venerdì 29 novembre 2013

Abraham Skorka: «Il mio amico Bergoglio»



Viene considerato una delle personalità più vicine a Papa Francesco. Ed è fra i pochissimi che possa permettersi di definire il Pontefice «mi querido amigo» («il mio caro amico»). Quando, nel 2009, gli editori di El Jesuita, la biografia-intervista pubblicata da Sergio Rubin e Francesca Ambrogetti con l’allora arcivescovo di Buenos Aires Jorge Mario Bergoglio, chiesero allo schivo cardinale argentino da chi volesse farsi scrivere la prefazione, egli rispose senza esitazione: «Il rabbino Skorka».
Il numero di novembre-dicembre 2013 della rivista Terrasantapubblica una lunga intervista di Manuela Borraccino proprio ad Abraham Skorka. Ne anticipiamo alcuni stralci ai nostri lettori.
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Rav Skorka, si aspettava che il suo amico Bergoglio fosse eletto Papa?Diciamo che, come si dice in Argentina, nutrivo la speranza che venisse eletto.
Lei ha affermato che Francesco sarà il miglior amico che il popolo ebraico abbia mai avuto in Vaticano. Cosa le fa dire questo? Penso innanzitutto all’atto di enorme coraggio spirituale che ha avuto quando gli editori del suo libro-intervista gli chiesero da chi volesse farsi scrivere la prefazione, e lui indicò proprio me. Fu un gesto fortissimo! Penso al programma televisivo fatto insieme, a tutte le conversazioni che abbiamo avuto e ai semi che abbiamo gettato. Penso a quando, un anno fa, ha voluto conferirmi un dottoratohonoris causa all’Università cattolica argentina, nel cinquantesimo anniversario dell’apertura del concilio Vaticano II: è stato un gesto carico di significato e di memoria, con un peso simbolico fortissimo. Sì, per tutto quello che ha fatto vedo in lui un fedele amico del popolo ebraico: perché ha dimostrato con i fatti e con grande coraggio spirituale verso un rappresentante del popolo ebraico il suo impegno verso tutti gli ebrei.
Per la prima volta un rabbino passa alcuni giorni a stretto contatto col Papa. Che impressione le fa vivere una situazione senza precedenti? La gioia più grande per me è vedere che la nostra amicizia parla in se stessa: da molti anni non si tratta più solo di dialogo interreligioso. Quando vengo a Roma faccio colazione, pranzo e ceno accanto a lui. E vedo con quanta confidenza ci rivolgiamo l’uno all’altro: non c’è altro che un grande rispetto reciproco, ed un affetto manifestato non solo con le parole, ma anche con i gesti. Ad esempio da quando sono arrivato il Papa ha dato disposizione che possa seguire in tutto le mie regole alimentari, assicurandosi con i suoi collaboratori che io abbia tutto il necessario, che sia verificato come viene cucinato il cibo, mi ha fatto procurare una bottiglia di vino kosher... curando tutti i dettagli con un’attenzione impressionante. Ed io capisco che la grande cura che ci mette, persino come Sommo Pontefice, è un modo per mostrare ai quattro venti, come diciamo in Argentina, «questo è un mio amico». Il fatto stesso che il venerdì sera e il sabato mi accompagni nelle mie orazioni di Shabbat, davanti a tutti i cardinali, vescovi e sacerdoti presenti, è espressione di grande vicinanza. Vuol dire avere fiducia nell’altro: questo è importantissimo. 
Come guarda al cammino di riavvicinamento avviato dal concilio Vaticano II?È chiaro che la Nostra Aetate ha fatto da spartiacque nella storia delle relazioni fra mondo ebraico e cristianesimo. Dopo il grande ruolo giocato da Giovanni XXIII, l’ispiratore della svolta, l’uomo che ha dato una forte spinta al cambiamento è stato Giovanni Paolo II. Benedetto XVI ha approfondito un po’ tutto questo, sebbene non nella misura spettacolare del suo predecessore e con dei gesti da parte di Ratzinger risultati ambigui per molti ebrei.
