sabato 23 novembre 2013

Solennità di Nostro Signore Gesù Cristo Re dell'Universo. Anno C


Questa solenne domenica che chiude l'anno liturgico, ci invita a guardare al Vittorioso sulla morte che glorifica tutti quelli che con fede alzano lo sguardo verso colui che è stato trafitto per i nostri peccati. Prolunghiamo la domenica nella settimana che ci introduce all'Avvento che celebra la venuta di Cristo per accoglierlo oggi nella fede.
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Dopo aver celebrato nel corso dell’anno liturgico tutto il mistero di Cristo, per far crescere il desiderio del suo ritorno, la Chiesa ci pone davanti, a corona del mistero della Pasqua, una realtà impressionante: un Re e Signore messo in croce, sbeffeggiato e deriso, provocato a scendere per mostrare il suo potere divino, mentre proprio su quello strumento di tortura sta mostrando a tutti la misura del dono di Dio, sta gridando al mondo non solo che Dio c’è, ma cosa sia veramente Dio, di cosa Egli sia capace per amore all’uomo. Dio è questo dono. Dio è questo perdono. Infinitamente dimentico di sé per accogliere l’uomo, anche il più peccatore, l’ultimo, tra le sue braccia. Proprio sulla croce Egli viene con il suo Regno ad aprire quel paradiso che il peccato dei progenitori aveva chiuso. Al malfattore che, crocifisso con lui, gli grida: “Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno”, risponde con libertà ed autorità divina: “In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso”. Questa croce, questo atto d’amore infinito, che con tanta superficialità e presunto civismo abbiamo tolto dai luoghi pubblici e dalle scuole, continua ad essere l’unica risposta vera alla sofferenza profonda dell’uomo, continua ad essere la chiamata definitiva di Dio all’uomo a farsi dono, a farsi, come Dio, offerta all’altro. Senza di essa rimane solo l’amarezza degli ultimi, dei poveri, degli sconfitti. Se l’uomo non si fa dono per l’altro, si fa, anche non volente, strumento di tortura. Perché: o sotto la croce ne siamo schiacciati, o sulla croce regniamo con Cristo (come canta la liturgia: “Dio regna dal legno della croce”).


don Ezechiele Pasotti, prefetto agli studi nel Collegio Diocesano missionario “Redemptoris Mater” di Roma


MESSALE
Antifona d'Ingresso  Ap 5,12; 1,6
L'Agnello immolato è degno di ricevere potenza
e ricchezza e sapienza e forza e onore:
a lui gloria e potenza nei secoli, in eterno.
 
Colletta
Dio onnipotente ed eterno, che hai voluto rinnovare tutte le cose in Cristo tuo Figlio, Re dell'universo, f
a' che ogni creatura, libera dalla schiavitù del peccato, ti serva e ti lodi senza fine. Per il nostro Signore...
 
Oppure:
O Dio Padre, che ci hai chiamati a regnare con te nella giustizia e nell'amore, liberaci dal potere delle tenebre; f
a' che camminiamo sulle orme del tuo Figlio, e come lui doniamo la nostra vita per amore dei fratelli, certi di condividere la sua gloria in paradiso. Egli è Dio... 

LITURGIA DELLA PAROLA

Prima Lettura  2 Sam 5, 1-3
Unsero Davide re d'Israele. 

Dal secondo libro di Samuele
In quei giorni, vennero tutte le tribù d'Israele da Davide a Ebron, e gli dissero: «Ecco noi siamo tue ossa e tua carne. Già prima, quando regnava Saul su di noi, tu conducevi e riconducevi Israele. Il Signore ti ha det­to: "Tu pascerai il mio popolo Israele, tu sarai capo d'Israele"».
Vennero dunque tutti gli anziani d'Israele dal re a Ebron, il re Davide concluse con loro un'alleanza a Ebron davanti al Signore ed essi unsero Davide re d'Israele.
  
Salmo Responsoriale
  Dal Salmo 121Andremo con gioia alla casa del Signore.
 
Quale gioia, quando mi dissero:
«Andremo alla casa del Signore!».
Già sono fermi i nostri piedi
alle tue porte, Gerusalemme!
 
È là che salgono le tribù,
le tribù del Signore,
secondo la legge d'Israele,
per lodare il nome del Signore.

Là sono posti i troni del giudizio,
i troni della casa di Davide. 

 

Seconda Lettura
  Col 1, 12-20
Ci ha trasferiti nel regno del Figlio del suo amore. 
 

