lunedì 30 giugno 2014

Martedì della XIII settimana del Tempo Ordinario



In quel tempo, essendo Gesù salito su una barca, i suoi discepoli lo seguirono. Ed ecco scatenarsi nel mare una tempesta così violenta che la barca era ricoperta dalle onde; ed egli dormiva.
Allora, accostatisi a lui, lo svegliarono dicendo: «Salvaci, Signore, siamo perduti!».
Ed egli disse loro: «Perché avete paura, uomini di poca fede?» Quindi levatosi, sgridò i venti e il mare e si fece una grande bonaccia.
 (Dal Vangelo secondo Matteo 8, 23-27)
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La vita è una traversata sul mare, immagine della morte. "Passare" in ebraico si dice HBR, da cui deriva “ebreo”: i fratelli maggiori, sul cui “passare” siamo stati innestati: “Dietro Gesù … l’evangelista … desidera che risuoni nelle orecchie dei discepoli il nome di “ebreo”. Desidera che i suoi ascoltatori abbiano l’intelligenza dell’indispensabile coesione della loro vita. Essi debbono attraversare fisicamente, concretamente, il mare. Simultaneamente dovranno forgiare la loro tenuta spirituale per andare avanti. Dire spirituale significa dire il loro respiro del vento di Dio. Qui appunto, c’è tutto: il vento, il mare, il pericolo, le onde marine, la tempesta di vento… Allora l’evangelista forma in greco un verbo nuovo, “diegeiro”, per dire svegliare. Impossibile da tradurre letteralmente, questo verbo ha l’accento ebraico di “passare”. Dunque, i discepoli che sono nella barca di Gesù lo svegliano… Lo chiamano…. E quando si sarà “svegliato sarà passato di là”, e tutte le cose si saranno placate, quando ci sarà la calma, l’evento non finirà lì. La “traversata” continuerà con la domanda di Gesù, alla maniera della Torah…”Dove sei?”. Gesù dirà: “Uomini di poca fede, perché avete paura?”, Come dire: “ Ebrei, dove siete? Avete dimenticato di sentire il vostro nome? Avete dimenticato il vostro nome, la vostra vita?” (M. Vidal). La stessa domanda che oggi prorompe nella nostra vita: “Perché avete paura?”. Perché siete ancora senza fede? Perché siamo ancora schiavi, atterriti dalla paura di morire, ecco perché; siamo incatenati. La "barca", che è anche immagine della la nostra vita, è percorsa da tempeste violente. In greco si trova “grande sisma”, lo stesso vocabolo usato nei racconti della crocifissione per il terremoto occorso alla morte di Gesù. La barca è, dunque, anche immagine del legno della Croce. Le simbologie si intrecciano: la Chiesa, la Croce e la nostra vita. La nostra vita è una traversata verso il Cielo, da compiere crocifissi con Cristo nella Chiesa, mentre intorno e dentro di noi è il terremoto, la tempesta delle tentazioni, delle sofferenze, dei peccati. Acqua, acqua che qualcuno ci rovescia addosso, e sembra sommergerci senza lasciarsi scampo. Ma la "barca" non è fatta per affondare; così è la nostra vita, spinta da Gesù nel mare, "assicurata" contro ogni intemperie dalle sue parole che ci hanno promesso che nessuna tentazione sarà mai superiore alle nostre forze. La nostra vita “passa”, infatti, attraverso questo mondo a cui non apparteniamo, e per il quale siamo stranieri e pellegrini; solchiamo "il mare", ma è per andare all'altra riva. Non è quell'acqua il nostro destino, neanche quando c'è bonaccia. Non lo sono le "onde", anche se ci stanno abbracciando, violente. All'inizio era una brezza soave, ma poi rapidamente s'è fatto vento gagliardo, e il cielo s'è tinto di nero, e le onde si sono rizzate come bastioni  insormontabili, e secchiate d'acqua, che una mano invisibile ha cominciato a rovesciare dentro la barca. Ed è così che si insinua il demonio. E non basta averne l'esperienza; come Pietro esperto del lago di Tiberiade non poteva nulla contro l'infuriare della tempesta, così neanche noi, pur essendo caduti tante volte nelle lusinghe e trappole del demonio, e sapendole riconoscere, abbiamo la forza per resistere quando si getta su di noi con furia improvvisa. Quando si scatena una "tempesta così violenta che la barca si ricopre di onde", stanne certo, è opera del demonio. La barca non deve arrivare al porto; ed era un porto speciale quello al quale erano diretti Gesù e i suoi apostoli. Era nella regione dei Garadeni, in piena Decapoli, terra pagana, territorio del nemico, perché il "mondo giace sotto il potere di satana". Gesù lo stava andando ad attaccare, per così dire. E lui non poteva restarsene con le mani in mano. Doveva difendersi, doveva impedire a Gesù di compiere la sua missione, che coincideva proprio con la sconfitta definitiva del demonio e della morte. Quella"tempesta", dunque, non era come le altre. Nessuna delle tempeste che infuriano sulla "barca" di Gesù e Pietro, repentine e violente come quelle che accadono sul mare di Galilea, è davvero improvvisa: quella "barca" le attira, come il miele attira le api... Per questo Gesù "dorme". Non lo sorprende, neanche quando la barca si riempie d'acqua si sveglia. Lui aspettava quella tempesta, e sapeva che l'unico modo per passarci dentro indenni era dormire: sapeva che il demonio vi si nascondeva, come in tutta la sua vita come nella Passione, e l'unico modo per compiere la sua missione sarebbe stato "reclinare il capo" sulla Croce come aveva velatamente annunciato allo scriba dell'episodio precedente, e addormentarsi nella morte. Per questo quando si sveglia rivolge agli apostoli una domanda che potrebbe suonare beffarda: "perché avete paura?". Ma come, stiamo per affondare e tu ci chiedi perché abbiamo paura? Essi erano "uomini di poca fede", non avevano compreso nulla di quello che stava accadendo. Perché la "fede" è entrare con Cristo nella tempesta e mettersi a dormire! E', concretamente, addormentarsi con Lui nella morte che oggi ci attende, lasciando che le "onde ci ricoprano", perché, ed è il cuore del cristianesimo che batte nel Mistero Pasquale di Gesù, per "passare all'altra riva" occorre affondare. Per avere la vita in abbondanza bisogna perderla; per vivere bisogna morire. Gesù "dormiva" perché sapeva che per raggiungere il mondo pagano e liberarlo dal potere del demonio doveva lasciare che le onde lo ricoprissero sino a togliergli la vita! Solo allora avrebbe potuto scovare il demonio a casa sua, nel suo quartier generale, e farlo saltare una volta per tutte , e sterminare la "legione" con i suoi ufficiali e generali, e con loro il principe de demonio. Le parole che Egli usa per placare il mare sono, infatti, le stesse usate dagli evangelisti nei racconti degli esorcismi. Le stesse che, nella versione greca della Settanta, presentano il gesto di Yahvè che con l’onnipotenza della sua parola prosciuga le acque del Mar Rosso (Cfr. Nota a Mt. 8, 26 de “La Bibbia. Nuovissima Versione dai Testi Originali”). Gesù aveva una missione che gli apostoli non avevano capito: erano stati chiamati, ma per essere apostoli dovevano ricevere lo Spirito Santo che plasmasse in loro lo stesso cuore e la stessa mente di Gesù. Avevano bisogno di camminare ancora per ricevere la natura nuova di Cristo, senza la quale ogni chiamata è destinata ad essere frustrata. Avevano bisogno di fede, per vivere crocifissi con Cristo, e con Lui morire per dar morte al signore della morte. La missione di Pietro e della Chiesa, infatti, è la stessa di Gesù: "sciogliere" sulla terra quello che Lui ha sciolto per sempre, perché gli uomini possano entrare, liberi, nel Cielo preparato per loro "sin dalla fondazione del mondo". Per questo la "barca" sarà sempre attaccata dal demonio. Se nella Chiesa c'è fede, saprà riconoscere la tempesta e si metterà a "dormire" con Cristo! Entrerà nella storia, nel martirio e nella sofferenza che suppongono l'annuncio del vangelo e l'esorcismo del mondo. E' opera impossibile all'uomo, per questo gli uomini della Chiesa devono addormentarsi per lasciar spazio all'opera di Dio. Come Gesù, con Gesù. Perché è nella debolezza che si manifesta pienamente la potenza di Dio, scriveva San Paolo. E' nella prostrazione del Getsemani, nel corpo offerto al flagello, agli sputi, alle ingiurie e alle calunnie, al legno della Croce; è nel sonno della morte che il Padre ha agito con onnipotenza in quell'impotente corpo del suo Figlio. E tutti noi siamo il frutto eterno di quel mistero, annunciato in quel sonno di Gesù tra le onde del mare. E siamo con Lui e per Lui in questa generazione, per compiere a sua missione. E’ Lui che ci ha spinti a salire sulla barca, Lui ci ha attirato a sé con il suo amore e la sua misericordia. Ci ha messi in cammino, con noi ha iniziato la traversata. E ora "dorme", proprio mentre infuria la "tempesta" a casa, in ufficio, con la fidanzata, con i soldi e la salute. Come lo sposo del Cantico dei Cantici, ha bussato alle nostra porta ma poi s’è nascosto. Le onde, il sisma che scopre il fondo del mare, l’inganno che ci ha sedotto e tenuto schiavi, la menzogna del demonio che ci ha obbligato a seguire e compiere i suoi desideri. La notte oscura dell’Innominato, le angosce che ci atterriscono. La solitudine. Il nulla. La Croce che tutto relativizza, che sembra togliere ogni speranza. La nostra esperienza di oggi, qualunque sia, il mare o il deserto, è l’odore di morte che ci atterrisce. Lui è lì con noi, ma "dorme". Abbiamo fede? O abbiamo paura? Non viviamo ancora da figli di Dio, cioè non possiamo ancora partecipare della sua missione! Anzi, è Lui che deve, ancora una volta, "destarsi" e "sgridare i venti e i mari" perché torni la "bonaccia" nella nostra vita. Non siamo ancora pronti a morire con Lui. Ecco perché gridiamo e abbiamo paura, spaventati e colti di sorpresa dalla storia che non potrebbe essere diversa... E' la storia di un cristiano, la tua, la mia, la storia perseguitata della Chiesa, anche oggi. E Gesù "dorme", e noi, senza fede, non capiamo che proprio così ci sta amando, e sta amando ogni uomo. "Dorme" e non ferma le guerre. "Dorme" e non guarisce il cancro di mio padre. "Dorme" e non cambia il carattere di mio marito. "Dorme" e non dà un lavoro a mio figlio. "Dorme" perché non mi ama... "Uomo di poca fede", non hai capito nulla! Gesù "amava Lazzaro", eppure si è fermato ancora due giorni dove si trovava senza scendere da lui ammalato, quasi aspettando che l’amico morisse. E quando infatti Lazzaro si “addormenta” Gesù dice ai Suoi discepoli di godere per loro di non essere stato dall’amico, “affinchè crediate”. Siamo chiamati innanzi tutto a scendere al fondo di noi stessi, dove incontrare la propria morte, sino all’ultimo gradino della piscina battesimale. E qui, annegare l’uomo vecchio nella morte di Cristo, addormentarci con Lui per risorgere con Lui. Questa è la fede! Questa esperienza che ci crocifigge alla carne e al mondo, dove siamo tutti per Lui. Come Lui è tutto per noi. La fede battesimale per donarci la quale il Signore s’e addormentato nel sepolcro dei nostri peccati. Entriamo allora oggi nella barca con il Signore, addormentiamoci con Lui, non temiamo, con Lui passeremo indenni tra le acque della morte. Lui solo basta. Il Suo amore è la nostra vita e noi viviamo per Lui. 

