venerdì 27 dicembre 2013

Storia di un ribelle obbediente.



In memoria di don Lorenzo Milani. Volle essere seppellito a Barbiana con i paramenti sacri e gli scarponi da montagna

(Carlo Carletti) Se fosse rimasto ancora in vita, con ogni probabilità don Lorenzo Milani avrebbe postillato i novant’anni dalla sua nascita — lo scorso 27 maggio — con un perentorio «lasciate che i morti seppelliscano i propri morti» (Luca, 9, 51-62). Ma la personalità del priore di Barbiana, l’originalità della sua “ribellione obbediente” (Ernesto Balducci), la radicalità delle sue scelte continuano, forse suo malgrado, a suscitare interesse, e dunque a conservarne memoria, come fertile terreno di critica, confronto, dibattito, ricerca.
Basti considerare che solo dal 1949 al 2005 i contributi scritti dedicati a don Milani hanno raggiunto 7853 titoli: 7645 articoli sulla stampa periodica, 123 documenti, 85 libri puntualmente registrati in Don Lorenzo Milani. Il destino di carta. Rassegna stampa 1949-2005. Catalogo a cura di Liana Fiorani (Bologna, il Mulino, 2010, pagine 936, euro 60). Eppure don Lorenzo, quasi nemesi storica, proprio pochi mesi prima di morire aveva chiesto ai ragazzi di Barbiana di distruggere tutte le sue carte, ivi comprese le lettere: ma questa volta gli allievi provvidenzialmente non vollero rispondere alla richiesta del maestro.
Lorenzo nasce a Firenze nel 1923 in una ricca famiglia alto-borghese, totalmente agnostica, nel cui ambito l’abituale pratica della cultura è consolidata per lunga tradizione e ai massimi livelli. Il nonno Domenico Comparetti, eminente filologo; il padre Albano, letterato e filologo (uno dei primi studiosi di Franz Kafka); la madre Alice Weiss di famiglia ebrea, per qualche tempo allieva di James Joyce; lo zio paterno e il fratello Adriano professori universitari; l’amicizia e la consuetudine con studiosi del calibro di Giorgio Pasquali. La scuola primaria per i fratelli Milani — Adriano, Elena, Lorenzo — era privata in senso stretto, impartita cioè a casa da istitutrici di lingua tedesca e francese: nel tempo libero i ragazzi di casa Milani si dilettavano anche con Beethoven e Bach e talvolta con misteriosi e ardui scioglilingua come la sequenza etimologica «Alopex-pix-pox-pux-fux» (“volpe” dal greco al tedesco) appresa dal nonno filologo.
Nella prima parte della sua vita Lorenzo partecipa in tutto e per tutto di questa atmosfera, assorbendone strumenti e contenuti. Anche lui, come i suoi parenti, avrebbe potuto frequentare l’università, diventare docente o esercitare una professione di alto profilo, ma non era questa la strada che per lui si stava misteriosamente profilando. Terminati gli studi superiori — contro il parere dei genitori — nel 1941 si iscrive a un corso di pittura presso l’Accademia delle Belle Arti di Brera, dove, sotto la guida del pittore Hans Joachim Staude, aveva tra l’altro potuto approfondire il rapporto tra arte sacra e liturgia. Nella primavera del 1943, senza rimpianti, deliberatamente rientra a Firenze. Cominciavano a manifestarsi i primi sintomi di una svolta che avrebbe mutato in profondità la sua esistenza: di questa metamorfosi rimangono nell’ombra momenti e dinamiche, anche perché don Lorenzo, almeno nei suoi scritti, mai sfiorò apertamente questo argomento. Una traccia di questo itinerario sembra però avvertirsi in una lettera dell’estate 1942 a Oreste Del Buono, suo compagno di scuola: «Ho trovato un vecchio messale qui a Gigliola (Montaperti), in una cappellina di proprietà della famiglia. Ho letto la Messa. Ma sai che è più interessante dei Sei personaggi in cerca di autore?» (in Neera Fallaci, Vita del prete Lorenzo Milani, Milano, Bur, 1993).
