mercoledì 23 aprile 2014

LA MIA PRIMA FINE DEL MONDO


foto fr Ettore dito 
di Emanuele Fant
Quando, dalla casa editrice Monti, mi hanno chiesto di scrivere un libro su fratel Ettore mi è preso un colpo. Sapevo che un bravo giornalista, e addirittura suor Teresa (l’erede del frate) stavano già facendo lo stesso. Il primo si spostava per l’Italia nei luoghi-chiave della biografia, si immergeva per ore nell’archivio della comunità di Seveso, intervistava i testimoni con lo zelo dell’investigatore. La seconda aveva vissuto dieci anni a fianco del famoso camilliano dei poveri.
“E io chi sono?”
Inizialmente ho programmato di seguire con gli occhiali e i baffi finti il giornalista famoso, citofonare di nuovo ai suoi testimoni, elemosinando ancora qualche briciola di ricordi di seconda mano. Poi mi è parso meno rischioso dare a intendere che io, in alcuni sabati di volontariato, ero stato in grado di raggiungere un’intima comunione con il religioso, che mi aveva praticamente eletto vice-erede designato, in caso di malore della suora.
Infine mi sono rassegnato alla realtà: fratel Ettore non è mai riuscito, nemmeno, ad imparare il mio nome.
Se di omaggio si doveva trattare, dovevo provare a non tradire la regola più importante che il mio eroe mi aveva mostrato: spogliarsi fino essere veri, non rende vulnerabili, ma il contrario. Allora ho dato fondo al mio forziere di ricordi, di aspirazioni, di delusioni, di passi fatti avanti o indietro. Ho mescolato, ed ho ottenuto un racconto che, bello o meno, ha un pregio di sicuro: è quello che solo io potevo raccontare.
***
cover_lamiaprimafinedelmondo

una anteprima de LA MIA PRIMA FINE DEL MONDO (editrice MONTI – 2014)

Quando il primo giapponese, con la prima cinepresa, ebbe accesso al Duomo di Milano appena inaugurato, non provò un quarto della mia emozione entrando in quel tempio.
Il Rifugio di fratel Ettore era la vetta sensibile della sua creatività illuminata, negava la teoria di quel pensatore che dava all’architettura l’ultimo posto tra le arti. Chi era il pensatore? Nessuno, di fronte a un tale spettacolo.
L’atmosfera altra dal mondo che avevo assaggiato nella macchina, ora prendeva più spazio e mi mostrava la sua casa, facendo le capriole tra le grandi volte a botte. Sopra al tetto, a intervalli, si sentivano passare i treni. Nei vagoni immaginavo passeggeri storditi dal caldo e infastiditi dal contatto con il gomito del vicino. Io gelavo e mi calpestavano. Ma soprattutto, a differenza di loro, ero arrivato.
Il re degli straccioni ci mise a sedere sui letti sparsi ovunque, che divennero panche. Qualcuno, riscaldato dai nostri sederi, dormiva di già. Salì sull’altare, in fondo all’hangar. Baciò il bambino Gesù, poi strinse la mano di gesso della Madonna, e salutò san Giuseppe, come dicendo: “Tu sì che mi puoi capire”. Si avvicinò al microfono e già eravamo sicuri di come sarebbe finita: “Chi dice la prima Avemaria?”
Se gli operai della torre di Babele avessero avuto la stessa fissazione del nostro frate, nel loro cantiere si sarebbe sentito un rosario con meno idiomi di questo. Alla faccia del dialogo tra le religioni, qui c’era un incontro di sumo. Scoprimmo come si invoca la Madonna in ucraino, in albanese, in polacco, in arabo, in dialetto calabrese. E, in quanto unici portavoce, fummo costretti a fare la decina in italiano.
Non credevo che sarei arrivato a trovarmi in testa i pensieri di un animatore dell’oratorio estivo, ma, dopo aver pregato insieme, notai che sembravamo una famiglia a cena dopo una vita di lavoro, nella gioia e nella luce.
“Voi tre, con me!” gridò il capo quando avevamo appena trovato il coraggio di addentare un coniglio ancora col codino.
La santa inquietudine di fratel Ettore si manifestava così. Appena si tirava il fiato, appena le cose andavano un po’ bene, lui doveva ritrovare il contatto con il dolore e la fatica. Non conosceva sedie senza sopra le puntine, e non dormiva di notte, mangiava in piedi, regalava le scarpe nuove. Da decine di anni, uno sproporzionato post-it gli ricordava di continuo che lui, proprio in quel momento, era atteso altrove. E di solito, l’altrove, puzzava di escrementi e di cancrena.
Ci gettammo di corsa nel buio di via Sammartini, costeggiando i binari rialzati. Il suo grosso telefono portatile non era nemmeno squillato, ma lui aveva sentito coi superpoteri che una nuova emergenza aspettava. Arrivammo all’ingresso della Stazione Centrale, dove transessuali venuti così cosi e spacciatori nervosi salutarono il religioso, offrendogli un sigaro. Fratel Ettore guardò le finte donne con compassione, commosso, come si osserva uno sfregio gratuito alle idee del proprio Creatore. Poi diede rosari a tutti, benedicendo e chiedendo preghiere.
E via, verso i binari.