Le radici atee del nazionalismo


Benito_Mussolini

Da Garibaldi, a Mussolini, a Corradini…

Anzitutto il nazionalismo, responsabile dello scoppio della I guerra mondiale, che con i suoi dieci milioni di morti, venti milioni di feriti, mutilati e nevrotici, e sette milioni di prigionieri e dispersi, rappresenta la più grande tragedia della storia sino a quel momento, senza alcuna possibilità di confronto. Ebbene il nazionalismo è figlio della Rivoluzione Francese, antitetico alla concezione cattolica, e cioè universale, che aveva caratterizzato l’Europa dell’Antico Regime.
E’ a tutti noto che la I Guerra mondiale nacque dalle frizioni tra i nazionalismi tedesco, inglese,
serbo, russo, inglese… Frizioni che esplosero anche per il desiderio di molti di un evento grandioso che portasse con sé un cambiamento, un vento nuovo, ritenuto da molti necessario per spazzare l’aria asfittica della società positivista, industrializzata e senz’anima del primo Novecento. Un nuovo mondo nascerà dalla catastrofe: lo credettero in tanti, socialisti e nazionalisti, di destra e di sinistra. Un vento che spazzasse il senso di vuoto, l’ansia che dominava molti animi e che è testimoniata dalla affannosa ricerca di sostituti della religione tradizionale; dall’affannosa brama, come si è visto precedentemente, di esperienze spiritiche, o di avventure occultiste: “I decenni che precedettero la guerra erano caratterizzati da un numero di adepti delle pratiche occulte comparabile a quello dei proseliti della New Age” ( M. Burleigh, “In nome di Dio”, Rizzoli, p. 30)
Nello stesso tempo la delusione post-bellica avrebbe determinato una speranza ancora più radicale, un messianismo ancora più patente e micidiale. Infatti il totalitarismo si fonda non soltanto sulla brama di potere dei dittatori autocrati, ma anche sul bisogno di sicurezza, sul bisogno di venerare e propiziarsi il favore degli uomini al potere da parte delle masse. “La pseudo-divinità dello Stato moderno non consiste tanto in una divinità che esso avrebbe usurpato con arroganza, quanto in una divinità che gli è stata attribuita da una massa di persone frustrate e insicure le quali richiedono insistentemente un potente e venerabile oggetto nei confronti del quale nutrire fede e speranza”.
Religione atea, secolare fu dunque il nazionalismo, generato da una brama di potenza che sembrava poter soddisfare gli animi assetati di qualcosa di grande; religione secolare i totalitarismi, che tentarono di porre rimedio alla delusione subentrata alle precedenti attese sfiorite e al disastro post-bellico.
Mi limiterò, per brevità, a qualche cenno al nazionalismo italiano, che fu interpretato da personaggi assolutamente nemici della Chiesa, e di ogni religiosità, come Giuseppe Garibaldi, il garibaldino Francesco Crispi, colui che diede vita al colonialismo italiano, alla fine dell’Ottocento, e Benito Mussolini. Di Giuseppe Garibaldi, che tanto male fece al meridione d’Italia, come ci hanno ricordato gli autori siciliani Giovanni Verga, Luigi Pirandello e Tomasi di Lampedusa, liberando i prigionieri dalle carceri e affidando il paese nelle mani della ricca borghesia piemontese e meridionale, si può ricordare che vantava con violenza ed orgoglio il suo ateismo. Nelle sue lettere, in occasione del Concilio Vaticano I, scriveva ai suoi amici e compagni di loggia massonica: “Qui nella contaminata vecchia capitale del mondo, si disputerà sulla verginità di Maria che partorì un bel maschio sono ora 18 secoli (e ciò importa veramente molto alle affamate popolazioni); sull’eucaristia, cioè sul modo di inghiottire il reggitore dei mondi, e depositarlo poi, in un Closet qualunque. Sacrilegio che prova l’imbecillità degli uomini che non regalano d’un pugno di fango il nero, che sì sfacciatamente si beffa di loro. Finalmente sull’infallibilità di quel metro cubo di letame che si chiama Pio IX...” (Giuseppe Garibaldi, “Memorie”, Bur, Milano, 1982, p.367).
Quanto a Benito Mussolini è assai noto il fatto che tutta la sua formazione umana e culturale fu influenzata da ideologie sostanzialmente atee. Il nome di battesimo, Benito, gli fu imposto dal padre in onore di Benito Juarez, il rivoluzionario messicano ferocemente avverso ai cattolici. La sua crescita culturale fu segnata dalla lettura di Rousseau, Spencer, Ardigò, Marx, Sorel, Nietzsche, Mazzini, Giosuè e Vittorio Carducci: una mescolanza di ideali socialisti, cui aderì per una parte molto importante della sua vita, anarchici, positivisti, e di aspirazioni risorgimentali, garibaldine ed anticlericali. I biografi raccontano la sua giovinezza irrequieta, fatta di ardenti passioni politiche ed amorose, di un vagabondare inquieto, tra diverse città, svariate donne, e incontri significativi, come ad esempio quello con Lenin, che più avanti avrebbe incolpato i socialisti italiani di essersi lasciati sfuggire l’unico capace di fare la rivoluzione. Sappiamo che nel suo peregrinare il futuro duce si scontrò spesso con figure di credenti: in Svizzera, ad esempio, ebbe un dibattito pubblico con il pastore evangelico Alfredo Tagliatatela, cui spiegò, togliendosi platealmente l’orologio, che se Dio fosse esistito, avrebbe dovuto dimostrarlo, fulminandolo entro cinque minuti.
A Trento, dove rimase qualche mese insieme al socialista anticlericale Cesare Battisti, entrò in conflitto con alcuni sacerdoti locali, da cui fu anche querelato. Spiegava, nei suoi scritti, che la religione è il fardello dell’umanità, e che occorreva liberarsi dalle “unghie dei preti”, definiti anche “vampiri” e “pipistrelli”. Avendo letto “La vita di Gesù” del seminarista rinnegato e razionalista Ernest Renan, una sorta di Dan Brown o di Corrado Augias ante litteram, arrivò a spiegare che forse Gesù non era neppure esistito, e che i Vangeli non potevano essere considerati documenti degni di fede. Salvo poi sostenere, in più occasioni, che in verità Cristo era stato un “socialista ante marcia”, e che il grave peccato dei papi era quello di non essere fedeli, loro, anzitutto, proprio a Cristo stesso.
Citando Darwin, affermava che il naturalista inglese aveva portato avanti, insieme a Marx, la lotta “contro la tradizione, l’autorità, il dogma”. Si distinse anche per aver abbattuto a picconate la statua della Madonna del Fuoco di Forlì. Tra i suoi scritti si possono ricordare una difesa dell’ateismo in 47 pagine, “L’uomo e la divinità”, un romanzo anticlericale a puntate, commissionatogli da Cesare Battisti, “Claudia Particella, l’amante del cardinale”, il romanzo storico “Giovanni Hus il veridico”, esaltazione di un eretico boemo del medioevo, e scritti inneggianti a Giordano Bruno e alla ragione, definita come l’ “Anticristo” temuto dai papi. Il 24 dicembre del 1910 scriveva: “Il Natale cattolico è una mistificazione. Cristo è morto e la sua dottrina agonizza. Ma v’è un Cristo vivo, lo schiavo, che attraverso i millenni ha portato la croce della miseria. Questo schiavo non può celebrare il Natale cristiano… Il Natale Umano, verrà”.
Da buon socialista Mussolini conviveva senza matrimonio, neppure civile, con Rachele, sino a che non lo ritenne utile politicamente; analogamente si rifiutò di battezzare i figli Vittorio ed Edda. Erano gli anni in cui con echi carducciani definiva Cristo il “Rabbi vile dalle chiome rosse”, da prendere a calci insieme ai “suoi più vili rabbini dalle sottane nere”.
Divenuto sempre più nazionalista ed interventista, Mussolini inasprì lo scontro con la Chiesa, rea di essersi schierata per la pace e per l’Austria cattolica, l’Impero di diritto divino che egli considerava “il principio del Male”, l’ “anti-Uomo”. “Preti e gesuiti, scriveva, sono neutralisti per amore dell’Austria vaticanesca e temporalista”. Senza tema di cadere nel ridicolo, l’uomo che avrebbe via via accordato le sue idee alle circostanze, secondo la bisogna, con astuto pragmatismo, diceva: “La neutralità di Benedetto XV, è deicida, uccide Dio nel cuore degli uomini, Benedetto è l’apostolo dell’ateismo”.

