sabato 25 gennaio 2014

Comunione ai divorziati, le risposte alla rivista dei Dehoniani. "Riammetterli all'Eucarestia passo necessario"

Comunione ai divorziati, le risposte alla rivista dei Dehoniani. "Riammetterli all'Eucarestia passo necessario"


Pubblicati sulla rivista Il Regno i risultati del sondaggio delle 38 domandedi ORAZIO LA ROCCA

"Tutti" i credenti cattolici devono avere la possibilità di essere ammessi a prendere l'ostia consacrata e a ricevere i sacramenti, non solo quelli regolarmente sposati, ma anche i separati, le coppie conviventi e i divorziati risposati. E' il fermo appello  -  destinato a far discutere dentro e fuori la Chiesa cattolica  -  che lancia Il Regno, uno dei più importanti mensili editi da una congregazione religiosa particolarmente attenta ai fenomeni sociali e alla formazione culturale, i Dehoniani.

Il mensile pubblica nel suo ultimo numero le risposte raccolte tra i suoi lettori al questionario su famiglia e morale sessuale distribuito lo scorso ottobre dal Vaticano in tutte le diocesi del mondo in preparazione del Sinodo mondiale sulla famiglia in programma il prossimo ottobre in Vaticano. Alla presentazione del questionario, il segretario del Sinodo, il prossimo cardinale Lorenzo Baldisseri, aveva preannunciato che le risposte dalle diocesi sarebbero arrivate entro la fine dell'anno scorso. Una iniziativa senza precedenti perché per la prima volta la Santa Sede, su evidente sollecitazione di papa Francesco, ho voluto sondare con le 38 domande poste nel questionario il parere della base cattolica (parrocchie, comunità, diocesi...) su tematiche delicate come la comunione ai divorziati risposati,  l'ammissione ai sacramenti a coppie di fatto e persone gay, e persino il matrimonio tra persone dello stesso sesso. Ma il cardinale Baldisseri lamentò pure che non tutti i vescovi diocesani, come pure qualche Conferenza episcopale, avevano accolto con entusiasmo l'arrivo dei quesiti, prevedendo possibili operazioni ostruzionistiche da parte delle aree più tradizionaliste della Chiesa. In realtà, il termine ultimo per la consegna delle risposte è scaduto da diverse settimane e dal Vaticano l'iniziativa sembra brancolare nel buio.

Ma ora, a rompere l'assordante silenzio sul sondaggio hanno provveduto i religiosi Dehoniani con  la loro storica rivista, pubblicando  -  in largo anticipo su quanto farà il Vaticano  -  le risposte dei suoi lettori. Risposte in verità sorprendenti di fronte alle quali le gerarchie ecclesiastiche non potranno certamente far finta di niente. ''La riammissione al sacramento dell'eucaristia di coloro che sono separati e conviventi, o divorziati e risposati è da tutti auspicata e per lo più ritenuta un passo necessario'', si legge infatti sul Regno. Nei questionari, sottolinea la rivista, ''viene stigmatizzato il rifiuto dell'Eucaristia legato all'esercizio della sessualità, perché è un segno che sembra squalificare la sessualità tout court''.
   
In nessun caso nelle risposte (date da lettori di età compresa tra i 20 e gli 87 anni) si parla però di ''diritto'' a ricevere il sacramento, anche se si fa notare, significativamente, che "se Dio è amore non c'è regolare o irregolare''. In particolare viene segnalato con una certa frequenza che la definizione di ''regolare'' o ''irregolare'' per i matrimoni (la domanda numero 6) rispetto al metro della misericordia  -  tanto cara a papa Francesco - è ritenuta inadeguata. E' come se - sottolinea l'articolo - Cristo dicesse ''a qualche peccatore: 'Sei irregolare'''. ''Molti - continua l'articolo - richiamano la prassi ortodossa che prevede la possibilità delle seconde nozze dopo un percorso penitenziale insistendo sull'idea che attualmente la Chiesa perdona ladri e assassini ma non i divorziati, che invece potrebbero trarre giovamento da un perdono specifico per i sentimenti negativi provati nei confronti del coniuge da cui ci si separa''. 