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Colossési
Fratelli, ringraziate con gioia il Padre che vi ha resi capaci di partecipare alla sorte dei santi nella luce.
È lui che ci ha liberati dal potere delle tenebre e ci ha trasferiti nel regno del Figlio del suo amore, per mezzo del quale abbiamo la redenzione, il perdono dei peccati.
Egli è immagine del Dio invisibile, primogenito di tutta la creazione, perché in lui furono create tutte le cose nei cieli e sulla terra, quelle visibili e quelle invisibili: Troni, Dominazioni, Principati e Potenze. Tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vi­sta di lui. Egli è prima di tutte le cose e tutte in lui sussistono.
Egli è anche il capo del corpo, della Chiesa. Egli è principio, primogenito di quelli che risorgono dai morti, perché sia lui ad avere il primato su tutte le cose. È piaciuto infatti a Dio che abiti in lui tutta la pienezza e che per mezzo di lui e in vista di lui siano riconciliate tutte le cose, avendo pacificato con il sangue della sua croce sia le cose che stanno sulla terra, sia quelle che stanno nei cieli.
 
Canto al Vangelo  
 Mc 11,9.10
Alleluia, alleluia.

Benedetto colui che viene nel nome del Signore!
Benedetto il Regno che viene, del nostro padre Davide!

Alleluia.

  
  
Vangelo  Lc 23, 35-43
Signore, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno. 

Dal vangelo secondo Luca
In quel tempo, [dopo che ebbero crocifisso Gesù,] il popolo stava a vedere; i capi invece deridevano Gesù dicendo: «Ha salvato altri! Salvi se stesso, se è lui il Cristo di Dio, l'eletto».
Anche i soldati lo deridevano, gli si accostavano per porgergli dell'aceto e dicevano: «Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso». Sopra di lui c'era anche una scritta: «Costui è il re dei Giudei».
Uno dei malfattori appesi alla croce lo insultava: «Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e noi!». L'altro invece lo rimproverava dicendo: «Non hai alcun timore di Dio. tu che sei condannato alla stessa pena? Noi, giustamente, perché riceviamo quello che abbiamo meritato per le nostre azioni; egli invece non ha fatto nulla di male».
E disse: «Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno». Gli rispose: «In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso».


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"Colui che accetta di essere trapassato dalla stessa nostra pena"

Commento al vangelo della Solennità di Nostro Signore Gesù Cristo Re dell'Universo. Anno C