Nel 1919, fondando i fasci di combattimento, in piazza San Sepolcro a Milano, indicò ai suoi uomini un programma in vari punti che contemplava, tra le altre, l’idea di confiscare “tutti i beni delle Congregazioni religiose”. Accanto a lui arditi, futuristi, numerosi massoni, ex socialisti, nazionalisti, dannunziani e anarchici…tutti accomunati da una matrice anticattolica e spesso consapevolmente atea.
Col tempo Mussolini si sarebbe accorto che per governare l’Italia avrebbe dovuto essere più accorto, più pragmatico e meno impulsivo: iniziò così pian piano a non attaccare più con la violenza di un tempo né la monarchia, né la Chiesa. Scriveva, con grande astuzia politica, nel 1920: “Il Vaticano rappresenta 400 milioni di uomini sparsi in tutto il mondo ed una politica intelligente dovrebbe usare ai fini dell’espansionismo proprio questa forza colossale. Io sono, oggi, completamente al di fuori di ogni religione, ma i problemi politici sono problemi politici. Nessuno in Italia, se non vuole scatenare la guerra religiosa, può attentare a questa sovranità spirituale” (Gianni Vanoni, “Massoneria, fascismo e Chiesa cattolica”, Laterza, Bari, 1979, p. 19, 28, 38. Si veda anche Luigi Sardi, “Battisti, Mussolini, Degasperi” Curcu & Genovese, Trento, 2004).
Per questioni di tattica, di strategia politica, dunque, Mussolini arrivò anche a sposarsi in Chiesa, mentre tradiva giornalmente la povera Rachele, e a strizzare l’occhio ai cattolici italiani, con esiti alterni, sino ai Patti Lateranensi. Cesare Maria De Vecchi, uno dei quadrumviri, ambasciatore fascista in Vaticano e strenuo difensore della buona fede del duce nella Conciliazione, ricorda che subito dopo la firma dei Patti Lateranensi Mussolini scriveva al re “di aver lasciato alla Santa Sede tanto territorio quanto bastava per seppellire in maniera definitiva il plurisecolare dominio temporale dei papi”. Davanti al Gran Consiglio del fascismo il duce ebbe anche a dire: “Come avete udito, abbiamo fatto la pace con la Chiesa…Ora che la pace è fatta, si può pure riprendere la guerra!”. In effetti immediatamente dopo i patti, il governo italiano e la santa Sede entrarono continuamente in conflitto.
Pio XI si sentiva ingannato da Mussolini, che oltre a limitare la libertà d’azione e di pensiero dei laici cattolici, lanciava sovente frecce avvelenate, sostenendo ad esempio pubblicamente che “se il Cristianesimo anziché trasferire a Roma con Pietro e Paolo il suo centro di azione universale, fosse rimasto in Galilea, vi avrebbe subito la sorte di una delle varie sette ebree del tempo”.
La voce che correva in Vaticano e in buona parte del mondo cattolico, all’indomani della ufficiale Conciliazione, fu che il papa era stato ingannato. Personalità importanti, come il cardinal Merry del Val e altri influenti uomini di curia, incolpavano soprattutto il segretario di Stato Gasparri, che effettivamente si trovò sempre più in difficoltà di fronte ai rapporti che giungevano in Vaticano, da parte di reparti di polizia e carabinieri ostili al regime, sulle persecuzioni, i sequestri e le angherie subite dall’associazionismo cattolico. L’Osservatore Romano e la Civiltà cattolica sparavano le loro pallottole di carte sul duce e sui suoi tentativi di monopolizzare l’educazione della gioventù, sui seimila Circoli cattolici chiusi con la forza e sottoposti a devastazioni e violenze di studenti facinorosi protetti dalla polizia, sui bollettini parrocchiali censurati e osteggiati, sugli ex Popolari spiati di continuo dal regime come oppositori, o fatti incarcerare come Degasperi…ma l’impotenza vaticana di fronte alla forza del regime era evidente.
Pio XI non poteva far altro che promulgare qualche enciclica, che veniva regolarmente silenziata, come “Non abbiamo bisogno” e “Dell’educazione cristiana della gioventù”, senza che il loro effetto fosse veramente tangibile. Non di rado si sfogava con De Vecchi o altri diplomatici del regime, con affermazioni come questa: “Ecco cosa avete fatto, avete imbrogliato il Papa! Lo dicono tutti, lo sanno tutti, lo scrivono dappertutto, dentro e fuori l’Italia”. Oppure: “L’Azione Cattolica è la pupilla degli occhi del papa ed è perseguitata con sistemi che non voglio qualificare perché la qualifica sarebbe troppo grave…Gli vada a dire (al duce, ndr) che con i sistemi che usa e con i fini che si propone, mi fa schifo…nausea, vomito…” (Cesare Maria De Vecchi, “Il quadrumviro scomodo”, Mursia, Milano, 1983, p.129-164.)
La lotta tra Chiesa e regime si svolse sempre secondo questi canoni: colpi proibiti, piccole vendette, tentativi di boicottaggio, senza che nessuno dei due contendenti, certamente non la Chiesa, avesse la forza per distruggere o condannare totalmente l’altro. All’indomani dell’enciclica “Non abbiamo bisogno”, ad esempio, Mussolini, vedendosi attaccato spiegò machiavellicamente ai suoi: “Intanto io darò un giro di vite alla situazione per quanto riguarda le scuole cattoliche condotte da religiosi. Tutto questo sul piano tattico, mentre sul piano strategico manterremo la nostra linea di perfetta osservanza religiosa e di rispetto nei confronti del papa e della Chiesa” (Cesare Maria De Vecchi, op. cit., p. 208)
Tornando alle idee religiose di Mussolini, si può ricordare che uno studioso ha parlato di una conversione alla fine della vita, dopo l’arresto del 25 luglio 1943. Renzo De Felice, nella sua biografia di Mussolini in quattro volumi (Einaudi), nega che sia successo qualcosa di veramente nuovo nel rapporto del duce con la fede religiosa, benché sia inevitabile immaginare che nella sconfitta anche in lui si siano fatti largo dubbi e domande sul destino ultimo della sua anima. Per il grande storico del fascismo il fatto che in quelle circostanze Mussolini abbia letto “La vita di Cristo” del Ricciotti “è un risvolto del suo stato di isolamento, direi un percorso più intellettuale che religioso”.