''Un coro unanime di voci - rileva 'Il Regnò - si leva contro la soluzione del problema tramite la semplificazione dell'iter previsto per la nullità (del matrimonio) ritenuta una via ''ipocrita'' per tre motivi: dal punto di vista legale, si rischia di non tutelare il coniuge debole nel momento della recezione o meno della sentenza da parte dell'ordinamento civile qualora non si preveda lo status di separato con il diritto agli alimenti; dal punto di vista delle conseguenze anche psicologiche che ricadono ad esempio sui figli, che si sentono dire che il matrimonio dei propri genitori 'non è mai esistito'; e infine perché i motivi di nullità tendono ad allargarsi a dismisura... Qualcuno continua a pensare che sia un percorso riservato ai ricchi''. 

''Al Sinodo, in definitiva - riassume la rivista dehoniana - questo gruppo di credenti chiede che ''prospetti linee metodologiche ampie, che ridisegni una dottrina non massimalistica del matrimonio che sappia salvaguardare l'annuncio del Vangelo secondo il desiderio e il dovere degli uomini; che inserisca la vocazione alla fecondità delle famiglie e di ogni battezzato e battezzata in una più ampia prospettiva sociale, come accade con l'affido e l'adozione, e non l'intenda semplicemente come promozione di una risposta alla crisi della natalita'; che valorizzi le famiglie nella cura della vita nascente, malata, morente ma anche presente, inventando nuove forme di socialità e di vicinato; che rifletta sui mutamenti radicali avvenuti all'interno delle famiglie, sui rapporti tra uomo e donna e tra lavoro di cura e vita professionale fuori dalle pareti domestiche. Che proponga l'annuncio del Vangelo non alle famiglie ma con le famiglie''. ''Grazie al questionario e al percorso verso il prossimo Sinodo dei vescovi, a quello - conclude l'articolo - che era stato definito da Pietro Prini lo 'scisma sommersò è stata offerta la possibilità di venire a galla e mostrarsi per quello che e': un arcipelago di isole e isolotti al quale occorrono ponti per mappare in quali di essi ci siano forme nuove di vita''.


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Mutare la dottrina, si può e si deve