C'è un Regno nel quale il Re, per amore dei suoi sudditi, si fa condannare, ingiustamente, alla loro stessa pena. La salvezza e la felicità dei sudditi allora dipende da una sola cosa: accettare d'aver peccato e meritare la pena, e non sbraitare e inveire cercando una impossibile giustizia, quella tutta umana di vedere i chiodi della pena sfilati da mani e piedi grazie a un buon avvocato capace di nascondere le responsabilità. Impossibile e ingiusta giustizia, perché non centra il vero problema.
Che senso e che bene sarebbe vedere accordato un perdono peloso e buonista che liberi dalla pena e dalle conseguenze dei peccati senza cambiare davvero il cuore? Che giustizia è quella che chiude un occhio sulle responsabilità impedendo così l’accesso al Paradiso, alla libertà autentica e definitiva? Non si può essere giustificati se non si ha nulla da farsi perdonare! Può desiderare e assaporare e difendere la libertà solo chi riconosce d'essere stato schiavo! Il ladrone pentito lo aveva compreso bene, e tu? Desideri il Paradiso o un condono che, come una sbianchettata, ti tiri fuori di prigione per un paio d’ore, lasciando il cuore schiavo degli stessi peccati.
Il Regno assolutamente nuovo, il Paradiso che profuma di libertà, brilla tutto nel suo Re che, come i suoi sudditi, è in questo mondo ma non è di questo mondo. E' il nostro Re, Colui che accetta di essere trapassato dalla stessa nostra pena. Il nostro Re prende e porta i nostri peccati, sino a fare della nostra pena la sua pena, della nostra croce la sua Croce, di sangue e di Gloria, di morte e di Vita. Lui, dirà San Paolo, si è fatto maledizione per noi perché noi potessimo divenire la sua Giustizia. Tutto è pronto, basta solo accettare di essere giustamente condannati alla stessa pena alla quale Lui è ingiustamente condannato.
Sulla Croce pendeva la scritta "Questi è il Re dei Giudei" a indicare il trono di misericordia del suo Regno, da cui è sgorgato il preziosissimo sangue che ha lavato ogni peccato. E’ il giudizio crocifisso che, proprio perché condanna il Signore alla “nostra stessa pena” è sempre un giudizio di perdono. Gesù è esattamente dove siamo noi, “oggi”. Ci attende nelle conseguenze dei nostri peccati. Ciò significa che anche la situazione più difficile, anche la morte che si schiude al di là del peccato, proprio perché raggiunta dalla presenza del Signore, può divenire il Paradiso!
Che cosa aspettava il ladrone dopo la morte? L’inferno, giusta conseguenza per i suoi peccati. E invece lo attende il Paradiso, perché vi entra “con Lui”. Da soli è impossibile, occorre poter alzare lo sguardo sul Re crocifisso che allarga i confini del suo Regno eterno sino al patibolo di ogni uomo. Così accadrà “oggi” per noi. Nei momenti più dolorosi alziamo lo sguardo e vedremo il Signore accanto a noi, per accompagnarci in Paradiso.
La sua Croce è la porta che ci fa entrare nella morte conseguente ad ogni peccato già da vittoriosi, da perdonati, come uomini nuovi. Il miracolo è restare con Cristo crocifissi alla storia, territorio infinito del suo Regno, senza scappare; i suoi chiodi, infatti, sono il sigillo che ci fa figli di Dio con Lui. Figli laddove tutto e tutti, sommi sacerdoti religiosi scandalizzati e soldati secolarizzati e sarcastici, hanno sempre da dubitare e da schernire. Figli nel Figlio dove il Figlio è Figlio. Crocifissi con Lui.
A noi compete solo il santo timore, un abbandono totale e fiducioso al suo cuore, che non delude, mai. Neanche nel momento peggiore. Neanche tra le grida assordanti d'un mondo che ci incita a scendere dalla Croce avvinti dal dubbio del "se davvero sei figlio....": allora perché il tuo matrimonio si è incagliato in quella crisi e non se ne esce? Perché hai un carattere così difficile che ti umilia ovunque? Perché tua figlia si è intestardita ad uscire con quell’uomo sposato? Perché hai perso il lavoro? Perché questa malattia?
Ma proprio lì sulla Croce, come Isacco e Abramo sul Moria, siamo chiamati a consumare l'intimità celeste di chi, in completa fiducia, si guarda diritto e profondo negli occhi: "Oggi, ora sarai con me nel Paradiso, nel Regno eterno, nell'amore infinito". Sulla Croce il nostro cuore è cambiato dalla sua misericordia. Un cuore di carne eppure celeste, crocifissi eppure risorti, morenti eppure vivi e regnanti con Cristo.
E così siamo tutti re nel Reinviati anche oggi nell’oggi di chi ci è accanto, perché divenga per tutti l’oggi del Paradiso. Accanto alla moglie e al marito in crisi, senza più desideri, apatici e depressi: crocifissi con il coniuge, scontando la stessa pena. E così con i figli, i colleghi, gli amici e i fidanzati, soprattutto con chi ci è ostile. Hanno diritto ad averci accanto a loro, perché solo in noi potranno incontrare lo sguardo misericordioso di Gesù che si fa di nuovo peccato per loro nella nostra vita.
Ecco la meravigliosa e fondamentale vocazione della Chiesa e di ciascuno dei suoi figli: essere re crocifissi in ogni spicchio di terra e frammento di storia, perché ovunque si estenda il Regno celeste e ogni uomo possa “entrare” con Cristo nel Paradiso preparato per lui.  


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Monsignor Francesco Follo, osservatore permanente della Santa Sede presso l'UNESCO a Parigi, offre oggi la seguente riflessione sulle letture liturgiche per la XXXIV.ma domenica del Tempo Ordinario – Anno C. 
Il presule propone anche una lettura patristica.
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LECTIO DIVINA 
Un Re che ha il cielo come reggia, la croce come trono e due ladri come testimoni