In ogni modo resta innegabile quanto scrisse a sua tempo Armando Carlini, discepolo di Giovanni Gentile, suo successore sulla cattedra di filosofia teoretica a Pisa, deputato fascista e membro dell’Accademia d’Italia: Mussolini “della religione comprende e sente il lato umano e storico in generale: non ha mai lasciato trapelare un interesse a questioni dogmatiche, anzi s’è guardato accuratamente dall’entrarvi anche quando l’occasione gli veniva offerta naturalmente. E’ vero che con lui il nome di Dio risuonò, forse per la prima volta, solenne e ammonitore, nella fredda e grigia aula del Parlamento. E’ vero che si deve a lui la distruzione in Italia della Massoneria e la Conciliazione col Vaticano. Ma queste imprese non furono da lui eseguite, e di fatto giustificate, con ragioni che non fossero essenzialmente politiche e sociali. E se pure si ha da concedere qualche valore religioso alla invocazione di Dio, essa non va al di là di una fede in un principio del tutto indeterminato, troppo più vicino al vago principio di una fede di stile mazziniano, che a quello ben definito, preciso e impegnativo, del cristianesimo, anzi del cattolicesimo…la morale del fascismo da lui fondato è tutta una esaltazione di principi fondamentalmente pagani, come molti hanno messo in rilievo” (Armando Carlini, “Filosofia e religione nel pensiero di Mussolini”, Il Settimo Sigillo, Brescia, 1983)
Il fascismo infatti si nutriva dei miti pagani della nazione, della rievocazione della grandezza di Roma: la Roma degli imperatori, non quella dei papi. Utilizzava un linguaggio, simboli, riti, cerimonie, tutti tipici di una religione civile, per sacralizzare lo Stato, come “educatore del popolo nel culto della nazione”, e per celebrare il duce come il grande sacerdote della Patria. Divise per tutti, littori, sabati fascisti, feste laiche della patria, patrioti celebrati come “martiri”, creazione di una “storia sacra del partito”, corsi di “mistica fascista”, usanza di contare gli anni dall’inizio dell’ “era fascista” invece che dalla nascita di Cristo, leggi razziali, liturgie di Stato, culto della bandiera, giuramento di fedeltà al fascismo, pellegrinaggi obbligati al Milite Ignoto, celebrazione di eroi fondatori…dicono chiaramente che il nazionalismo fascista fu una religione. Una religione laica, politica, senza Dio, senza redenzione divina, senza aldilà.
Tornando ad analizzare il fenomeno nazionalista italiano in generale, occorre ricordare il movimento degli interventisti, contro cui Benedetto XV si batté in ogni modo, prima con la diplomazia e poi denunciando “l’inutile strage”. Erano tutti uomini delle élites, avversi alla visione cattolica dominante nel paese: il già citato Mussolini, Gabriele D’Annunzio, il socialista nazionalisteggiante ed anticlericale Cesare Battisti, i nazionalisti Giovanni Papini ed Enrico Corradini, i futuristi di Marinetti, che predicavano lo “svaticanamento” d’Italia e l’amore libero”… Molti di questi, esattamente come nel resto d’Europa, utilizzarono Darwin per sacralizzare la selezione naturale e la lotta per la vita come legge della storia.
Scrive H. Schulze, nel suo “Aquile e leoni. Stato e nazione in Europa” (Roma-Bari, 1995): “Alla base di tale concezione c’era la legge della natura, secondo la quale la lotta era di tutti contro tutti, la pace una illusione dei deboli, nel migliore dei casi un momento di respiro nel conflitto perenne per l’esistenza; a sopravvivere sono destinati solo gli esseri moralmente e fisicamente superiori. Per tutti i raggruppamenti politici e sociali valeva l’assioma che l’umanità non aveva come scopo la pace; ciò era vero per il concetto marxista della lotta di classe, come per l’idea nazional-popolare di un eterno antagonismo tra popoli e per la nuova ideologia emergente del conflitto tra le razze…politica vuol dire guerra, e la guerra è necessaria per bruciare i mali dell’epoca….non si tratta di una visione estremistica, ma è quanto si ricava dalla lettura di giornali e periodici, sia seri che a larga diffusone, pubblicati nell’arco di tempo tra il 1880 e il 1914 e che offrono al moderno osservatore una fonte inesauribile di dati relativi alla struttura fondamentalmente darwinistico-sociale del nazionalismo popolare del tempo nell’area anglosassone, in Francia, in Germania o in Italia. Quando, durante la guerra contro i Boeri, il maresciallo britannico Roberts dichiarava che la lotta spietata tra le nazioni non era altro che una necessità biologica…ciò non era che un’eco di quanto scrivevano numerosi altri autori del tempo”, spesso biologi darwinisti prestati alla politica, come ha ben raccontato il celebre paleontologo evoluzionista S.J. Gould.
Per tornare in Italia, Giovanni Papini, prima che la vita lo portasse a convertirsi e a rinnegare il suo passato, sulla rivista nazionalista “Lacerba” nel 1914 scriveva: “Finalmente è arrivato il giorno dell’ira dopo i lunghi crepuscoli della paura. Finalmente stanno pagando la decima delle anime per la ripulitura della terra….Siamo troppi. La guerra è una operazione maltusiana. C’è un troppo di qua e un troppo di là che si premono. La guerra rimette in pari le partite. Fa il vuoto perché si respiri meglio. Lascia meno bocche intorno alla tavola…”. EdEnrico Corradini, interpretando la stessa concezione ateistica e socialdarwinista, su Il Regno del 28 febbraio 1904, allo scoppio del conflitto russo giapponese, descriveva la guerra come “un grandioso e terribile fenomeno della natura, un cozzo di forze avverse primordiali ed eterne, irrefrenabili. E tali sono appunto le forze che conducono alle guerre le nazioni e le razze. Perciò dinanzi ad esse l’uomo civile è abolito e ritorna l’uomo sincero allo stato di natura”.
I frutti del nazionalismo, già condannato da diversi papi, inutilmente, nelle loro encicliche, avrebbe dunque portato dapprima alla guerra e poi, nel dopoguerra, al fascismo, al nazismo e al “socialismo nazionalista” di Stalin, secondo la celebre definizione di Troskij.
Francesco Agnoli