In questo processo di svelamento un ruolo centrale riveste il rapporto intessuto dal giovane Lorenzo con don Raffaele Bensi, incontrato casualmente a Firenze, al quale si legò: per tutta la vita fu la sua guida spirituale, come testimoniato da un carteggio di smisurate proporzioni, rimasto naturalmente riservato, ma forse doverosamente fatto distruggere, perché in ultima analisi di confessioni si trattava. Don Bensi, in un’intervista televisiva rilasciata a Enzo Biagi il 20 luglio 1971, ricordò che Lorenzo, di fronte alla salma di un giovanissimo sacerdote, don Dario Rossi, morto a trent’anni, avrebbe detto: «Io prenderò il suo posto». Era il 25 settembre 1943. Dopo un mese e mezzo, entra nel seminario di Cestello d’Oltrarno; il 13 luglio 1947 in Santa Maria del Fiore è ordinato sacerdote dall’arcivescovo, il cardinale Elia Dalla Costa.
La scintilla che fa esplodere l’identità pastorale di don Lorenzo e il suo modo di fare e trasmettere cultura s’innesca quando, ventiquattrenne, inizia la sua attività a Calenzano. Qui c’è l’impatto traumatico tra la presa d’atto del drammatico deficit culturale di tanti poveri e le istanze della sua scelta sacerdotale. Un conflitto che non si compone e che anzi si radicalizza facendo emergere con nettezza come la sua giustificazione ultima si fosse innervata in profondità nell’annuncio evangelico. Di qui l’affermazione — in apparenza inquietante — che d’un colpo spazza via l’obiettivo politico e ideologico a lui strumentalmente attribuito dai molti che tentavano di tiragli la veste: «Atea è per me la frase: noi non vogliamo cambiamenti se non avremo la sicurezza che i poveri ci guadagnino. A me non importa nulla che i poveri ci guadagnino (questo fatto non ha infatti nessun peso per la venuta del Regno), mi importa solo che gli uomini smettano di peccare. E l’ingiustizia sociale non è cattiva (per me prete) perché danneggia i poveri, ma perché è peccato cioè offende Dio e ritarda il suo Regno. (È la ricchezza e non la povertà che è un’offesa a Dio)» (Lettere di don Lorenzo Milani, a cura di Michele Gesualdi, Milano, Mondadori, 1970).
Già a Calenzano e ancor più a Barbiana, nel quotidiano rapporto con gli ultimi, don Lorenzo aveva lucidamente maturato l’equivalenza tra pastorale e scuola come fatto intrinsecamente cristiano. Un’istanza profondamente innovativa, anche perché maturata non nel distacco della elaborazione intellettuale, ma nella concretezza di un’azione pastorale, che nel vasto mondo dei tiepidi e dei prudenti arrecò turbamento e disappunto. In questo progetto anzi si volle cogliere il germe di un pericoloso processo eversivo e don Lorenzo pagò un prezzo altissimo con l’emarginazione nell’esilio di Barbiana e con il ritiro dal commercio del suo capolavoro Esperienze pastorali (Firenze, Libreria Editrice Fiorentina, 1958), uscito con l’imprimatur del cardinale Dalla Costa e la prefazione di Giuseppe D’Avack, arcivescovo di Camerino.
Ma i provvedimenti dell’autorità ecclesiastica non riuscirono a fiaccarne l’azione, anzi ne potenziarono l’intensità proprio con la mirabile e irripetibile esperienza di Barbiana, che sempre più appariva non già come esilio improduttivo ma come luogo emblematico di promozione umana. Un luogo, Barbiana, praticamente invivibile, privo di energia elettrica, di strade, di acqua corrente: un agglomerato di poche case (venti famiglie) sul monte Giovi nel cuore del Mugello. Qui, a contatto con un manipolo di reietti, nel migliore dei casi semialfabeti, elabora e definisce lucidamente la sua visione della formazione culturale, alla luce del più puro umanesimo integrale cristiano. I punti qualificanti di questa visione non derivano da un’elaborazione di segno politico-ideologico, ma dall’impatto drammatico con una dura realtà vissuta, così come è stata consegnata in centinaia di lettere, nel documento L’obbedienza non è più una virtù (1965), nei libri collettivi Lettera ad una professoressa (1967), ma anche nella scrittura, anch’essa collettiva, di un catechismo che non arrivò mai alla stesura definitiva: tutta la documentazione preparatoria fu infatti pubblicata postuma da Michele Gesualdi (Il catechismo di don Lorenzo Milani. Documenti e lezioni di catechismo secondo uno schema storico, Firenze, Libreria Editrice Fiorentina, 1983).