            1) L’importante non è essere come Gesù, ma essere con Gesù, come il buon ladrone.
            Gesù durante la sua vita terrena regnò[1], sostenne i suoi dicendo loro parole di verità, compiendo gesti di carità, servendoli fino a lavare loro i piedi e mostrando il suo infinito amore andando sul trono della Croce, dopo essere stato incoronato di spine da Ponzio Pilato. Gesù in questo modo risponde alla chiamata di guidare il popolo di Dio, ad esserne condottiero (cfr. prima lettura “romana” di oggi). La sua regalità è di origine divina ed ha il primato su tutto, perché in lui il Padre ha posto la pienezza di tutte le cose (seconda lettura), eppure il vangelo di Luca presenta la regalità di Gesù riportando la umanamente scandalosa investitura a re dei Giudei sulla croce. Due pezzi di legno incastrati uno sull’altro sono il trono paradossale del Signore della pace e dell’unità, che –non dimentichiamolo- ebbe come culla una mangiatoia in un povera stalla, dove fu onorato come uomo, come Dio e come Re dai pastori e dai Re Magi (mirra per l’umanità, incenso per la divinità e oro per la regalità).
            Non dimentichiamo però che se Cristo Re va in croce non è per dare uno spettacolo di umiltà, ma per rivelare l’amore appassionato di Dio per noi. La sua passione non è tanto la flagellazione, a cui sono seguiti gli sputi e i chiodi, quanto il suo cuore, che è tutto e solo amore “passionale” per ciascuno di noi. La Croce è la conclusione rigorosa e necessaria del discorso sul Monte delle Beatitudini del Regno dei cieli.
            Chi porta l’Amore è in balìa dell’odio e non si vince l’odio che accettando la condanna e perdonando. Chi è Amore perdona e lo dichiara: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno”.
            Secondo me, quando il ladrone, che era accanto in croce accanto alla Croce-Trono di Cristo, senti questa dichiarazione di amore, credo che ne fu sconvolto al punto che si convertì[2] e domandò a Cristo di ricordarsi di lui, che possiamo considerare l’ultimo convertito da Gesù durante la sua vita terrena.
            Questa preghiera di Cristo Re che perdona era così nuova per il ladrone che si sentì richiamato a sentimenti così estranei al suo spirito e a tutta la sua vita. Questa intercessione di perdono riportò il “buon” ladrone” all'età più dimenticata dell’infanzia, quando era innocente anche lui e sapeva che c’era un Dio al quale si poteva chiedere la pace come i poveri chiedono il pane alla porta dei signori. Ma in nessun luogo, per quanto si ricordasse, c’era una  domanda di perdono come quella, così fuori dell'ordinario, così assurda sulla bocca ad uno che sta per essere ammazzato. Eppure quelle parole inverosimili trovavano, nel cuore disseccato del Ladro, una connessione con qualcosa alla quale avrebbe voluto credere, specie in quel  momento che stava per comparire dinanzi a un Giudice più terribile di quello dei tribunali.
            Gli ritornò in mente quel che aveva sentito raccontare di Gesù; poche cose e, per lui, poco chiare. Ma sapeva che aveva parlato di un Regno di pace e che lui stesso sarebbe tornato a governarlo. Allora, in un impeto di fede, come se invocasse la comunanza di quel sangue che grondava nello stesso  momento dalle sue mani di criminale e da quelle mani d’incolpevole, proruppe in queste parole: “Signore, ricordati di me nel tuo Regno!”. E Gesù, che non aveva risposto a nessuno che lo interpellava sotto la Croce, volse la testa, quanto poteva, verso il Ladrone pietoso, e gli rispose: “Io ti dico in verità che oggi sarai con me in Paradiso”. L’umile domanda del buon Ladrone bastò per ottenere l’assoluzione.
            Questo uomo si salvò perché seppe trasformare la condanna in croce in un gesto di pietà. Fu con Cristo e Cristo da subito (oggi, gli disse Gesù) lo accolse nella sua pietà[3].
            2) La continuazione della via amorosa della Croce.
            La Chiesa e noi con questa grande e bella Madre, si vuole festeggiare la regalità del Signore, dobbiamo ripercorrere la via della Croce.
            Gesù è un re condannato innocente. E agli occhi degli uomini la sua sembra una regalità da burla: gli uomini sono abituati a ben altri re e a ben altre manifestazioni della regalità. Questo Gesù lo aveva fatto già capire in precedenza: «I re delle genti le signoreggiano e coloro i quali dominano su di esse si fanno chiamare benefattori. Ma non così voi" io sono in mezzo a voi come colui che serve» (Lc 22,25-27). C'è dunque una radicale differenza fra la regalità del mondo e la regalità di Dio, fra le manifestazioni della prima e le manifestazioni della seconda. La scena della crocifissione del Vangelo di oggi (Lc23,33-43) raduna i motivi dispersi portandoli a compimento. Anzitutto la regalità di Cristo è affermata. San Luca usa una costruzione enfatica: «Questi è il re dei giudei» (v. 38). È il motivo della condanna che vorrebbe significare, nella mente dei capi, la fine dell'assurda pretesa di Gesù: invece è l'affermazione inconsapevole che proprio lì, sulla Croce, la regalità di Gesù si manifesta in tutto il suo splendore.
            Gesù muore fra due condannati (lungo la sua vita egli fu sempre accusato di andare con pubblicani e peccatori): uno non comprende, prigioniero - come tutti - dello schema mondano della regalità («Non sei tu il Messia? Salva te stesso e noi»); ma l'altro intravede, dietro la debolezza della Croce, la potenza dell'amore che vi traspare: “Ricordati di me quando verrai nella tua regale maestà” (v. 42). Ora il motivo centrale ci è chiaro: la regalità di Gesù risplende nell'ostinazione dell'amore, nel rifiuto della potenza per salvare se stesso e per sottrarsi alla contraddizione.
            Ecco ciò che è inaudito: Gesù non si serve della sua potenza divina per salvare se stesso, per sottrarsi al completo dono di sé, per costringere coloro che lo rifiutano ad ammettere il loro torto. Gesù si abbandona totalmente all'apparente debolezza della non violenza e dell'amore.