A TUTTI I CATTOLICI, MA SPECIALMENTE AI MIEI AMICI DI CL



 DOPO L’ULTIMA SCUOLA DI COMUNITA’ DI CARRON...


Ho spedito a don Julian Carron tre brani. Quello di Péguy molte volte lo abbiamo letto e rilanciato al tempo di don Giussani nei confronti di quei cattolici che avevano fatto “la scelta religiosa”.
Lo ripropongo oggi come contributo di giudizio sull’attuale (triste) situazione del Movimento.Il primo, quello appunto di Péguy, è rivolto al “partito dei devoti”, cioè a quelli che pretendevano – in nome di una presunta purezza della loro fede – di non sporcarsi le mani con la realtà (mi pare sia l’attuale tentazione del Movimento, agli antipodi della sua storia):
“Poiché essi non hanno la forza (e la grazia) di essere della natura, credono di essere della grazia. Poiché non hanno il coraggio temporale, credono di essere entrati nella penetrazione dell’eterno. Poiché non hanno il coraggio di essere del mondo, credono di essere di Dio. Poiché non hanno il coraggio di essere di uno dei partiti dell’uomo, credono di essere del partito di Dio. Poiché non sono dell’uomo credono di essere di Dio. Poiché non amano nessuno, credono di amare Dio”. 
Il secondo brano è di papa Francesco ed è la domanda giusta per l’attuale situazione di CL:
“Noi cristiani non vogliamo adorare niente e nessuno in questo mondo se non Gesù Cristo, che è presente nella santa Eucaristia. Forse non sempre ci rendiamo conto fino in fondo di ciò che significa questo, di quali conseguenze ha, o dovrebbe avere questa nostra professione di fede. Questa nostra fede nella presenza reale di Gesù Cristo, vero Dio e vero Uomo, nel pane e nel vino consacrati, è autentica se noi ci impegniamo a camminare dietro a Lui e con Lui”.
Il terzo è un illuminante pensiero di Ratzinger (che spiega appunto cosa significa seguire Cristo):
“Non esiste la nuda fede o la pura religione. In termini concreti, quando la fede dice all’uomo chi egli è e come deve incominciare ad essere uomo, la fede crea cultura. La fede è essa stessa cultura”.
Antonio Socci

Thomas Merton - La saggezza del deserto



Come ai tempi di Elia



Per trasmettere la fede nell’età dell’effimero. 

(Walter Kasper)
La trasmissione della fede, specialmente alle nuove generazioni, appare oggi una sfida tutt’altro che facile, così inizia il nuovo libro di Bruno Forte La trasmissione della fede (Brescia, Queriniana, 2014, pagine 256, euro 18). Ci sono già tantissime pubblicazioni su questo tema, fondamentale per Chiesa e divenuto particolarmente urgente nel contesto della nuova evangelizzazione, a cui anche il prossimo Sinodo sulla famiglia è dedicato. Però il libro di Bruno Forte offre un contributo particolare. Da teologo egli va alle radici del problema e presenta un approfondimento teologico e filosofico arricchito da bellissimi testi letterari molto stimolanti. Perché per lui c’è anche la via della bellezza per la trasmissione della fede. Già nell’introduzione l’arcivescovo spiega la situazione attuale, dove nel contesto culturale il fruibile e l’immediato appaiono importanti e l’indifferenza alle grandi domande è diffusa. L’effimero sembra prevalere sull’intero orizzonte e l’eterno impallidire davanti all’attimo che fugge. Come ai tempi del profeta Elia la vera tentazione dell’uomo non è l’ateismo ma l’idolatria. Così l’esperienza di questo profeta di stampo arcaico e il suo cammino di fede diventano per così dire il filo conduttore di tutto il libro.
All’inizio Forte spiega la fede come l’esperienza di un incontro, la cui trasmissione è inseparabile dalla kènosi e dallo splendore dello Spirito. Poi il libro parla dell’educazione alla fede, la professione, la celebrazione e la vita della fede, dove parla inoltre delle donne come protagoniste della fede e dei giovani come testimoni della speranza, della famiglia come ambito vitale della trasmissione della fede. Particolarmente interessanti sono i capitoli sulla fede in dialogo, sulla fede in cammino e il sorprendente capitolo conclusivo sul sorriso di Dio. Segue ancora un’appendice su fede e annuncio, dall’enciclica Lumen fidei all’esortazione apostolica Evangelii gaudium.
La ricchezza di questi capitoli è difficile da riassumere. Pertanto riferiamo solo alcuni aspetti particolarmente interessanti dal capitolo dedicato al dialogo con chi non crede, un titolo che ricorda immediatamente il famoso titolo di un libro del compianto cardinale Carlo Maria Martini, a cui Bruno Forte si è sempre sentito molto vicino.
Secondo Forte la fede non è mai scontata; il credente non ha una comprensione totalizzante, luminosa su tutto, ma vive in una sorta di pensiero aurorale, carico di attesa. Però alla creatura, che nel più profondo del suo essere è desiderio d’infinito, Dio viene incontro come Dio che ha tempo per l’uomo. L’incontro dell’umano andare e del divino venire, l’alleanza dell’esodo e dell’avvento, è la fede. E la fede è lotta, agonia, non il riposo tranquillo di una certezza posseduta. Chi pensa di aver fede senza lottare, non crede più in nulla.
Diversamente da ogni posizione ideologica, la fede è un continuo convertirsi a Dio, un continuo consegnargli il cuore, cominciando ogni giorno, in modo nuovo, la lotta per credere, sperare e amare. Se però il credente è un ateo che ogni giorno si sforza di cominciare a credere, non sarà forse l’ateo — certo non l’ateo volgare stolto o indifferente — il non credente pensoso, un credente che ogni giorno vive la lotta inversa, la lotta di cominciare a non credere? Il credente responsabile si sentirà stimolato dal non credente, purché non sia chi a buon mercato voglia vivere etsi Deus non daretur, ma chi sia pronto a rischiare veluti Deus daretur. «Su questi presupposti — così finisce il capitolo — il dialogo fra i due sarà un comune servizio alla Verità, che entrambi chiama, e proprio per questo una testimonianza condivisa della salutare Trascendenza da cui tutto è illuminato, agli occhi di chi vuole cercare con umile amore, pur nella notte del mondo».
In questo contesto Forte cita san Bernardo di Chiaravalle: «L’amarezza della Chiesa è amara quando la Chiesa è perseguitata, è più amara quando la Chiesa è divisa, ma è amarissima quando la Chiesa se ne sta tranquilla e in pace». Forse quest’affermazione sarà un conforto per chi cammina tribolato e inquinato da una situazione poco pacifica, dove la trasmissione della fede specialmente alle nuove generazioni attraversa difficoltà. Forse proprio questa situazione è un kairòs, cioè un’ora di grazia in cui Dio ci viene incontro per purificare e approfondire la nostra fede spesso troppo paurosa perché paradossalmente spesso troppo sicura di se stessa.
L'Osservatore Romano