A cosa si riferisce esattamente? Penso ad esempio al discorso ad Auschwitz (28 maggio 2006 - ndr). Il Papa si definì «figlio di quel popolo sul quale un gruppo di criminali raggiunse il potere mediante promesse bugiarde […] e con la forza del terrore e dell’intimidazione, cosicché il nostro popolo poté essere usato ed abusato come strumento della loro smania di distruzione e di dominio». Ho l’impressione che il Papa abbia voluto in qualche modo concentrare la colpa su alcuni pochi che dominarono la mente di molti. E questo non mi convince. Non è così. Non penso si possa lanciare un messaggio del genere di fronte all’aberrazione del nazismo. Certo, ci sono persone che esercitano un carisma molto forte, e possono trascinare gli altri. Ma chi resta confuso è perché si lascia confondere: nell’offuscamento c’è un’attitudine totalmente passiva che non possiamo accettare o tentare di giustificare.
E da Papa Francesco Lei cosa si aspetta? Che si possa fare un passo avanti del dialogo, che non sia solo una questione di simpatia, di sintonia umana, ma che possiamo davvero impegnarci profondamente con fatti concreti nella costruzione di un mondo migliore, sentendoci veramente fratelli. E nella consapevolezza che le nostre due tradizioni, per quanto diverse, sono generate da un tronco comune.
Lei ha affermato più volte che deve esistere uno Stato palestinese accanto a quello ebraico. Come legge la fine del processo di pace? Non credo che sia finito: in realtà stiamo tornando ai negoziati. L’importante è che ci siano dei colloqui. Quello che spero è che Dio ci aiuti affinché ci sia pace in Israele, come chiediamo tutti i giorni nelle nostre preghiere. Siano benedetti dal Signore tutti quelli che si sforzano di arrivare alla pace dall’una e dall’altra parte! Però tutti quanti dobbiamo aiutare: tutti possiamo fare qualcosa, ciascuno di noi deve sentire questa responsabilità. Ci sono tanti capitoli da discutere, ci sono dei limiti, compromessi da accettare... Ma il sogno degli ebrei è di avere, dopo 2.000 anni, uno Stato in pace. Con la fondazione dello Stato di Israele nel 1948 abbiamo realizzato il 50 per cento del sogno: quello che ci manca adesso è l’altro 50 per cento, che Israele viva in pace. L’inno nazionale israeliano si intitola HaTikvah, la speranza. Ed io sono certo che, così come abbiamo realizzato il sogno di avere uno Stato, Dio ci aiuterà a realizzare la pace. Come dice il Salmo (29, vers. 11 ndr): «Il Signore darà forza al suo popolo; il Signore benedirà il suo popolo con la pace».
Pensa che il Papa si recherà in Terra Santa già l’anno prossimo? Io spero proprio di sì. Si lavora per questo e mi risulta che il presidente israeliano Shimon Peres si sia impegnato personalmente con il Papa per fare tutto il possibile nella ripresa dei negoziati con i palestinesi e nel garantire la massima collaborazione con le autorità palestinesi, perché il viaggio possa compiersi nel modo più proficuo possibile per tutti.
Terrasanta.net


Talmudista e biofisico 

Nato a Buenos Aires (Argentina) nel 1950, di formazione scientifica (ha un dottorato in chimica) e giuridica (ha insegnato diritto ebraico all’Università del Salvador) il rabbino Abraham Skorka è rettore del Collegio rabbinico latino-americano, dove insegna Letteratura biblica, e capo della comunità ebraica Benei Tikva. Nel 1990 conobbe l’arcivescovo di Buenos Aires Jorge Mario Bergoglio. I due iniziarono un confronto sul patrimonio sapienziale di ebraismo e cristianesimo, e sui grandi temi della vita umana: Dio e il Diavolo, la preghiera e la colpa, la famiglia e il divorzio, la politica e il potere, la bioetica, la fede, la povertà, la Shoah. Le conversazioni confluirono in un programma televisivo di una trentina di puntate e furono poi pubblicate nel saggioSobre el Cielo y la Tierra (2010), tradotto in italiano dopo l’elezione di Bergoglio al soglio pontificio con il titolo Il cielo e la terra (Rizzoli, 2013). Nell’ottobre 2012, a cinquant’anni dall’inizio del concilio Vaticano II, Skorka è stato insignito di un dottorato honoris causaall’Università cattolica argentina: era la prima volta in America Latina che il titolo veniva conferito a un rabbino.

