mercoledì 27 novembre 2013

Educazione alla condivisione e al dialogo per avvicinare le culture




Intervento della Santa Sede alla Conferenza generale dell’Unesco.


Pubblichiamo in una nostra traduzione l’intervento pronunciato il 9 novembre da monsignor Francesco Follo, Osservatore Permanente della Santa Sede presso l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza e la Cultura (Unesco), alla trentasettesima sessione della Conferenza generale dell’Unesco, svoltasi dal 5 al 20 novembre a Parigi. 
Signor Presidente della Conferenza Generale,
Signora Direttore Generale,
Eccellenze,
Per la Santa Sede è un onore e un piacere congratularsi con il Signor Hao Ping, Vice-Ministro dell’Educazione della Repubblica Popolare Cinese, per la sua elezione alla Presidenza di questa stimabile Assemblea, e con la Signora Irina Bokova per il suo secondo mandato come Direttore Generale dell’Unesco. Naturalmente, queste congratulazioni sono formulate a nome di Sua Santità Papa Francesco, che conosce bene e apprezza il lavoro della “nostra” Organizzazione.
La Conferenza Generale dell’Unesco rifletterà anche sulla “cultura del riavvicinamento”, come hanno dichiarato Papa Francesco e il signor Ban Ki-moon in occasione del loro incontro il 9 aprile 2013. Perciò la Santa Sede desidera dare il proprio contributo per parlare da un lato di ciò che abbiamo tutti in comune oggi, e dall’altro di ciò che noi siamo realmente, della nostra specificità insuperabile.
Questo contributo propone alcune riflessioni che s’inscrivono nel quadro degli obiettivi principali dell’Unesco:
1) l’educazione e il suo apporto allo sviluppo sostenibile, includendo lo sviluppo delle culture e il dialogo interculturale che le riavvicina;
2) l’attenzione ai giovani e al contributo che essi possono dare alla nostra organizzazione per il XXI secolo;
3) il dialogo come comunicazione, all’interno di una comunità;
4) la pace e la dimensione sociale delle religioni.
Una costatazione s’impone: i nostri Stati sono abitati, oggi come sempre, contemporaneamente da diverse generazioni. L’esistenza di una città (nel senso greco della polis= Stato) presuppone che essa conti tra i suoi abitanti bambini, giovani, persone di età matura, anziani, e anche moribondi. A questa constatazione descrittiva sulla coesistenza delle persone all’interno della città si aggiunge una constatazione normativa: tutti sono legati da doveri reciproci. Possiamo dire che il primo dovere che lega l’essere umano al suo prossimo è volere il bene comune. Questa è una verità fondamentale. È a partire da essa che si possono fare osservazioni più concrete con conseguenze sul programma a medio termine dell’Unesco (37 C/4).
Educazione alla condivisione
L’educazione alla condivisione è arricchirsi e favorire così uno sviluppo sostenibile, il che è essenziale per gli Obiettivi di Sviluppo post 2015, nel quadro della strategia a medio termine (37 C/4).
La prima osservazione, quindi, è che i doveri più grandi, nelle nostre città, corrispondono necessariamente alle persone più dotate, “ricche” di cultura e di sapere, e non solo di denaro. Intendo “ricco” in senso unicamente sociale e culturale. In questi termini il ricco, il privilegiato, la persona colta, è prima di tutto colui che sa, colui che ha imparato a discernere il bene comune. È colui che ha ricevuto un patrimonio culturale: sa vivere nella sua città, ne conosce la storia, sa discernere i contributi positivi della storia e gli incidenti che bisogna evitare. E se si riconosce ricco in questo modo, si capirà che voglia condividere le sue ricchezze. Quindi si può supporre che le nostre ricchezze culturali, per molti versi, siano un fattore di felicità. E si può presumere che abbiamo un certo desiderio di non tenere la nostra felicità tutta per noi.