Nelle parole del teologo novatore Mancuso, ecco la posta in gioco

“Se non entrerà in gioco il concetto di famiglia, non so a cosa possa servire il Sinodo. La questione di fondo è proprio questa, l’ha detto anche Maradiaga nella recente intervista concessa al quotidiano tedesco Kölner Stadt-Anzeiger”. Il teologo Vito Mancuso è rimasto impressionato dalle parole del porporato honduregno, “mi ha colpito la libertà della mente che il suo incedere aveva, e di questo c’è molto bisogno, soprattutto nella chiesa”, dice al Foglio. “Serve parresìa, franchezza nel dire le cose, pur avendo sempre rispetto verso la persona verso cui le si dice. C’è necessità di dire le cose in maniera netta, franca. Cosa che oggi non si vede più troppo spesso”. Maradiaga parla di nuova èra, si richiama al Vaticano II, “quasi ci fosse bisogno di riprendere quella musica dopo l’ouverture interrotta. E’ penetrante quell’immagine dell’aria fresca”, aggiunge Mancuso. Il cuore della faccenda è che “il genere di famiglia descritto dalla Familiaris Consortio, l’esortazione giovanpaolina del 1983, non esiste quasi più. Ci sono altre situazioni, oggi, che ambiscono ad avere la qualifica di famiglia, e ciò sarebbe opportuno e giusto”. Maradiaga, nell’intervista, parla di genitori separati, famiglie allargate, genitori single. Cita il fenomeno della maternità surrogata, i matrimoni senza figli, le unioni tra persone dello stesso sesso. “Più queste forme di unione vengono stabilizzate, più gli individui interessati ne trarranno del bene. Ricordiamo che il compito ultimo della chiesa è proprio quello, il bene. Ecco perché – aggiunge il teologo – il concetto di famiglia deve entrare nel dibattito sinodale. E questo senza paura di aprirsi troppo né di mostrarsi sempre necessariamente accondiscendenti verso la realtà”.
Quanto al confronto sul riaccostamento dei divorziati risposati ai sacramenti, con il custode dell’ortodossia cattolica, Gerhard Müller che dalle pagine dell’Osservatore Romano invita a non banalizzare la misericordia divina e Maradiaga che ricorda come le parole di Cristo possano essere interpretate, Mancuso non ha dubbi: “Le parole di Cristo si sono sempre interpretate. Se non si vuole cadere nel fondamentalismo delle sette, è inevitabile esporsi al rischio (che è anche fascino) dell’interpretazione. Si è sempre fatto così. Basti pensare che le parole di Cristo già sono consegnate a noi come interpretazione, le ipsissima verba Iesu quasi non esistono, Gesù parla in modo molto diverso nei vari vangeli. Direi quindi che l’interpretazione non è certo un pericolo ma è specifico dell’identità cristiana”. Nel mondo della vita spirituale, aggiunge il nostro interlocutore, “nulla si fa senza il rischio di interpretazione”. E’ inevitabile, poi, che – come dice Maradiaga – si pensi più alla pastorale che alla dottrina: “Nel discorso d’apertura del Concilio, Giovanni XXIII distinse tra la dottrina certa e immutabile e il modo per renderla comunicabile all’altezza delle esigenze contemporanee. La pastorale è proprio questo, è il tentativo di rendere comunicabile la dottrina all’uomo contemporaneo”, spiega Mancuso. Certo, “ho dei dubbi che questo possa avvenire senza toccare la dottrina, anche se i vescovi non ammetteranno mai un mutamento dottrinale, diranno che si tratta semmai di normale evoluzione”, aggiunge. “Ma è inevitabile che ci debba essere un cambiamento di prospettiva, anche clamoroso. Se si è fedeli all’esigenza dei tempi, questo è inevitabile”. Niente di totalmente inedito però: “Anche in passato si è fatto così. E’ già successo – spiega il teologo –, solo che la chiesa ha negato che si trattava di rottura, parlando di naturale evoluzione”. Un esempio? “La questione della libertà religiosa. Aveva ragione Marcel Lefebvre nel dire che c’è stato un effettivo disconoscimento del Sillabo e della Mirari Vos di Gregorio XVI e, più in generale, di tutto un magistero secolare della chiesa. Non ci sono dubbi che la Dignitatis Humanae ha compiuto una svolta mettendo l’accento sulla libertà di coscienza del singolo e non sulla verità oggettiva”. Qualcuno potrebbe parlare di “tattica del camaleonte, ma sbaglierebbe. Perché è solo un modo per dire che l’insegnamento di Gesù è sempre attuale”.
“Se la chiesa non muta – aggiunge Mancuso – non vive. Vogliamo qualcosa di immutabile? Bene, prendiamo una pietra. Se la chiesa vuole vivere, deve mutare”.
Quanto alle frasi del prefetto Müller sulla misericordia che deve andare sempre di pari passo con la giustizia – “al mistero di Dio appartengono, oltre alla misericordia, anche la santità e la giustizia; se non si prende sul serio la realtà del peccato, non si può nemmeno mediare alle persone la sua misericordia”, scriveva sull’Osservatore Romano – Vito Mancuso dice che “la misericordia vera sa, conosce le ferite delle persone”. La strada, aggiunge, “è quella che porta al primato della misericordia. O vogliamo dire che chi ha un matrimonio fallito ha commesso un peccato? Semmai è un errore, ma non ci sono i presupposti per parlare di peccato”. A ogni modo, sottolinea il nostro interlocutore, “ciò non significa che si debba avere un’idea troppo sbarazzina della misericordia. Questa non va contrapposta alla giustizia, ma non può esserci giustizia senza misericordia. Altrimenti si cade nel giustizialismo, nel terrore, nel giacobinismo freddo e spietato. Troppo spesso, oggi, appare solo la parte fredda e oggettiva”. Ma qualcosa, dice, sta cambiando. Con l’ascesa al Soglio pontificio di Francesco, sta venendo meno l’idea di una dottrina “troppo canonistica e legalistica.  L’idea di un’etica cristiana che si traduceva in una serie di no”. Il prossimo passo sarà quello di far entrare il principio della libertà anche nella lettura del corpo, “come è già avvenuto a livello di ideologia morale e sociale, generando una dottrina capace di parlare all’uomo contemporaneo”. In assenza di questo passaggio, la dottrina morale prodotta rimane incomprensibile.
Matteo Matzuzzi (Il Foglio)