Barbiana è il luogo fisico, ideale e simbolico dove don Milani riesce a coniugare in sintesi perfetta fede, pastorale e trasmissione della cultura: «Quando avrai perso la testa come l’ho persa io, dietro poche decine di creature, troverai Dio come un premio. Ti toccherà trovarlo per forza perché non si può fare scuola senza una fede sicura» (Ernesto Balducci, L’insegnamento di don Lorenzo Milani, a cura di Mario Gennari, Bari-Roma, Laterza, 1995). E perciò, aggiungeva, «la scuola mi è sacra come un ottavo Sacramento. Da lei mi attendo (e forse ho già in mano) la chiave, non della conversione, perché questa è segreto di Dio, ma certo dell’evangelizzazione di questo popolo». Ma non mancava di precisare: «Non che io abbia della cultura una fiducia magica, come se essa fosse una ricetta infallibile, come se i professori universitari fossero automaticamente tutti più cristiani e avessero il Paradiso assicurato mentre il Paradiso fosse precluso agli indotti pecorai di questi monti. È che i professori se vogliono possono prendere in mano un Vangelo o un Catechismo, leggerli e intendere. Dopo poi potranno fare il diavolo che vogliono. Lì a Barbiana si agisce come “missionari dei sordomuti” (...) [che] fanno scuola della parola per anni e poi dottrina poche ore. E il loro agire è logico, obbligato, perfettamente sacerdotale» (Esperienze pastorali, pp. 200-203). E in questa linea si inserisce l’argomentazione che sostiene il suo modo di sentire e vivere la fede: «Quando una cosa ti è davanti agli occhi (...) non perdi tempo a rammentarla e descriverla e difenderla ogni cinque minuti. Nessuno scrive libri e fa conferenze (...) per dimostrare che di giorno c’è il sole e di notte c’è il buio. E così faccio coll’esistenza di Dio e la storicità del Vangelo» (Lettere di don Lorenzo Milani, p. 132).
I tredici anni trascorsi a Barbiana — dal 1954 al 1967, anno della morte — consumano irreparabilmente la fibra, non forte, di don Lorenzo: l’anno scolastico durava 365 giorni, non prevedeva ricreazione o vacanze e l’ambiente fisico in cui viveva non era certo dei più accoglienti. Dal dicembre del 1960 cominciano a manifestarsi i sintomi di un male inesorabile che, in quegli anni, non lasciava scampo. Negli ultimi mesi di vita tra sofferenze atroci non abbandonò la sua missione: «La mia malattia non pesa sui ragazzi e sulla scuola. Quando sto meglio faccio scuola da una poltrona a sdraio, quando sto peggio da una brandina (...) Non è una tragedia (anzi direi che è un modo molto comodo di far scuola) e poi ogni parola acquista un tono d’oltretomba che non disdice» (Lettere di don Lorenzo Milani, p. 241).
Degli ultimi suoi giorni di vita rimane — come epigrafe incisa sul marmo — il breve testamento lasciato ai suoi ragazzi. Una vera, bellissima, professione di fede: «Caro Michele, caro Francuccio, cari ragazzi, non è vero che non ho debiti verso di voi. Lo scrissi per dar forza al discorso. Ho voluto più bene a voi che a Dio, ma ho pensato che Lui non stia attento a queste sottigliezze e abbia scritto tutto al suo conto» (Lettere di don Lorenzo Milani, p. 284). Morì a Firenze il 26 giugno 1967, lasciando la disposizione di essere seppellito a Barbiana con indosso i paramenti sacri e ai piedi gli scarponi da montagna.
L'Osservatore Romano