mercoledì 27 novembre 2013

Dal Dio dei morti al Dio dei viventi.



 Il nichilismo quasi infantile di molte élites postmoderne

Il Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede ha tenuto il 25 novembre una lectio magistralis alla Facoltà Teologica di Napoli, sul tema «Dal Dio dei morti al Dio dei viventi». Ne pubblichiamo uno stralcio.
Quel cocciuto di Goethe
() «La vita è troppo breve perché si beva vino cattivo», amava dire Johann Wolfgang von Goethe. Curioso adagio, in cui si rispecchia la concezione del mondo epicurea e il nichilismo quasi infantile per la sua cocciutaggine, proprio di molte attuali élites postmoderne.Rispetto a tale posizione, la visione cristiana del mondo e dell’uomo risuona come un bel canto alla vita e all’ottimismo. Quell’ottimismo che san Paolo esprime con entusiasmo nella Lettera ai Romani: «Siate lieti nella speranza, forti nella tribolazione, perseveranti nella preghiera, solleciti per le necessità dei fratelli, premurosi nell’ospitalità» (12, 12-13).
È un fatto che la vita dell’uomo sulla terra sia breve, e quanto più passano i suoi giorni, tanto più ciascuno percepisce la brevitas vitae come una sfida esistenziale. Proprio questo è però il punto: il tempo è la risorsa che ci è data per destarci dal sonno dell’ideologia dell’autorealizzazione o, detto altrimenti, dalla pretesa che l’uomo possa costruirsi poggiando unicamente sulle sue forze. Potremmo perciò ribattere: «La vita è troppo breve perché ci si logori con una cattiva filosofia». La Costituzione Gaudium et spes del concilio Vaticano II afferma a tal proposito: «Di fronte all’evoluzione attuale del mondo, diventano sempre più numerosi quelli che si pongono o sentono con nuova acutezza gli interrogativi più fondamentali: cos’è l’uomo? Qual è il significato del dolore, del male, della morte, che continuano a sussistere malgrado ogni progresso? Cosa valgono quelle conquiste pagate a così caro prezzo? Che apporta l’uomo alla società, e cosa può attendersi da essa? Cosa ci sarà dopo questa vita?» (10).
L’ateismo afferma che Dio non esiste. E fin qui, nessuna novità. Basti ricordare il salmo davidico che da tremila anni proclama: «Lo stolto pensa: “Non c’è Dio”». Le statistiche più recenti attestano un aumento vertiginoso di “convertiti” all’ateismo. Perché sempre più persone si dichiarano atee? Davvero l’ateismo è l’atteggiamento più logico, come gli atei affermano? Perché libri del tipo Il gene egoista o L’illusione di Dio di Richard Dawkins o Dio non è grande di Christopher Hitchens figurano nelle liste dei bestseller?
Benedetto XVI, nella sua lettera al matematico ateo Piergiorgio Odifreddi, ha affermato che la teoria «mimetica» di Richard Dawkins è semplicemente una proposta fantascientifica, degna di una «scienza fiction». Nelle sue opere, Dawkins sostiene infatti che, proprio come i geni nella procreazione trasmettono l’informazione biologica, così le “copie”, i “mimi”, trasmettono per imitazione l’informazione culturale. Le idee e le opinioni passerebbero dunque da mente a mente come “copie”, come “mimi” invisibili. Ma non basta: Dawkins utilizza simile teoria per criticare la religione, dal momento che, a suo giudizio, le credenze religiose altro non sarebbero che “virus” che infettano l’uomo malato.
Michael Blume, famoso biologo evolutivo e teologo, ha di recente confermato, dal canto suo, che «l’affermazione di Benedetto XVI è assolutamente pertinente»: né le “copie”, i “mimi”, hanno potuto essere definite, nonostante i numerosi tentativi intrapresi al riguardo, né risulta possibile sostenere che alcun tipo di studio serio li abbia verificati dal punto di vista scientifico empirico. Per contro, mentre tutti i “mimetici” hanno ormai abbandonato già dal 2010 simile teoria, a tutt’oggi solo Richard Dawkins non si è ancora pronunciato circa il suo fallimento scientifico.
Come spiegare questo fatto? Occorre non dimenticare che la giustificazione offerta dall’ateismo moderno circa il processo di scristianizzazione della civiltà europea e nordamericana, cominciato nel XVII secolo, e la sua conseguente proposta di uno stile di vita edonistico improntato all’utile e al profitto, pretende di realizzarsi attraverso forme che di scientifico hanno solo il rivestimento esteriore.
Il cosiddetto “neo-ateismo” non offre, a dire il vero, nessun tipo di nuove fondazioni, che già non sia possibile ritrovare chiaramente formulate in David Hume e in tutti coloro che da allora in poi sono appartenuti e appartengono alla schiera degli empiristi e dei materialisti. Semplicemente ci si sforza, nell’orizzonte della teoria evoluzionistica e della neurofisiologia, di estendere l’approccio tipico delle scienze naturali, così che astrofisica, biologia e ricerche sul cervello determinino una visione del mondo scientifica e, come si pretende, oggettiva, senza rendersi conto che di questo passo all’uomo non sarà più concesso essere “persona”, vale a dire soggetto responsabile dei suoi atti e in grado di intrattenere un rapporto personale con Dio. Simile visione pseudo-scientifica del mondo propagandata dal neo-ateismo viene ai nostri giorni esaltata come programma di opinione da imporre all’intera umanità. Portata all’estremo, una tale teoria propugna che, se qualcuno crede all’esistenza di un Dio personale, a costui non debba essere concesso diritto d’esistenza né nel mondo della cultura, avendo nell’eventualità contratto un “virus divino” e necessitando perciò di essere posto in quarantena, e neppure di cittadinanza nello stesso mondo naturale degli uomini, per il fatto di essere giudicato come un parassita sociale.