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Il rabbino che andrà col papa in Israele   
Settimo Cielo - L'Espresso
 
(Sandro Magister) Stando a fonti israeliane riportate dalla CNN, papa Francesco sarà in Terra Santa il 25 e 26 maggio prossimi. Il viaggio papale era stato recentemente confermato per il 2014 – senza però una data definitiva – dal patriarca di Gerusalemme dei Latini, (...)

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«Tuttavia molti in Israele si fecero forza e animo a vicenda per non mangiare cibi immondi e preferirono morire pur di non contaminarsi con quei cibi e non disonorare la santa alleanza; così appunto morirono».
(Maccabei 1,62-64)
di Matteo Donandoni
No al pensiero unico. Mai così chiaro Papa Francesco, perché c’è un’insidia che striscia sulla Terra ed è lo spirito del mondo che più volte ha denunciato. Però è bene procedere per gradi, perché da quella sorta di “Radio Santa Marta” che sono diventate le meditazioni del mattino, il 18 novembre il Pontefice ha messo in chiaro alcuni punti che il mondo aveva travisato con un’omelia che i giornali mondani si sono guardati bene dal riportare. Ma prima la volpe, poi l’uva.
DUNQUE, PRIMA DI TUTTO PANE AL PANE: LA COSCIENZA NON E’ UN’OPINIONE
Giusto per puntualizzare il fatto che, ingenui, siamo stati tratti in inganno da inattendibili virgolettati di quel vecchio volpone di Eugenio Scalfari, e dato che già qualcuno mi ha rimbrottato: «meno male che c’è questo papa progressista che chiude lo Ior! (?)» e’ bene precisare la questione del Bene relativo.
Infatti, secondo i meglio informati, in seguito all’ormai nota intervista volterriana di Scalfari pubblicata, oltre che su LaRepubblica, sull’Osservatore Romano, pare che Bergoglio abbia fatto partire una furibonda telefonata alla redazione di quest’ultimo, a seguito della quale la suddetta è stata rimossa dai siti internet vaticani. Perché? Perché lo scaltro giornalista aveva virgolettato non le parole testuali del Papa, come dovrebbe fare un buon giornalista, ma ciò che, diciamo così, aveva creduto di capire, mettendo in bocca al successore di Pietro: «Ciascuno di noi ha una sua visione del Bene e anche del Male. Noi dobbiamo incitarlo a procedere verso quello che lui pensa sia il Bene». Concetto ribadito in una delle omelie laiche dello stesso Scalfari: «Francesco ha teorizzato in varie occasioni la libertà di coscienza dei cristiani come di tutti gli altri uomini e la loro libera scelta tra quello che ciascuno di loro ritiene sia il Bene e quello che ritiene sia il Male. E portando avanti il Vaticano II (Francesco) ha deciso di dialogare con la cultura moderna».
Uguale: capito niente. La domanda originariamente posta da Scalfari infatti era: «se una persona non ha fede né la cerca, ma commette quello che per la Chiesa è un peccato, sarà perdonato dal Dio cristiano?». La risposta ovviamente è “NO”. Dunque Scalfari ha usato il Papa per tirare acqua al proprio mulino? Fatico veramente a comprendere dove finisce l’ignoranza (eppure è stato educato dai Gesuiti!) e dove comincia la malizia. Perché il CVII, tanto citato e poco conosciuto, professa: «non possono salvarsi quegli uomini, i quali, pur non ignorando che la Chiesa cattolica è stata fondata da Dio per mezzo di Gesù Cristo come necessaria, non vorranno entrare in essa o in essa perseverare» (Lumen Gentium, n. 14). I padri conciliari si rifanno alla lettera di San Paolo ai Romani, che li definisce così: «essi sono dunque inescusabili, perché, pur conoscendo Dio, non gli hanno dato gloria né gli hanno reso grazie come a Dio, ma hanno vaneggiato nei loro ragionamenti e così non hanno capito più nulla» (Rm,1,21) per concludere in questo modo: «Dio li ha abbandonati in balìa d’una intelligenza depravata, sicché commettono ciò che è indegno […] pur conoscendo il giudizio di Dio, che cioè gli autori di tali cose meritano la morte, non solo continuano a farle, ma anche approvano chi le fa» (Rm, 1, 28-33).