Lettera del Patriarca Bartolomeo a Papa Francesco




Il Patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo per la festa dei santi Pietro e Paolo. Tempi di riavvicinamento

Pubblichiamo, in una nostra traduzione dall’inglese, il testo del messaggio inviato dal Patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo a Papa Francesco in occasione della solennità dei santi Pietro e Paolo.
A sua Santità e Beatitudine Papa Francesco dell’Antica Roma: rallegratevi nel Signore.
Ancora una volta sta iniziando il giorno gioioso della venerabile solennità e del sacro ricordo degli Apostoli Pietro e Paolo, che furono martirizzati per amore di Cristo nella sede della Sua Chiesa. Per questo, siamo venuti per concelebrare e commemorare ancora una volta con lei, quest’anno, attraverso la nostra delegazione ufficiale, in conformità alla benedetta usanza da lungo tempo istituita.
Custodiamo nel nostro cuore, come un tesoro prezioso, il ricordo dei nostri recenti incontri personali con lei, Santità, sia a Gerusalemme sia a Roma, che hanno ulteriormente rinnovato e sugellato i nostri vincoli fraterni, affermando al contempo il nostro desiderio di proseguire sul cammino verso la nostra piena unione e la comunione desiderata dal Signore. Pertanto, nella città Santa, lo scorso maggio, siamo stati ritenuti degni di venerare insieme il sacro luogo in cui il capo della nostra fede, nostro Signore Gesù Cristo, ha insegnato, sofferto, è stato sepolto ed è risorto dai morti, mentre abbiamo onorato il cinquantesimo anniversario dello storico incontro avvenuto lì tra i nostri predecessori Papa Paolo VI e il Patriarca Ecumenico Atenagora, le cui coraggiose iniziative hanno inaugurato un tempo di riavvicinamento e di riconciliazione per le nostre Chiese.
Inoltre, il nostro incontro a Roma, grazie alla gentile iniziativa e all’invito di Sua Santità all’inizio del mese, al fine di contribuire insieme — con i Presidenti di Israele e Palestina — al prevalere della pace nella regione del Medio Oriente lacerata dal conflitto, è stata profondamente e personalmente commovente, trasmettendo allo stesso tempo un messaggio della pace e dell’amore di nostro Signore, a un mondo contemporaneo che ne ha tanta sete.
Per tutte queste cose, ancora una volta esprimiamo la nostra sincera gratitudine a lei, Santità, insieme con la nostra sentita preghiera che il Signore la possa rafforzare con la sua grazia e la sua potenza, di modo che Lei possa continuare per molti anni la sua preziosa guida e il suo servizio nel mondo moderno, ispirando tutti con le virtù della sua personalità e il suo amore verso Dio e l’umanità.
Possano gli Apostoli Pietro e Paolo Intercedere presso Dio per la sua Chiesa e per il mondo intero, guidandoci e incoraggiandoci lungo il cammino della verità e dell’amore, «finché arriviamo tutti all'unità della fede…. vivendo secondo la verità nella carità», cercando «di crescere in ogni cosa verso di lui, che è il capo, Cristo» (Ef 4, 13-15).
Questi sentimenti augurali e festosi verranno trasmessi a lei, Santità, dalla nostra delegazione — guidata da Sua Eminenza il Metropolita Giovanni di Pergamo, accompagnato da Sua Eccellenza l’Arcivescovo Giobbe di Telmessos e dal Reverendissimo Arcidiacono Giovanni Chryssavgis — che rappresenterà il Patriarcato Ecumenico e noi durante le celebrazioni della festa del Trono della sua Chiesa.
Trasmettendo questi sentimenti a lei, Santità, in spirito di profondo amore, l’abbracciamo fraternamente nel Signore e rimaniamo con amore e speciale stima in Lui,
dal Patriarcato Ecumenico, il 24 giugno 2014,l’amato Fratello in Cristo di Sua Santità
Bartolomeo di Costantinopoli
L'Osservatore Romano


Le fatiche del super Papa



12mila colloqui personali
e nessun giorno di ferie

Sveglia alle 4,45 e solo mezz’ora di siesta. Ecco perché ogni tanto crolla e dà forfait
di A. Tornielli, da La Stampa
Ai preti che lo invitavano a prendersi una vacanza, il cardinale di Milano Alfredo Ildefonso Schuster rispondeva, sorridendo, che per riposarsi ci sarebbe stato tutto il tempo nell’aldilà. Francesco, il Papa gesuita con un’agenda che sfiancherebbe un quarantenne, sembra ispirarsi allo stesso modello, anche se i suoi 77 anni lo costringono a dare qualche forfait, com’è accaduto venerdì scorso per la visita al Gemelli.  

«Decide lui la sua agenda», spiega a La Stampa padre Federico Lombardi, «e ha un ritmo di vita molto intenso perché si sente chiamato al servizio del Signore con tutte le sue forze. Neppure quando era arcivescovo a Buenos Aires faceva ferie». Anche nel giorno della settimana tradizionalmente dedicato al riposo per i Papi, il martedì, durante il quale i predecessori non avevano udienze né impegni particolari, Bergoglio non rallenta. Invece di usare questa mattina libera per riposarsi, la utilizza per gli incontri rimasti in sospeso. «Francesco segue lo stile di vita attivo di sant’Ignazio che nelle costituzioni dell’ordine definiva i gesuiti “operai nella vigna del Signore”, perciò - osserva ancora Lombardi - si dedica con totale dedizione alla sua missione, anche al di là delle proprie forze».  

Negli ultimi cento anni le agende dei Papi hanno visto il moltiplicarsi degli impegni, degli appuntamenti pubblici e dei discorsi da pronunciare. Uno sguardo alle statistiche può aiutare a capire. L’appuntamento più significativo del pontificato di Francesco, la messa quotidiana con omelia celebrata la mattina a Santa Marta, alla presenza di una sessantina di fedeli, rappresenta una novità assoluta. Anche i predecessori dicevano messa ogni giorno nella cappella privata dell’appartamento pontificio, ma non predicavano e non avevano di fronte né la telecamera né i microfoni di Radio Vaticana. Se erano indisposti o febbricitanti, se ritardavano, nessuno o quasi nessuno se ne sarebbe accorto. Dal marzo 2013 ad oggi Francesco ha celebrato in Santa Marta 229 messe con altrettante omelie tenute braccio, e si è intrattenuto a salutare personalmente ciascuno dei fedeli presenti: la stima - al ribasso - è di almeno dodicimila persone salutate soltanto nel corso di questo appuntamento mattutino. Le grandi celebrazioni liturgiche che il Papa ha presieduto a Roma o nei viaggi, sono state 95. Le omelie che ha tenuto in queste occasioni sono state 73. 

Dal marzo 2013 ad oggi Francesco ha scritto un’enciclica (Lumen fidei) e un’esortazione apostolica (Evangelii gaudium), tre lettere apostoliche e quattro «motu proprio», 45 lettere ufficiali. Ha pronunciato o inviato 55 messaggi (tra questi diversi videomessaggi). Da quando è stato eletto Papa, Bergoglio ha pronunciato 231 discorsi, ai quali vanno aggiunti gli interventi prima dell’Angelus, che sono stati 73. Anche se, com’è noto, per la preparazione dei testi il Pontefice si avvale dei collaboratori, ciò che viene predisposto segue le sue indicazioni e dunque lo impegna in termini di tempo. 