Il “ricco” quindi non è colui che possiede. È colui che trasmette e che condivide. Siamo invitati alla condivisione. «Non ci saranno armonia e felicità per una società che ignora, che mette ai margini e che abbandona nella periferia una parte di se stessa... Solo quando si è capaci di condividere ci si arricchisce veramente» (Papa Francesco, 25 luglio 2013). La condivisione materiale e “immateriale”, spirituale, non implica un impoverimento: è un arricchimento reciproco. E poiché la maggior parte di noi qui presenti è certamente nella condizione di colui che viene riconosciuto come persona ben educata, abbiamo quindi un compito da assolvere, che non è di secondaria importanza. Se ci rifiutassimo di trasmettere ciò che, tra l’altro, ci è stato donato da quanti sono stati ricchi prima di noi — i nostri genitori, i nostri maestri e professori, e altri ancora — verremmo drammaticamente meno alla nostra missione. La cultura, l’arte di vivere insieme, l’amore per il bene comune, anche l’amore per la saggezza, tutto ciò morirebbe se lo tenessimo per noi. In risposta al bel tema scelto dall’Unesco per il forum delle Ong del settembre 2013, la Santa Sede sottolinea che la trasmissione e la condivisione sono obiettivi nel campo dell’educazione, volti a formare i cittadini del mondo di domani, secondo gli orientamenti del 37/C4 e C5.
Valorizzare il contributo dei giovani
La seconda osservazione è che noi siamo fortunatamente costretti a trasmettere e a condividere le nostre ricchezze culturali con i giovani. Un “foro” è il luogo dove tutti si incontrano e discutono di cose importanti e dove tutti hanno il diritto di partecipare al dibattito. Ogni voce umana è una voce che deve essere ascoltata. I giovani e gli anziani costruiscono il futuro dei popoli. I giovani perché portano avanti la storia, gli anziani perché trasmettono l’esperienza e la saggezza della loro vita. Ma la voce dei più giovani ci ricorderà sempre ciò che dobbiamo dare loro e, cosa altrettanto importante, ciò che essi possono dare a noi.
La speranza di vita del giovane è maggiore di quella dell’anziano. Quanti oggi sono giovani domani avranno la nostra età. Spetterà a loro la responsabilità della città. Fin da ora sono una risorsa per il bene comune: l’impegno sociale e culturale dei giovani è un fenomeno rilevante, tanto importante quanto il loro triste coinvolgimento, forzato, in tutte le guerre che devastano il pianeta. La voce delle giovani generazioni equivale a un richiamo all’ordine o a un appello alla responsabilità. Ingenuamente alcuni accusano spesso i giovani di essere “idealisti”. Bisogna piuttosto rallegrarsene. Siamo tutti d’accordo sul fatto che lo Stato deve garantire “la più grande pace nella più grande giustizia”, ed è questo l’ideale che essi ci rammentano. L’ideale deve avere solo lo status inoffensivo dell’irreale? Le nostre città sono imperfette. Troppo spesso ci accontentiamo di esse. Il desiderio giovanile del migliore dei mondi non resiste, evidentemente, alla critica. Non possiamo, in ogni caso, accontentarci di mezze-giustizie e di una mezza-pace. I nostri figli o nipoti non hanno voglia di accontentarsi. Ascoltarli ci permetterà di dare loro ancora più generosamente tutto ciò che possiamo, rendendoli capaci di far fruttificare un’eredità e, un giorno, di dare da se stessi ancora di più. Le loro aspettative, le loro energie e la loro intelligenza sono un fermento per una cultura nuova di pace e di sviluppo autentico. Una vera cultura universale nel senso etimologico del termine: l’uno che va verso l’altro (unus versus alio vel aliis). I giovani sono capaci di vivere nell’amore e di essere solidali con tutti i loro fratelli in umanità, senza fare discriminazioni.
È questo il motivo per cui la Santa Sede sostiene i programmi dell’Unesco per i giovani. Essa appoggia fortemente il tema del foro dei giovani di questa 37ª conferenza generale I giovani e l’inclusione sociale: impegno civico, dialogo e sviluppo delle competenze, e le tematiche contenute nella strategia a medio termine del 37 C/4.
