martedì 27 maggio 2014

Gli ostacoli rimossi...

La Stampa, 27 maggio 2014
di ENZO BIANCHI

L’incontro tra il successore di Pietro e quello di Andrea avviene all’esterno della basilica del Santo Sepolcro: papa Francesco appare visibilmente commosso, lo sguardo assorto e intenso che sempre contraddistingue il suo stare in preghiera silenziosa lascia trasparire qualcosa tra lo stupore e la convinzione di aver desiderato e di accingersi a compiere ciò che il vangelo gli chiedeva di compiere. Prima dell’abbraccio liberatore al patriarca Bartholomeos di fronte al mondo intero c’era stata la firma della dichiarazione comune e un incontro più riservato, c’era stato l’assaporare la gioia di ritrovarsi con un fratello nella fede e nel ministero primaziale con il quale si condividono attese e speranze.
Ora si tratta di entrare insieme là dove tutto ha avuto inizio, attorno a un sepolcro vuoto; ora è il momento di esprimere a voce alta e di fronte a tutti quello che finora era rimasto sulla carta di un’enciclica – la Ut unum sint di Giovanni Paolo II – decisiva ma poco recepita: la ferma volontà di “mantenere un dialogo con tutti i fratelli in Cristo per trovare una forma di esercizio del ministero proprio del vescovo di Roma che, in conformità con la sua missione, si apra a una situazione nuova e possa essere, nel contesto attuale, un servizio di amore e di comunione riconosciuto da tutti”. Ed è là, in quei pochi metri quadri in cui è racchiusa la memoria dell’intera storia di salvezza confessata dai cristiani che papa Francesco manifesta la convinzione rocciosa di chi compie gesti e pronuncia parole in obbedienza al vangelo e a nient’altro.
È la stessa radicalità evangelica che ritroviamo sui luoghi più tragicamente significativi del dialogo con il mondo ebraico: il Muro occidentale, dove papa Francesco rinnova il gesto di infilare tra le pietre il biglietto con una preghiera che solo l’orante e il suo Signore conoscono, e a Yad Vashem, il memoriale delle vittime della shoah. Lì il papa pronuncia una meditazione-preghiera di straordinaria intelligenza spirituale, ribaltando la domanda angosciante di quanti di fronte al genocidio degli ebrei sono stati e sono tentati di chiedersi “Dio, dove sei?”. Il grido ripetuto del vescovo di Roma è invece quello stesso di Dio nella Genesi: “Adamo, dove sei? Uomo, dove sei?”.
Questo è l’interrogativo decisivo che dobbiamo porci nella memoria di un tale abisso di male! Perché nei molti genocidi che abbiamo conosciuto nel XX secolo – in Armenia, ma anche in Ruanda e Burundi, in Cambogia, nella ex-Jugoslavia... - e soprattutto nello sterminio del popolo di Israele è la nostra umanità che si è resa mostruosa, bestiale, incapace di riconoscersi, stravolta in una violenza inimmaginabile, in un delirio di malvagità di inaudito orrore. Da questa consapevolezza sgorgano le parole della preghiera di papa Francesco in quel luogo “della memoria e del nome”, ispirate dalla supplica del profeta Baruc: “A te, Signore, la giustizia, a noi il disonore e la vergogna!”, parole che poi riprendono la confessione dei peccati celebrata in San Pietro durante il Giubileo: “Mai più, Signore, mai più!”.
È il rinnovarsi di un impegno che i cristiani assumono di fronte a Israele e all’umanità intera: “mai più!” una tale eclissi dell’immagine e somiglianza di Dio impressa nell’essere umano. Questo rifiuto di imputare a Dio l’orrore compiuto dall’uomo riecheggia anche sulla spianata del Tempio, luogo santo per i musulmani e santissimo per gli ebrei, che vi vedevano la presenza di Dio sulla terra, la shekinah. Per la prima volta un papa vi è salito, non certo per violarne la sacralità, ma per rivolgersi ai “fedeli musulmani, fratelli cari”; non per pregare ma per fare memoria di Abramo padre dei credenti – ebrei, cristiani e musulmani – per confessare che di fronte al mistero di Dio siamo tutti poveri, tutti mendicanti e quindi tutti chiamati ad amarci come fratelli e sorelle, a discernere negli altri la sofferenza che li abita, a difendere il nome di Dio dalle strumentalizzazioni idolatriche di quanti ne danno un’immagine violenta e perversa.
Allora, lavorare per la pace e la giustizia e farlo insieme è un dovere che discende dall’essere figli di Abramo. Un’invocazione silenziosa alla pace e alla giustizia si era levata anche a Betlemme, di fronte al muro di separazione costruito per dividere due mondi: papa Francesco vi ha sostato, appoggiando la testa su quell’emblema dei tanti muri che gli uomini nel corso della storia sono stati capaci di elevare tra se stessi e i propri simili. Nessuna protesta, nessuna accusa, ma un silenzio orante e un semplice segno di croce, a ricordare che Cristo è venuto ad abbattere ogni muro di divisione e a ristabilire la comunione, con Dio e tra di noi. E a ribadire che compito di un pastore cristiano è quello di edificare ponti e non muri.
Se bilancio vi è da trarre da questi tre giorni di grande intensità spirituale, non possiamo calcolarlo secondo parametri di efficienza mondana: ci sono gesti, parole e persone che toccano e cambiamo innanzitutto i cuori. Così a Gerusalemme non si sono prodotti “fatti” nuovi, ma lo stile diretto, franco, evangelico di papa Francesco ha immesso un soffio rinnovato nel cammino intrapreso cinquant’anni or sono nel dialogo della carità tra cattolici e ortodossi, ha riaffermato l’anelito alla pace e alla giustizia, ha ribadito l’impatto della preghiera dei credenti come componente della storia. Davvero uomini e donne di fede e di preghiera sono capaci di rimuovere ostacoli grandi come montagne e di indicare e preparare le vie del Signore.