            Dunque la regalità di Gesù è legata alla Croce. Tuttavia anche quegli aspetti che noi indichiamo come splendore, gloria, vittoria e potenza, non sono assenti. E difatti il Crocifisso è risorto e il Figlio dell'uomo tornerà nella maestà della sua gloria. Ma si tratta sempre della gloria dell'amore, del trionfo della via della Croce. Risurrezione e ritorno di Gesù sono la rivelazione dello splendore e della forza vittoriosa che la via della Croce nasconde. È in questa prospettiva che va compresa l'affermazione di San Luca, che cioè il Cristo, crocifisso e risorto, regna già ora: oggi.
            3) Spose di Cristo Re crocifisso.
            Un Re così vale  davvero la pena seguirlo e  rispondere alla vocazione sponsale che rende le persone corredentrici, portando, reggendo con lui in Croce il peso del mondo. A Dio che dice “Non avere paura, non temere perché io sono con te e ti amo” (Is 43, 45), la risposte più naturale è “sì”. In questo ci sono esempio e testimonianza : “Le vergini consacrate che celebrano nozze mistiche con Gesù Cristo figlio di Dio e si dedicano al servizio della Chiesa” (Canone 604 del Codice di Diritto canonico). Nel rito della consacrazione delle vergini il Vescovo chiede alla candidata: «Vuoi consacrarti ed essere sposata solennemente con nostro Signore Gesù, sommo figlio di Dio? » E, nell’orazione di consacrazione, il Vescovo le dice: «Che tu rimanga sempre fedele a Cristo tuo sposo e imiti la fedeltà che si esige agli sposati ». E poi prega così: «Signore, che ti glorifichi con la santità del corpo e con la purezza dell’anima... Sii tu il suo amore, la sua gioia, il suo volere, tu il conforto nel dolore, tu il consiglio nell’incertezza, tu la difesa nell’ingiuria, la fortezza nella tribolazione, l’abbondanza nella povertà, il nutrimento nel digiuno, la medicina nell’infermità. Essa, che ha scelto te, soprattutto in te trovi tutto» (n 24).
Santa Teresa di Gesù, parlando della professione religiosa, scriveva:
«Oh matrimonio consacrato!
Il re della maestà è stato sposato.
Oh fortunata quella fanciulla,
poiché ha preso, come marito,
colui che regna e che deve regnare.
Ricchi gioielli vi darà questo sposo,
re del cielo, che è re e farlo ben potrà.
Oh che splendida sorte
vi era stata preparata!
Che Dio vi volesse per amata!
Nel servirlo siate molto forti,
poiché l’avete professato.
Che il Re della Maestà
è già da voi sposato!»
            Non dimentichiamo però che noi tutti siamo scelti da tutta l’eternità (cfr. Ef 1, 4) perché regnassimo con Lui, “a lode della sua gloria” (Ef 1, 12). A ciascuno di noi dice: “Tutto ciò che è mio è tuo, e tutto ciò che è tuo è mio” (Gv 17, 10), e noi preghiamo: “Venga il tuo Regno” nel nostro cuore, nella nostra mente e nella nostra volontà per sostenere con Cristo il mondo che anela risollevarsi.  Quali figli e figlie del Re preghiamo: “Venga il tuo Regno” cioè la Tua potenza di amore, o Signore, salvi il mondo intero.
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LETTURA PATRISTICA 
Venga il tuo regno
Dall'opuscolo «La preghiera» di Origene, sacerdote 
 (Cap. 25; PG 11, 495-499)
Il regno di Dio, secondo la parola del nostro Signore e Salvatore, non viene in modo da attirare l'attenzione e nessuno dirà: Eccolo qui o eccolo là; il regno di Dio è in mezzo a noi (cfr. Lc 16, 21), poiché assai vicina è la sua parola sulla nostra bocca e nel nostro cuore (cfr. Rm 10, 8). Perciò, senza dubbio, colui che prega che venga il regno di Dio, prega in realtà che si sviluppi, produca i suoi frutti e giunga al suo compimento quel regno di Dio che egli ha in sé. Dio regna nell'anima dei santi ed essi obbediscono alle leggi spirituali di Dio che in lui abita. Così l'anima del santo diventa proprio come una città ben governata. Nell'anima dei giusti è presente il Padre e col Padre anche Cristo, secondo quell'affermazione: «Verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui» (Gv 14, 23).
Ma questo regno di Dio, che è in noi, col nostro instancabile procedere giungerà al suo compimento, quando si avvererà ciò che afferma l'Apostolo del Cristo. Quando cioè egli, dopo aver sottomesso tutti i suoi nemici, consegnerà il regno a Dio Padre, perché Dio sia tutto in tutti (cfr. 1 Cor 15, 24. 28). Perciò preghiamo senza stancarci. Facciamolo con una disposizione interiore sublimata e come divinizzata dalla presenza del
Verbo. Diciamo al nostro Padre che è in cielo: «Sia santificato il tuo nome; venga il tuo regno» (Mt 6, 9-10). Ricordiamo che il regno di Dio non può accordarsi con il regno del peccato, come non vi è rapporto tra la giustizia e l'iniquità né unione tra la luce e le tenebre né intesa tra Cristo e Beliar (cfr. 2 Cor 6, 14-15).
Se vogliamo quindi che Dio regni in noi, in nessun modo «regni il peccato nel nostro corpo mortale» (Rm 6, 12). Mortifichiamo le nostre « membra che appartengono alla terra» ( Col 3, 5). Facciamo frutti nello Spirito, perché Dio possa dimorare in noi come in un paradiso spirituale. Regni in noi solo Dio Padre col suo Cristo. Sia in noi Cristo assiso alla destra di quella potenza spirituale che pure noi desideriamo ricevere. Rimanga finché tutti i suoi nemici, che si trovano in noi, diventino «sgabello dei suoi piedi» (Sal 98, 5), e così sia allontanato da noi ogni loro dominio, potere ed influsso. Tutto ciò può avvenire in ognuno di noi. Allora, alla fine, «ultima nemica sarà distrutta la morte» (1 Cor 25, 26). Allora Cristo potrà dire dentro di noi: «Dov'è , o morte, il tuo pungiglione? Dov'è , o morte, la tua vittoria? » ( Os 13, 14; 1 Cor 15, 55). Fin d'ora perciò il nostro «corpo corruttibile» si rivesta di santità e di « incorruttibilità; e ciò che è mortale cacci via la morte, si ricopra dell'immortalità» del Padre (1 Cor 15, 54). Così regnando Dio in noi, possiamo già godere dei beni della rigenerazione e della risurrezione.
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NOTE
[1] Regnare deriva dal verbo latino “règere” = 1. reggere, governare, dominare, amministrare, comandare; 2. dirigere, guidare; 3. regolare, correggere, guidare sulla retta via; 4. stabilire, fissare, tracciare i confini.
[2] Convertirsi in greco è indicato con due verbi. Il primo è epistréfo che vuol dire voltarsi verso, il secondo è metanoéo che vuol dire “cambiare mentalità, pensiero”. La conversione cristiana implica le due cose: il voltarsi verso Cristo e assumere la Sua mentalità.
[3] La parola pietà vuol dire prima di tutto “consuetudine di amore”, tant’è vero che con l’espressione “pratiche di pietà” si intende le “preghiere”.