Un’altra innovazione riguarda le udienze del mercoledì. Francesco fino ad oggi ne ha tenute 54. Le stime della Prefettura della Casa Pontificia parlano di oltre sei milioni di presenze, tra Angelus e udienze generali. Il Papa ha dilatato di molto il tempo dedicato all’incontro con i fedeli presenti in piazza San Pietro. Gira in lungo e in largo sulla papamobile per salutare tutti e avvicinarsi anche a chi è più lontano. Questi incontri, a motivo della grande partecipazione, si sono sempre svolti in piazza, anche in inverno. Le ore trascorse all’aperto soltanto in queste occasioni, con qualsiasi tempo, sono state non meno di 150. E qualche volta in Papa vi ha preso parte pur essendo indisposto.  

Impossibile è invece il calcolo delle persone ricevute singolarmente in udienza, come pure il calcolo dei malati che Bergoglio ha incontrato. Si è poi notevolmente dilatato il carico della corrispondenza privata. Francesco legge personalmente una cinquantina di lettere al giorno, tra le quattromila che gli arrivano ogni settimana, e dà indicazioni per le risposte. In qualche caso risponde di persona al telefono. 

Ci sono poi i viaggi. Due all’estero (in Brasile e in Terra Santa) e quattro in Italia. Infine, vanno citate le cinque visite alle parrocchie romane: anche qui Francesco ha inaugurato un nuovo stile, facendole il sabato pomeriggio e rimanendo per diverse ore a disposizione dei fedeli. 

Quando è in Vaticano, il Papa si sveglia alle 4,45 e si veste da solo. Per prima cosa legge i «cifrati» provenienti dalle nunziature di tutto il mondo, quindi per oltre un’ora prega e medita le Scritture del giorno preparando l’omelia di Santa Marta. Quindi, sempre da solo, alle 7 scende per celebrare la messa. Dopo la funzione e il saluto ad ognuno dei presenti, fa colazione. Quindi inizia la mattinata di lavoro con le udienze gli incontri. Alle 13 c’è il pranzo, seguito da mezz’ora di siesta. Nel pomeriggio, dopo un tempo di preghiera, riprendono gli incontri, ci sono quindi il disbrigo della corrispondenza e le telefonate. A fine giornata, prima della cena delle 20, c’è solitamente un’ora di adorazione nella cappella. 

«Alcune volte non si può fare tutto - ha confidato Francesco a un gruppo di seminaristi - perché io mi lascio portare per esigenze non prudenti: troppo lavoro, o credere che se io non faccio questo oggi, non lo faccio domani… Così, cade l’adorazione, cade la siesta…». L’ideale, aggiungeva Bergoglio, «è finire la giornata stanchi. Non avere bisogno di prendere le pastiglie: finire stanco. Ma con una buona stanchezza, non con una stanchezza imprudente, perché quello fa male alla salute e alla lunga si paga caro. Questo è l’ideale, ma non sempre lo faccio - ammetteva - perché anche io sono peccatore, e non sempre sono tanto ordinato». 
Così si definisce Francesco, non un superman ma un «peccatore» che conclude la giornata pieno di stanchezza, costretto di tanto in tanto a cancellare qualche appuntamento. 

Il Papa: oggi ci sono più martiri cristiani che nei primi secoli



Il  tweet di Papa Francesco: "Gesù, aiutaci ad amare Dio come Padre e il nostro prossimo come fratello." (30 giugno 2014)

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Ci sono più cristiani perseguitati oggi che nei primi secoli: è quanto ha detto Papa Francesco a Santa Marta, presiedendo la Messa nel giorno in cui si fa memoria dei Santi Protomartiri della Chiesa romana, crudelmente uccisi alle pendici del Colle Vaticano per ordine di Nerone dopo l'incendio di Roma nel 64.


La preghiera all’inizio della Messa ricorda che il Signore ha “fecondato con il sangue dei martiri i primi germogli della Chiesa di Roma”. “Si parla della crescita di una pianta“ – ha affermato Papa Francesco nell’omelia - e questo fa pensare a quello che diceva Gesù: “il Regno dei Cieli è come un uomo che abbia gettato a terra il seme, poi va a casa sua“ e – dorma o vegli - “il seme cresce, germoglia, senza che lui sappia come“. Questo seme è la Parola di Dio che cresce e diventa Regno di Dio, diventa Chiesa grazie alla “forza dello Spirito Santo“ e alla “testimonianza dei cristiani“:
“Sappiamo che non c’è crescita senza lo Spirito: è Lui che fa la Chiesa, è Lui che fa crescere la Chiesa, è Lui che convoca la comunità della Chiesa. Ma anche è necessaria la testimonianza dei cristiani. E quando la testimonianza arriva alla fine, quando le circostanze storiche ci chiedono una testimonianza forte, lì ci sono i martiri, i più grandi testimoni. E quella Chiesa viene annaffiata dal sangue dei martiri. E questa è la bellezza del martirio. Incomincia con la testimonianza, giorno dopo giorno, e può finire come Gesù, il primo martire, il primo testimone, il testimone fedele: con il sangue“.
“Ma c’è una condizione per la testimonianza, perché sia vera – ha aggiunto il Papa - deve essere senza condizioni“:
“Abbiamo sentito il Vangelo, questo che dice al Signore di seguirlo, ma gli chiede una condizione: andare a congedarsi o a seppellire il padre … il Signore lo ferma: ’No!’. La testimonianza è senza condizioni. Deve essere ferma, deve essere decisa, deve essere con quel linguaggio che Gesù ci dice, tanto forte: ’Il vostro linguaggio sia sì, sì, no, no’. Questo è il linguaggio della testimonianza“.
“Oggi – ha detto Papa Francesco - guardiamo questa Chiesa di Roma che cresce, irrigata dal sangue dei martiri. Ma anche è giusto – ha proseguito - che noi pensiamo a tanti martiri di oggi, tanti martiri che danno la loro vita per la fede“. E’ vero che sono stati tanti i cristiani perseguitati al tempo di Nerone, ma “oggi – ha sottolineato - non ce ne sono meno“:
“Oggi ci sono tanti martiri, nella Chiesa, tanti cristiani perseguitati. Pensiamo al Medio Oriente, cristiani che devono fuggire dalle persecuzioni, cristiani uccisi dai persecutori. Anche i cristiani cacciati via in modo elegante, con i guanti bianchi: anche quella è una persecuzione. Oggi ci sono più testimoni, più martiri nella Chiesa che nei primi secoli. E in questa Messa, facendo memoria dei nostri gloriosi antenati, qui a Roma, pensiamo anche ai nostri fratelli che vivono perseguitati, che soffrono e che con il loro sangue fanno crescere il seme di tante Chiese piccoline che nascono. Preghiamo per loro e anche per noi“

domenica 29 giugno 2014

Lunedì della XIII settimana del Tempo Ordinario


Il sogno di Giacobbe
In quel tempo, Gesù, vedendo una gran folla intorno a sé, ordinò di passare all’altra riva. Allora uno scriba si avvicinò e gli disse: “Maestro, io ti seguirò dovunque andrai”. Gli rispose Gesù: “Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo”.
E un altro dei discepoli gli disse: “Signore, permettimi di andar prima a seppellire mio padre”. Ma Gesù gli rispose: “Seguimi e lascia i morti seppellire i loro morti”.