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Gesto profetico oltre i negoziati
Avvenire, 27 maggio 2014
PAOLO LAMBRUSCHI intervista ENZO BIANCHI

Seguita dalla comunità monastica di Bose la storica visita di Francesco in Terra Santa, così carica di gesti concreti e simbolici, ha suscitato speranza e gioia. Il priore Enzo Bianchi ci parla dei momenti a suo avviso più significativi.
Il Papa ha invitato israeliani e palestinesi a Roma per fare finalmente pace. Cosa ne pensa?
Questo mostra bene quali siano il pensiero e il cuore di papa Francesco. Vuole la pace, ma non si pone come un leader politico. Chiama invece Israele e i palestinesi a pregare con lui in Vaticano, riconoscendo che si è tutti figli di Abramo, ma che in una vicenda come quella in atto in Terra Santa - in cui si può solo procedere a una riconciliazione e ad un perdono reciproco - l'unica strada cominciare a invocare il Signore e a pregare insieme. La pace non passa solo dai negoziati. Mi è sembrato il gesto più creativo mostrato in questo viaggio dal Papa, un gesto profetico altissimo.
Parlando ai musulmani alla Spianata delle Moschee, il Papa ha detto che non dobbiamo più usare il nome di Dio per combattere...
Ha ricordato che tutte le immagini date a Dio attraverso la violenza sono perverse e idolatriche. Lo ha detto alla Spianata del Tempio proprio mosso dalla convinzione - senza entrare in questioni politiche - che la violenza da ogni parte deve cessare. Perché nel nome di Dio si combatte da tutte le parti, non possiamo incolpare solo il terrorismo islamico, ad esempio quando c'è violenza anche da parte di alcuni ebrei ortodossi. Dicendo basta alla violenza e alla strumentalizzazione del nome di Dio per giustificarla, Francesco ha ribadito che la sola via da percorrere è quella del perdono.
Secondo lei è un passo avanti verso la riconciliazione anche l'appello agli israeliani a custodire i Luoghi Santi?
Si, è importante perché implica la custodia di un patrimonio che in misura diversa appartiene a tutte e tre le religioni dei figli di Abramo. Abbiamo tutti un dovere di protezione verso quella terra e verso l'altro. E alla fine così proteggiamo anche noi stessi.
Che significato hanno le parole 8ulla Shom pronunciate a Yad Vashem ?
È stato un momento straordinario. Con quello stile che ormai abbiamo imparato a conoscere, il Papa ha dato una lezione a tutti dicendo di smetterla di chiedersi dove fosse Dio durante l'Olocausto. Ci si domandi invece con chiarezza dove fosse l'uomo. In quella meditazione-preghiera Francesco domanda: dove sei uomo, dove sei finito? E per rispondere a quanti chiedono dove era Dio in quei momenti terribili, ha usato le parole del profeta Baruc “A noi umanità la vergogna, a le Dio la giustizia.” Si riferiva a tutte le tragedie dell'uomo contemporaneo.
Per cos' altro passerà alla storia questo viaggio?
Per l'incontro, anche questo molto importante con il patriarca Bartolomeo, dove Francesco non ha solamente confermato il passato, ma ha ripreso in maniera pubblica - ed è la prima volta che avviene -quello che nel 1994 aveva detto Giovanni Paolo Il nell'enciclica “Ut unum sint”. E cioè la disponibilità a ridiscutere la forma dell'esercizio del papato. E lo ha ripreso come impegno vero davanti agli ortodossi. Credo che dalla Terra Santa arrivi un nuovo soffio per l'ecumenismo.

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Quei segnali del Papa su Sinodo e scandali finanziari


Analisi dell'intervista di Francesco: il summit con Peres e Abu Mazen, il dibattito sui divorziati risposati, il ruolo della Segreteria di Stato, il fastidio per gli scandali finanziari

ANDREA TORNIELLICITTÀ DEL VATICANO
Ci sono passaggi dell'intervista di Papa Francesco con i giornalisti del volo Tel Aviv - Roma che aiutano a comprendere il suo pensiero su alcuni dei temi più dibattuti del pontificato e su quanto emerso dai tre giorni vissuti in Terra Santa.