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La dottrina politica del Cristo Re
di Stefano Fontana

L’anno liturgico si conclude con la Festa di Cristo Re, che quest’anno cade domenica 24 novembre 2013. In questa occasione la Festa di Cristo Re si carica di ulteriori significati, in quanto segna anche la conclusione dell’Anno della Fede, iniziato per volontà di Benedetto XVI l’11 ottobre 2012 e che si concluderà, appunto, domenica 24 novembre 2013. Sembra importante, allora, chiedersi cosa sia questa Festa.
La dottrina di Cristo Re nel Catechismo
È utile innanzitutto precisare che la signoria o regalità di Cristo è un insegnamento della Chiesa contenuto nel Catechismo. Si tratta di una verità della dottrina della fede, come scrisse Pio XI, il Papa che istituì la festa: «è dogma di fede che Gesù Cristo è stato dato agli uomini quale Redentore in cui debbono riporre la loro fiducia, ed allo stesso tempo come legislatore a cui debbono obbedire» (enciclica Quas Primas). Il paragrafo 2105 del Catechismo dice: «Il dovere di rendere a Dio un culto autentico riguarda l’uomo individualmente e socialmente. È “la dottrina cattolica tradizionale sul dovere morale dei singoli e delle società verso la vera religione e l’unica Chiesa di Cristo” (Dignitatis humanae, 1). Evangelizzando senza posa gli uomini, la Chiesa si adopera affinché essi possano “informare dello spirito cristiano la mentalità e i costumi, le leggi e le strutture della comunità” (Apostolicam actuositatem, 13) in cui vivono. Il dovere sociale dei cristiani è di rispettare e risvegliare in ogni uomo l’amore del vero e del bene. Richiede loro di far conoscere il culto dell’“unica vera religione che sussiste nella Chiesa cattolica ed apostolica” (Dignitatis humanae, 1). I cristiani sono chiamati ad essere la luce del mondo. La Chiesa in tal modo manifesta la regalità di Cristo su tutta la creazione e in particolare sulle società umane».
Il Regno di Dio è Cristo stesso e la sua regalità si è manifestata nella creazione (“per mezzo di lui tutte le cose sono state fatte” dice il Vangelo di San Giovanni) e nella resurrezione. Essa ha quindi un aspetto anche messianico ed escatologico: la regalità di Cristo si compirà definitivamente col suo Ritorno, quando ricapitolerà in sé tutte le cose.
Molti ritengono che la regalità di Cristo sia una dottrina che appartiene ad altri tempi. Di solito la si considera una dottrina preconciliare oggi superata. Però, come abbiamo appena visto, è una dottrina chiaramente enunciata dal Catechismo che Giovanni Paolo II fece pubblicare l’11 ottobre 1982 (notare la data!) come conseguenza e frutto del Concilio. Del resto, nel testo del paragrafo 2105 che abbiamo appena letto ci sono numerosi rimandi a passi di alcuni importanti documenti del Vaticano II. Non si può quindi separare la dottrina di Cristo Re dal Concilio.