Il carattere intollerante e disumano del neo-ateismo emerge oltremodo evidente se consideriamo l’ateismo politico così come è stato storicamente pianificato dal nazionalsocialismo in Germania o il programma stalinista di estinzione della Chiesa, così come venne realizzato nell’ex Unione Sovietica. Il cosiddetto “ateismo scientifico” intende cioè sempre imporsi, di fatto, come visione globale del mondo e, per sue caratteristiche intrinseche, come programma politico-totalitario di assoluta disumanità.
All’inizio dell’epoca moderna si colloca l’opposizione tra empirismo e razionalismo e con ciò il tentativo di risolvere il dualismo in favore di uno dei due modi d’accesso alla realtà. Può il pensiero appropriarsi del mondo materiale? Oppure, proprio all’inverso, la ragione è una semplice funzione del processo evolutivo? L’uomo, come soggetto pensante, è solo parte di un momento di differenziazione della materia, sottoposto alla legge della selezione naturale come qualsiasi altro prodotto, privo di sostanza, parte di una totalità integrale che tutto ricomprende?
Robert Spaemann ha ben sintetizzato il concetto di “modernità” nelle sue ripercussioni negative sull’uomo come persona, quale essere dotato di capacità morali e intellettuali proprie: «La visione scientifica del mondo sottrae l’“io” e il “tu” dalla vita breve dell’individuo, dalla sua complessità e dal suo significato, dall’essere la rappresentazione unica dell’incondizionato, a vantaggio di uno sviluppo collettivo, che vale in se stesso come unico portatore veritiero di senso» (Gesammelte Reden und Aufsätze I, 14). L’approccio tipico della modernità ha la sua radice nell’empirismo di David Hume, secondo il quale «non possiamo mai andare oltre noi stessi» (cfr. Gesammelte Reden und Aufsätze II, 9). Occorre sottolineare che simile visione riduzionista non tiene conto della evidente capacità dell’intelletto di andare “più in là” rispetto a ciò che immediatamente appare.
Le scoperte della recente ricerca di tipo evoluzionistico e della neurobiologia si occupano poco della struttura essenziale dell’uomo come essere dotato di natura corporeo/spirituale e di inclinazione verso la conoscenza della verità e del bene e dunque verso la piena realizzazione personale. Tali ricerche si limitano a considerare le condizioni materiali della ragione e degli atti di volontà dell’uomo, dal punto di vista di una interpretazione pseudo-scientifica che viene a sovrapporsi a una filosofia improntata al materialismo monistico. Data la sua tendenza a convertirsi in un monismo di tipo idealista, il vero progetto della modernità, con il suo innegabile valore umanizzante, potrà raggiungere il suo scopo solo nel momento in cui supera il presupposto dell’empirismo e dei suoi derivati del materialismo, del positivismo e del razionalismo.
Se vogliamo definire l’uomo nella sua pienezza, non possiamo limitarci a considerarlo come il mero oggetto di ricerche condotte sulla natura, la storia, la cultura e la morale, in quanto egli rimane sempre colui che è in grado di condurre una conoscenza riflessa su di sé. L’uomo, come essere collocato nello spazio e nel tempo, non può rinunciare alla mediazione sensibile del contesto materiale e sociologico, che sostiene le condizioni materiali della sua esistenza. Tuttavia, per garantire sia il progetto della libertà dell’individuo nei confronti della collettività, sia la coscienza personale rispetto alla legge meramente positiva, sia la dignità inalienabile di ogni essere umano rispetto alla strumentalizzazione d’interessi di gruppo (classe, popolo, capitale, e così via), sono indispensabili una metafisica del reale e un’antropologia della trascendenza dell’uomo, che lo pongano in rapporto con la sorgente della creazione.
Una metafisica dell’essere e della conoscenza di Dio, nello specifico senso elaborato dalla teologia filosofica, non è d’interesse meramente storico, ma la condizione di possibilità perché il progetto della modernità non naufraghi nella sterile dialettica dell’illuminismo. Non per niente il dialogo con la ragione umana è stato più importante del dialogo con le religioni, all’inizio del cristianesimo come ai giorni nostri: solo così infatti viene guadagnato un accesso integrale alla realtà e, di conseguenza, la possibilità di elaborare una effettiva teologia naturale.
Non si tratta di tornare a una forma passata di metafisica di fronte alla proposta che le scienze naturali e la riflessione filosofica scaturita dalla modernità offrono della realtà mondana, né per mostrare la ragionevolezza del nostro approccio, né tanto meno per giustificare i contenuti della Rivelazione soprannaturale di Dio in Gesù Cristo. Si tratta di partire dall’esperienza del mondo reale, nell’intento di giungere a un’auto-comprensione riflessa, che l’essere “spirito” rende all’uomo possibile, e a una conoscenza di Dio, non com’è in se stesso, ma in quanto il mondo si pone in relazione con Lui, quale origine e termine di tutto l’essere finito, incluso l’uomo. L’uomo riconosce se stesso come persona solo alla luce di tale orientazione trascendente. Quando ricerca la verità e tende al bene, allora è in Dio che l’uomo incontra la pace.
L'Osservatore Romano