In primo luogo, dalle sue parole, anche quelle dedicate all'incontro di preghiera convocato in Vaticano con i presidenti israeliano e palestinese, si conferma l'approccio spirituale e non politico del Pontefice al problema del conflitto tra i due popoli. Francesco nell'intervista si è rifiutato di esprimere opinioni sul possibile futuro di Gerusalemme, chiarendo che «sarebbe una pazzia» da parte sua farlo. Ha confermato che l'incontro con Abu Mazen e Peres sarebbe dovuto avvenire durante il viaggio in Terra Santa e ha ribadito che nei prossimi giorni in Vaticano il Papa e i due presidenti si ritroveranno insieme per pregare per la pace, non per tracciare una nuova road-map di negoziati. Il Papa crede nella forza della preghiera, come ha già dimostrato con la veglia e il digiuno per la Siria dello scorso settembre. E nell'intervista ha spiegato che anche i gesti compiuti - le preghiere silenziose davanti al muro che separa la Cisgiordania da Israele, quella davanti al muro che ricorda le vittime del terrorismo o il commovente baciamano ai sopravvissuti della Shoah, non sono stati pensati e studiati in anticipo.


Un altro aspetto significativo è quello degli scandali finanziari. La domanda partiva dalle polemiche per l'appartamento del cardinale Bertone, citava la clamorosa perdita di 15 milioni di euro contabilizzata dallo Ior per un investimento nella Lux Vide di Bernabei voluto sempre da Bertone e infine menzionava il buffet per vip organizzato sulla terrazza della Prefettura per gli affari economici della Santa Sede in occasione della canonizzazione di Papa Giovanni e Papa Wojtyla. 

Francesco ha detto che bisogna far sì che certe cose non si ripetano. E ha spiegato come la questione della perdita di 15 milioni sia ancora «sotto studio», confermando così che, pur in assenza di formali inchieste penali della magistratura vaticana, il caso è sotto osservazione. Colpisce pure che il Papa - pur avendone l'occasione - non abbia difeso il cardinale Bertone, il quale invece aveva tenuto a dire pubblicamente di aver ricevuto una telefonata di solidarietà del Pontefice. Solidarietà che ieri, durante la conferenza stampa, non è stata espressa.

Non deve poi sfuggire il fatto che Francesco abbia citato più volte la neonata Segreteria per l'economia, guidata dal cardinale australiano George Pell, come antidoto agli sprechi di denaro e anche agli scandali. Ma abbia precisato - sottolineatura non causale - che il nuovo «ministero delle Finanze» vaticano lavora «insieme con la Segreteria di Stato». Una frase en passant, riferibile al peso maggiore del Segretario di Stato Pietro Parolin che il Papa vuole al suo fianco e sempre più coinvolto anche nelle questioni economico-finanziarie.

Rispondendo a una domanda sulla possibilità, in futuro, di rinunciare al pontificato come ha fatto il predecessore, Francesco ha fatto capire chiaramente di non aver deciso nulla in merito. E al tempo stesso ha spiegato che grazie alla strada aperta da Benedetto XVI, la rinuncia nel caso non si abbia più la forza di reggere il peso del ministero, è più facile e meno traumatica per i successori.

Una domanda riguardante il celibato conteneva anche una citazione della lettera di alcune donne che hanno avuto o hanno relazioni con sacerdoti, lettera che il Papa annuendo ha fatto cenno di conoscere (e sulla cui autenticità non ci sono dubbi, con buona pace di qualche ideologico commentatore). Francesco ha risposto in modo semplice e chiaro ribadendo quanto da lui già affermato nel libro scritto con il rabbino Skorka. Il celibato sacerdotale non è un dogma, ci sono preti sposati nella Chiesa cattolica (nei riti orientali, negli ordinariati anglo-cattolici), ma il Papa lo considera un dono per la Chiesa stessa e pur avendo spiegato che sarebbe possibile discuterne, ha lasciato intendere che non è in agenda a breve un cambiamento al riguardo.

Un altro passaggio significativo è stato quello riguardante i divorziati risposati. Bergoglio ha ricordato che la relazione del cardinale Walter Kasper al concistoro dello scorso febbraio conteneva vari capitoli sulla famiglia, ma l'attenzione di tutti si è focalizzata soltanto su quello dedicato alla pastorale per i divorziati che vivono in una seconda unione. Al di là del dibattito sinodale, che qualcuno vorrebbe chiudere e predefinire fin da subito, il Papa ha detto a chiare lettere di non aver apprezzato gli interventi degli ecclesiastici - per lo più cardinali - che sono scesi in campo pubblicamente contro l'ipotesi di Kasper focalizzandosi soltanto sul tema della comunione ai divorziati risposati e non sul tema più generale della famiglia.
Infine, non deve sfuggire la conferma del viaggio nello Sri Lanka e nelle Filippine nel gennaio 2015, il quarto viaggio internazionale di Francesco, che il prossimo agosto sarà in Corea del Sud. Due viaggi in Asia. In particolare, colpisce che la tappa filippina sarà nella regione colpita dallo tsunami. Ancora una volta, anche nella scelta dei viaggi - come peraltro dimostrano anche le trasferte italiane a partire da Lampedusa - il vescovo di Roma mostra di privilegiare le periferie.