L’istituzione della Festa con Pio XI
La festa di Cristo Re fu istituita dall’enciclica Quas Primas di Pio XI, l'11 dicembre 1925, in chiusura dell’Anno Santo. Il Pontefice, dopo aver ricordato come già nel Vecchio Testamento si parla profeticamente della regalità di Cristo, ricorda che Egli stesso si è proclamato tale come, per esempio, rispondendo ad una precisa domanda di Pilato in questo senso e come i Vangeli ripetutamente lo proclamino così.
Pio XI prosegue poi dicendo che Cristo non solo è Re per diritto di natura, ossia in quanto Egli è Dio, ma anche per diritto di conquista, in forza della Redenzione: «Volesse Iddio che gli uomini immemori ricordassero quanto noi siamo costati al nostro Salvatore: “Non a prezzo di cose corruttibili, di oro o d'argento siete stati riscattati... ma dal Sangue prezioso di Cristo, come di agnello immacolato e incontaminato”».
Pio XI insegna che la regalità di Cristo si esprime in tutti e tre i poteri: legislativo («il divino Maestro afferma, in circostanze e con diverse espressioni, che chiunque osserverà i suoi comandamenti darà prova di amarlo e rimarrà nella sua carità»); giudiziario («Il Padre non giudica alcuno, ma ha rimesso al Figlio ogni giudizio», Gv  5,22); esecutivo:(«è necessario che tutti obbediscano al suo comando, e nessuno può sfuggire ad esso e alle sanzioni da lui stabilite»).
Pur essendo la potestà di Cristo primariamente di ordine spirituale, la sua realtà è anche di ordine sociale: «sbaglierebbe gravemente chi togliesse a Cristo Uomo il potere su tutte le cose temporali, dato che Egli ha ricevuto dal Padre un diritto assoluto su tutte le cose create, in modo che tutto soggiaccia al suo arbitrio». Non solo i singoli uomini gli devono obbedienza, ma anche le società, perché «È lui solo la fonte della salute privata e pubblica… Non rifiutino, dunque, i capi delle nazioni di prestare pubblica testimonianza di riverenza e di obbedienza all'impero di Cristo insieme coi loro popoli, se vogliono, con l'incolumità del loro potere, l'incremento e il progresso della patria».