Il dialogo come comunicazione all’interno di una comunità
La terza osservazione deriva dalla seconda. Noi ci incontriamo tutti nel foro della città. Ma si tratta qui di un dato di fatto o di una speranza? I greci e i romani, e tanti altri, avevano il loro foro; un africano ci ricorderà qui la funzione dell’albero della palabra. Ma noi abbiamo davvero un nostro foro? I greci e i romani parlavano tra loro. Noi parliamo molto di “comunicazione”, ci sforziamo di risolvere i problemi di comunicazione, e ciò dimostra, naturalmente, che la comunicazione è in pericolo. È facile chiacchierare ma non è facile parlare. A dire il vero, non è neppure facile vivere insieme in una società, anche se questa vuole fondarsi sui valori più alti che conosce. Pertanto poco importano le difficoltà, delle quali basta prendere realisticamente le misure. Noi siamo detentori della parola, detentori della ragione e fatti per l’esistenza “politica”, ossia l’esistenza all’interno di una città. E poiché così è, spetta a noi perpetuare, ma talvolta anche creare, le condizioni necessarie perché tutti parlino con tutti. Una città contemporanea può essere poliglotta. D’altronde è meglio parlare diverse lingue che una sola. Dobbiamo in ogni caso avere una lingua in comune, comune a tutti, e servircene in modo intelligente. Capisco il mio prossimo se capisco e parlo la sua lingua. Il che, naturalmente, non va da sé. Ma chiacchiereremmo meno su di una certa mancanza di comunicazione tra generazioni se giovani e anziani s’interessassero più a cosa vogliono dire piuttosto che al come dei loro stili o delle loro piccole differenze linguistiche. A tale riguardo, la Santa Sede sostiene ancora una volta gli obiettivi della strategia a medio termine dell’Unesco, descritti nel 37 C/4, soprattutto quelli dello sviluppo sociale inclusivo — e della sua articolazione con il dialogo interculturale — e del riavvicinamento delle culture. Sarebbe però auspicabile che i legami con il dialogo interculturale e il riavvicinamento delle culture fossero compresi anche nel loro rapporto linguistico e culturale.
Chi dice comunicazione deve aggiungere “comunità”. Di fatto, se possiamo comunicare è perché abbiamo in comune un’uguaglianza metafisica e perché apparteniamo alla comunità umana. Tuttavia, non basta stabilire un’uguaglianza metafisica. Ciò che abbiamo in comune, in effetti, deve essere “vissuto in comune”. No man is an island, nessun uomo è un’isola. Il poeta John Donne diceva così a modo suo ciò che la tradizione filosofica ci dice anch’essa a modo suo; si tratta qui di una sorta di fatto grezzo, o di un dato sul quale sarebbe assurdo voler ritornare. In ogni caso, una cosa va detta con insistenza: noi non siamo condannati a esistere all’interno di comunità, ma fatti per vivere umanamente insieme, e per creare sempre un po’ le condizioni che renderanno questo “essere uomini insieme” il più felice possibile. Jean-Paul Sartre diceva che “l’inferno sono gli altri”. Una città umana degna di tale nome non sarà mai un paradiso. Ma poiché l’altro, qualunque sia il suo volto, è allo stesso tempo un altro me stesso, un prossimo e un amico potenziale, quanti verranno dopo di noi dovranno sapere che noi abbiamo assolto tutti i nostri doveri; dovranno dunque avere la generosità di perdonarci e potranno allora accettare una missione: fare delle loro città luoghi in cui regni una certa gioia di esistere insieme come persone umane. L’inclusione sociale dei giovani, l’eliminazione della povertà, lo sviluppo sostenibile, portano alla felicità di tutta la città, quindi all’edificazione della pace. La Santa Sede sostiene a tale riguardo gli sforzi degli Stati e del Segretariato dell’Unesco che vanno in questo senso.
