di Cristo che ha redento noi e loro. È questo il cammino che il Signore ha inaugurato per noi e sul quale ci chiama a seguirlo. L’unico ragionevole perché solo l’amore che raggiunge anche il nemico può ricreare i rapporti logorati dalla carne ammalata. La carità è pioggia anche quando soffia lo scirocco e sole anche quando salgono le nuvole da ponente, è il sovvertimento della natura malata, è il soprannaturale che prende dimora nel naturale, l'impossibile che si fa possibile. Solo chi ha sperimentato questo amore può leggere i cosiddetti segni dei tempi attraverso la sapienza della Croce. Per essa gli avversari sono la carne di Cristo che mendica il nostro amore, l'accoglienza che ci consegna la salvezza e il compimento della nostra vita. La Croce, infatti, quella di Cristo e quella nostra di ogni giorno, è la giustizia di Dio che supera quella ipocrita che ci ha gettato in prigione. A noi accoglierla mentre siamo per via su questa terra, per comparire nell'ultimo giorno davanti al Giudice assolti insieme ai nostri avversari.