Una dottrina superata?
Le frasi appena lette sembrano non tenere conto della cosiddetta “autonomia delle realtà terrene”, e sembrano dire che la politica dipende dalla religione cristiana. È per questo che molti ritengono questa dottrina superata, dato l’attuale contesto democratico e pluralista. A questo proposito, la prima cosa da dire è che i recenti Pontefici, che non hanno certamente condannato la democrazia come quelli del XIX secolo, non hanno certo smesso di proclamare la signoria di Cristo nell’ambito sociale e politico.
Un esempio molto eloquente è stato il famoso invito di Giovanni Paolo II ad aprire le porte a Cristo, invito pronunciato nella prima omelia da Pontefice, domenica 22 ottobre 1978: «Non abbiate paura! Aprite, anzi, spalancate le porte a Cristo! Alla sua salvatrice potestà aprite i confini degli Stati, i sistemi economici come quelli politici, i vasti campi di cultura, di civiltà, di sviluppo. Non abbiate paura! Cristo sa “cosa è dentro l’uomo”. Solo lui lo sa!». Qui il Papa non dice di aprire le porte a Cristo solo ai cuori e alle anime, ma anche ai sistemi politici; si tratta quindi di una regalità anche sociale.
Benedetto XVI lo ha ripetuto innumerevoli volte: «Un Dio che non abbia potere è una contraddizione in termini»; «Lontano da Dio l’uomo è inquieto e malato»; «L’umanesimo che esclude Dio è un umanesimo disumano»; «Non dobbiamo perdere Dio di vista se vogliamo che la dignità umana non sparisca»; «Con lo spegnersi della luce proveniente da Dio l’umanità viene colta dalla mancanza di orientamento, i cui effetti distruttivi si manifestano sempre di più». Anche Benedetto XVI ha proclamato la regalità di Cristo: «Non esiste un regno di questioni terrene che possa essere sottratto al Creatore e al suo dominio».

Regalità di Cristo e democrazia
Facevo notare che la democrazia farebbe pensare all’assurdità della regalità di Cristo sulle cose temporali, cioè non solo sulle coscienze di chi ci crede ma anche sulla organizzazione della società e della politica. Invece, la Chiesa afferma che tale regalità rimane, solo che non passa più attraverso istituzioni “cristiane”, come in passato, ma attraverso l’azione dei fedeli, nel rispetto della libertà di coscienza. Non passa più attraverso uno Stato confessionale, perché questo limiterebbe la libertà di coscienza che proprio i cristiani hanno rivendicato per primi davanti al potere dell’impero romano e che sarebbe strano che ora vietassero ad altri. Ad un certo punto, la modernità ha voluto non solo superare lo Stato confessionale, ma anche buttare fuori Dio dal mondo e relegarlo nella coscienza individuale. Anzi, ha preso l’occasione del rifiuto dello Stato confessionale per fare questo. La prima cosa le è riuscita, non deve riuscirle la seconda, perché sarebbe la sua condanna.
Ribadire, quindi, la regalità di Cristo sulle società e non solo sulle coscienze, non significa pensare che la società e la politica possano fare a meno di Lui. Dice la Caritas in veritate che «il cristianesimo è elemento non solo utile, ma indispensabile per la costruzione di una buona società», con il che viene ribadita la regalità di Cristo nell’ordine sociale.
Un modo molto importante per rispettare la regalità di Cristo in democrazia è di rispettare nelle leggi e nelle politiche i principi della legge morale naturale: la vita, la famiglia, la procreazione, l’educazione dei figli, la proprietà privata diffusa, il lavoro, la pubblica moralità. Rispettare, cioè, le leggi del Creato, che provengono dal Creatore e che contengono le indicazioni su come dobbiamo vivere se non vogliamo cessare di essere persone umane. Se la società e la politica fanno questo, si accorgono ben presto che Dio deve avere un posto nel mondo, perché altrimenti anche le norme morali vengono meno e, come diceva Dostoevskij, tutto diventa permesso.