Oggi possiamo dunque parlare al plurale e parlare di “noi”, di noi tutti con le nostre ricchezze da dare, di noi tutti con le nostre povertà e anche le nostre richieste. Questo “noi” non è un aggregato o un insieme eteroclito. Forma ciò che chiamiamo, spesso senza pensarci troppo, un “corpo sociale”. Un corpo è una forma vivente, forte di un passato e che avrà un futuro. Questo passato, come lo riceviamo oggi, come dobbiamo farlo vivere e come sarà ulteriormente dato a persone più giovani di noi, non è mai lettera morta: poiché ha un presente e un futuro, bisogna dire che viviamo sotto la custodia di una “tradizione vivente”. La tradizione che ci permette di abitare le nostre città in pace non è qualcosa che esiste al di fuori di noi. La manteniamo in vita trasmettendola, non trattenendola per una sola generazione o un breve periodo, e sapendo, dopo tutto, che a ciascun giorno basta la sua pena.
Pace e dimensione sociale e politica delle religioni
Siamo giunti all’ultimo punto: le realtà che ci preoccupano — l’educazione, la vita della città, la pace, e altre ancora — possono recare frutti solo se le nostre preoccupazioni sono propriamente spirituali. Dire ciò significa credere che tutto quel che riguarda la nostra esistenza s’iscrive nel movimento più profondo e più ampio di una vita alla ricerca di un significato e tesa verso il suo sviluppo e il suo compimento. Quando parliamo delle nostre condizioni di vita, finiamo sempre — ed è un bene — con l’interessarci al movimento profondo su cui poggia la nostra esperienza, ossia alla nostra vita spirituale. Una vita spirituale che non è un privilegio o una scelta di alcuni, ma un’esperienza offerta a tutti. La sfera spirituale dopo tutto ha la sua dimensione sociale. Come si potrebbe onorare e promuovere il bene comune, nel quadro tecnico delle nostre culture, se queste si privassero dell’insostituibile contributo delle tradizioni religiose. «Le religioni hanno una funzione comune e insostituibile nel quadro “tecnico” delle culture contemporanee, perché il bene comune terreno sia completo ed equilibrato» (Cardinale Jean Daniélou, L’oraison problème politique, p. 38).
Nel solco del magistero pontificio, ma anche ascoltando filosofi come Habermas, con il quale il cardinale Ratzinger ha dialogato il 19 gennaio 2004, possiamo altresì tenere conto del ruolo pubblico che il cristianesimo (come anche le altre religioni) può svolgere per la promozione dell’essere umano e per il bene comune di tutta l’umanità, nel pieno rispetto e nella promozione della libertà religiosa e civile di tutti e di ciascuno, senza confondere in alcun modo la Chiesa cattolica — come qualsiasi altra religione — con la comunità politica.
Per concludere, una simile capacità di plasmare il futuro di società pacifiche aumenta laddove è consentita un’esperienza della trascendenza. Quando gli uomini capiscono che il mondo è molto più della terra che essi lavorano con i loro concetti tecnici ed economici, allora i loro orizzonti ristretti si allargano. Dovremmo renderci conto che il vero realismo può emergere solo quando l’uomo è preparato a vedersi a partire dal futuro, un futuro che lo trascende.
Ispirata da questo razionalismo rispettoso della sfera spirituale e aperto al mistero che considera la ragione la sua migliore alleata, la Santa Sede esprime l’augurio che, qui all’Unesco, ci si possa sempre più interrogare in modo fecondo sulle condizioni per costruire lo spazio democratico, sul ruolo positivo delle tradizioni religiose in questa costruzione, e sul contributo specifico di tali tradizioni nel tessere il progetto umano e politico del vivere-insieme in democrazia.
Così facendo, continueremo a mettere la persona, il suo sviluppo integrale e il bene comune al centro delle nostre riflessioni e delle nostre azioni e l’Unesco sarà fedele alla sua definizione, alla sua vocazione e alla sua missione al servizio dell’umanità dell’uomo.
Grazie per la vostra cortese attenzione.
L'Osservatore Romano