Come ha ben evidenziato Antonio Socci, il fondatore di Repubblica confonde la coscienza con l’opinione, «ma quando il Papa parla di “coscienza” intende tutt’altra cosa, ovvero “la legge scritta da Dio nell’intimo” dell’uomo, perfettamente in linea con la dottrina cattolica». Il principio oltretutto è un principio razionale e laico, se infatti la coscienza è opinione ed il bene non è oggettivo, come sarebbe possibile distinguerlo dal male, come sarebbe possibile, ad esempio, la condanna del nazionalsocialismo e di tutte le ideologie del male?
E POI, VINO AL VINO: NON ACCETTATE ORDINI DAL SECOLO
E qui, per la verità, mi sento chiamato in causa anche io, che appoggerei subito quel giovane re che «arrivò sino ai confini della terra e raccolse le spoglie di molti popoli. La terra si ridusse al silenzio davanti a lui» (Maccabei 1,3), ovvero un nuovo Alessandro che ellenizzasse il mondo. Tutti dobbiamo farci un esame di coscienza, perché le parole del Papa sono forti. Mi consola il fatto che Israeliti, Spartani e Romani siano fratelli (Maccabei 12 e 14,16), che poi è il piano d’appoggio dell’Occidente.
C’è, infatti, un’insidia strisciante nel mondo, quella della “globalizzazione dell’uniformità egemonica” caratterizzata dal “pensiero unico”, attraverso la quale, in nome di un progressismo che poi si rivela adolescenziale, non si esita a rinnegare le proprie tradizioni e la propria identità.
Il Pontefice ha avviato la sua audace riflessione commentando in modo formidabile la lettura tratta dal Primo libro dei Maccabei «una delle pagine più tristi nella bibbia», dove si parla di «una buona parte del popolo di Dio che preferisce allontanarsi dal Signore davanti a una proposta di mondanità»: «In quei giorni sorsero da Israele figli empi che persuasero molti dicendo: “Andiamo e facciamo lega con le nazioni che ci stanno attorno, perché da quando ci siamo separati da loro, ci sono capitati molti mali”. Parve ottimo ai loro occhi questo ragionamento; alcuni del popolo presero l’iniziativa e andarono dal re, che diede loro facoltà di introdurre le istituzioni dei pagani» (Maccabei I, 11-13). Si tratta, ha notato il Papa, del un tipico atteggiamento di quella «mondanità spirituale che Gesù non voleva per noi. Tanto che aveva pregato il Padre affinché ci salvasse dallo spirito del mondo» e che invece sembra aver preso il sopravvento. Come definiremmo oggi i sette fratelli Maccabei (II Maccabei, 7,1-3), che si fecero torturare ed uccidere, pur di non violare il precetto di non mangiare carni impure? Un precetto semplice e fatto di una gravità irrisoria a confronto dei 10 Comandamenti che ogni giorno i popoli cristiani oltraggiano a colpi di legge. Se fossero qui oggi, li definiremmo dei pazzi esaltati, dei fanatici, dei talebani cattolici?