 
 (Dal Vangelo secondo Matteo 8, 18-22)

*

Gesù ci "ordina" oggi perentoriamente di "passare all’altra riva", per entrare nella Pasqua (passaggio). Gesù ci "spinge" oggi a lasciarci attirare nel suo passaggio dalla schiavitù alla libertà. Quello che abbiamo dentro, dunque, è molto più di un desiderio, è un "ordine" del Signore, l'eco della "chiamata" che ci ha tratto all'esistenza, l'annuncio nel quale viviamo, esistiamo, siamo. Il "senso" profondo della nostra vita, ovvero la "direzione" che dà consistenza e pienezza a ogni istante, è quello che ci fa "passare all’altra riva", ogni giorno. Passare all’altra riva è l’unico modo di seguire il Signore. Lui non ci offre un cuscino dove riposare, alienazioni come ce ne propone il mondo. Con Lui non si scappa dalla realtà per nascondersi nelle "tane" delle "volpi", supponendo stoltamente che la nostra astuzia ci possa preservare dal fallimento e dalle delusioni; si cammina nella storia, i piedi ben piantati in terra, non si vola come "gli uccelli" verso "nidi" di fantasie sognate nel mondo virtuale di internet, degli astrologi, degli acquisti a rate e con carta di credito. Cristo ha pagato cash: infatti, "non ha dove reclinare il capo", e lo farà solo sulla Croce, offrendo gratuitamente la propria vita. Su di essa ha disteso le braccia per accogliere e salvare ogni uomo, rivelandoci che, se crocifisso, ogni istante della vita è operoso e fecondo. Il Signore chiama per condurci al vero riposo, quello del seme che, caduto in terra, muore per non restare solo e dare molto frutto. Il riposo che inizia qui sulla terra nell'amore che dimentica se stesso, prende la Croce d’ogni giorno e "segue" il Signore ovunque, perché in ogni luogo c'è qualcuno che aspetta la sua salvezza. Quando Gesù passa e chiama, il tempo si ferma, ed è impossibile cercare di comprendere quello che accade se non ci lasciamo raggiungere e avvolgere dal suo amore; chi non ha l'esperienza del suo perdono, della Pasqua che fa risorgere dalla morte ogni relazione, ogni situazione che sembrava spacciata, non potrà "seguire il Maestro ovunque vada"; non ha i parametri per ascoltare e obbedire, la carne ha altri criteri e cerca sempre e solo il proprio interesse e la propria soddisfazione. Negli "ovunque" di Gesù, spazi e momenti di puro amore, vi saranno luoghi e persone che la carne rifiuterà, e le buone intenzioni di fedeltà e amore si scioglieranno come neve al sole. Solo chi vive del suo amore può "seguire" Gesù "ovunque", "lasciando che i morti seppelliscano i propri morti", che significa consegnare fiducioso a Lui le situazioni irrisolte della propria storia. Spesso neanche i rapporti più santi, come quelli familiari o di una comunità religiosa, possono offrire un "luogo dove reclinare il capo". E non c'è nulla da fare, anzi; più si tenta di "seppellire i morti", ovvero più si cerca di riordinare e spazzare via i motivi delle contese, e più queste si moltiplicano. In questi casi, e sono la quasi totalità, occorre solo rientrare in se stessi, ricordare di non essere migliori di nessuno, accettare che la carne esiste ed è forte, quando soggiogata dal demonio; e "seguire il Signore", per "reclinare il capo", ovvero i pensieri e le angustie, gli tsunami della carne i desideri e le speranze, sul legno della Croce. E, crocifissi con Lui per amore dell'altro, sino a lasciargli intatta tutta la sua libertà, "passare" al Cielo, perché solo da lassù si vedono con chiarezza le cose di quaggiù. Amare, senza se e senza ma, perché solo nell'amore vi è il riposo, che abbraccia l'altro così com'è, senza esigenza, anche se non cambierà mai. Solo in questo amore si può trovare pace, proprio lì, nella realtà. E non si tratta di superficialità, di rassegnazione e di cinismo; è amore, amore purissimo che si dona senza riserve e senza sperare nulla per sé, sia pure umanamente legittimo; che si offre in silenzio, muto come Gesù nella Passione, per non sporcare la purezza dell'amore di Dio, solo perché l'altro possa percepirne, nella libertà di rifiutarlo, almeno un frammento. E' ovvio che Gesù non sta dicendo di non curare i propri cari e accompagnarli sino alla morte, anzi. Ma di amare ogni persona, anche le più care, di un amore celeste. E questo, a volte, ci conduce a superare le consuetudini umane e religiose. Quando, per amore a Cristo e al Vangelo - e quindi per amore vero e celeste alla carne della propria carne - il coltello affonda la lama per circoncidere il cuore: anche questo è il momento dell'amore più puro, che si fa crocifiggere per non barattare la propria salvezza e quella dell'altro con un po' d'affetto e consolazioni umane. Seguire Gesù è , infatti, molto di più che seppellire i morti; è l'esatto contrario: è camminare nella morte per giungere alla vita e tirar fuori i morti dal sepolcro e accompagnagli in Cielo. Seguendo Gesù siamo chiamati a spargere il suo profumo di vita e misericordia prendendo su di noi l'incomprensione, il rifiuto e i peccati degli altri, dando così compimento a ogni relazione; l'amore, infatti, non si limita alle pur dovute e desiderate attenzioni; esso va ben oltre il "minimo sindacale" del "religiosamente corretto". La vita cristiana è "seguire" l'Amato nelle ore infinite di "straordinario" spese per ascoltare e correggere un figlio, per accollarsi silenziosamente il lavoro che il collega non vuol fare, per amare la suocera o la nuora così come sono, per compiere cioè il Discorso della Montagna; e per annunciare il Vangelo sino agli estremi confini della terra. Questi sono gli straordinari di un amore straordinario, che non ha altro stipendio in terra che la gioia del Cielo, che esplode quando un peccatore, il nostro fratello, si converte e crede all'amore di Dio. Per questo, come Giacobbe, siamo chiamati a "posare il capo" su di una pietra, nel luogo di Dio: istante dopo istante,  famiglia, lavoro, scuola, i "luoghi" che ci attendono "seguendo" il Signore, divengono le "porte del Cielo": “Le pietre che Giacobbe nostro padre aveva messo sotto il capo furono trasformate in un letto e un cuscino. Lì, con quella freschezza e quella asprezza, Egli benedisse” (GenR 68,43). Così il Midrash. Così per la nostra vita, nella quale freschezza e asprezza caratterizzano le pietre del carattere del coniuge, delle difficoltà con i figli e i genitori, dei sacrifici per non restare invischiati nell'egoismo; ma, proprio per quello che sono, i volti e i luoghi che ci attendono si "trasformano in un letto e un cuscino" dove riposare dalle sterili fatiche della carne. Pietre come la pietra del sepolcro del Signore, aspra nella morte, fresca nella risurrezione. Come non è stato possibile che la morte tenesse in potere il Signore, così non è possibile riposare nella morte, nei fallimenti, nei dolori. Non è quello il nostro luogo. E’ un momento, un passo nel passaggio. Colui che è di Cristo non è un rassegnato, non accompagna all'eutanasia e non abortisce persone, relazioni ed eventi; non è un cultore macabro della sofferenza e della morte. Chi è di Cristo lo segue ovunque, perché, risvegliatosi con Lui dal sonno della morte, sa che ogni "luogo" è "la casa di Dio, una porta sul Cielo". Dio farà di lui e della sua storia una benedizione "per tutte le famiglie della terra", perché "sarà con lui e lo guarderà ovunque andrà e non lo abbandonerà prima di aver compiuto ogni sua promessa" (Cfr. Gen 28,10-19). E proprio questo era il desiderio dello scriba, simile al nostro celato in tutto quello che pensiamo e facciamo: stare con Gesù per sempre. Ma esso è il frutto dell’esser "passati all’altra riva", sorge dall'esperienza della Pasqua, le viscere battesimali della nostra nuova vita sempre protesa verso un’altra riva, camminando sereni nella precarietà, sino a che non giunga l’ultima, la sponda del Cielo.