Per Bergoglio questa mondanità nasce dalla stessa radice perversa, «da uomini scellerati capaci di una persuasione intelligente», che dissero: «Andiamo e facciamo alleanza con i popoli che ci stanno intorno. Non possiamo essere isolati», né fermi alle vecchie nostre tradizioni. Essi non si posero il problema se fosse giusto assumere questo atteggiamento progressista, inteso come un andare avanti a ogni costo. Si sente dire: «Non ci chiudiamo. Siamo progressisti». E’ ciò che accade oggi, ha notato il vescovo di Roma nella sua omelia maccabea, con l’affermarsi di quello che ha definito “lo spirito del progressismo adolescente” secondo il quale, davanti a qualsiasi scelta, si pensa che sia giusto andare comunque avanti piuttosto che restare fedeli alle proprie tradizioni: «Questa gente ha trattato con il re, ha negoziato. Ma non ha negoziato abitudini… ha negoziato la fedeltà al Dio sempre fedele. E questo si chiama apostasia. I profeti, in riferimento alla fedeltà, la chiamano adulterio, un popolo adultero. Gesù lo dice: “generazione adultera e malvagia” che negozia una cosa essenziale al proprio essere, la fedeltà al Signore». Come se la tradizione cattolica fosse un valore nominale e non reale, e la Parola di Dio oggetto di mercato: si cita Cristo come pretesto per parlare d’altro, si prende la Parola di Dio a piacimento, si spizzica. Si guarda alle nostre radici con occhio archeologico, ma nemmeno troppo affascinato, come anticaglia del passato, roba buona per quelle nonne ignoranti, che le donne emancipate liquidano con un sorrisetto accondiscendente. Ignorando invece, la santa ignoranza di quelle stesse nonne dalle menti chiare e le ginocchia di marmo, che hanno salvato il mondo col rosario in mano. «Ma di tutto questo poi si pagano le conseguenze» ha ammonito Francesco. Perché negoziare la propria fedeltà a Dio è come negoziare la propria identità.
Non è la prima volta che il Papa mette in guardia contro lo spirito del mondo: aveva già detto che i cristiani non devono usare «un linguaggio socialmente educato», incline all’ipocrisia, ma farsi portavoce della «verità del Vangelo con la stessa trasparenza dei bambini». Il vostro parlare sia sì sì, no no. Perché «La salvezza è questo: vivere nella consolazione dello Spirito Santo, non vivere nella consolazione dello spirito del mondo […]non si può negoziare un po’ di qua e un po’ di là? Fare un po’ una macedonia». La macedonia è apostasia. A questo proposito il Pontefice ha ricordato il libro Il padrone del mondo di Robert Hugh Benson, figlio dell’arcivescovo di Canterbury, Edward White Benson, nel quale l’autore parla dello spirito del mondo e «quasi come fosse una profezia, immagina cosa accadrà. Quest’uomo, si chiamava Benson, si convertì poi al cattolicesimo e ha fatto tanto bene. Ha visto proprio quello spirito della mondanità che ci porta all’apostasia». Farà bene anche a noi – ha suggerito il Papa – pensare a quanto raccontato dal libro dei Maccabei, se decidiamo di seguire quel “progressismo adolescenziale” e fare quello che fanno tutti. E ci farà bene anche pensare a quanto è accaduto dopo, alla storia successiva alle «condanne a morte, ai sacrifici umani» che ne sono seguiti. E chiedendo «voi pensate che oggi non si fanno sacrifici umani?», il Papa ha risposto: «Se ne fanno tanti, tanti. E ci sono delle leggi che li proteggono». Ovvio il riferimento ai pacifici negoziatori su tutto, sempre e comunque, la cui opera è «frutto del demonio», che si sono specializzati con dolci giri di parole a svendere la fedeltà alla Verità sull’aborto (e la RU486), sull’eutanasia, sul matrimonio (e i PACS, i DICO… il gay marriage). Insomma ci vuole un po’ più maccabei e meno corrotti.
Quello che ci deve consolare, ha però concluso il Pontefice, è che «davanti al cammino segnato dallo spirito del mondo, dal principe di questo mondo», un cammino di infedeltà, «sempre rimane il Signore che non può rinnegare se stesso, il fedele. Lui sempre ci aspetta; lui ci ama tanto» ed è pronto a perdonarci, anche se facciamo qualche piccolo passo su questo cammino, e a prenderci per mano così come ha fatto con il suo popolo diletto per portarlo fuori dal deserto.