domenica 22 giugno 2014

L’istinto che guida i cristiani




Nel documento della Commissione teologica internazionale sul «sensus fidei». 

(Sara Butler)
L’espressione sensus fidei non compare né nella sacra Scrittura né nella dottrina formale della Chiesa previa al concilio Vaticano II. Tuttavia, le primissime fonti cristiane testimoniano che i credenti ricevono un’unzione che li rende atti a conoscere e a confessare la verità del Vangelo (Giovanni, 2, 20-27) e che la Chiesa nel suo insieme, istruita dallo Spirito Santo, non può errare in materia di fede (Giovanni, 16, 13; 1 Timoteo, 3, 15). Il sensus fidei era un concetto noto ai teologi ben prima di diventare oggetto di riflessione sistematica. Molti cattolici associano il sensus fidelium al noto saggio del beato John Henry Newman Sulla consultazione dei fedeli in materia di dottrina (1859) e forse anche al rivoluzionario Jalons pour une théologie du laicat (1953) di Yves Marie-Joseph Congar. Altri potrebbero ricordare il suo esponente del XVI secolo, Melchor Cano, o il “canone” dell’apologista san Vincenzo di Lerino, del quinto secolo, sulla fede sostenuta ovunque, sempre e da chiunque (quod ubique, quod semper, quod ab omnibus creditum est). Di fatto, il sensus fidei è un tema che continua a interessare i teologi contemporanei, che però seguono vari approcci e non hanno adottato una definizione unica dei termini.
Nella convinzione che sia importante impegnarsi per una comprensione condivisa di tale dottrina, specialmente in vista della consultazione per l’imminente Sinodo sulla famiglia, la Commissione teologica internazionale ha preparato Sensus fidei nella vita della Chiesa. Il documento propone una spiegazione e un chiarimento teologici di alcuni aspetti del sensus fidei e suggerisce criteri per discernerne le manifestazioni autentiche. Il primo capitolo ripercorre le fonti bibliche del sensus fidelium, offre una prospettiva di come ha operato nella storia e nella tradizione della Chiesa e illustra l’insegnamento del concilio Vaticano II e il magistero postconciliare sull’argomento. Il secondo capitolo tratta la natura e le manifestazioni del sensus fidei fidelis nella vita personale del credente. Lo fa alla luce della comprensione classica secondo cui il sensus fidei è una proprietà della virtù teologale della fede.
Naturalmente il sensus fidei ha a che fare con la fede. Il primo capitolo inizia con l’illustrazione del ricco insegnamento biblico sulla fede quale risposta libera e decisiva dell’intera persona (Marco, 12, 30) alla Parola di Dio, e a Gesù Cristo stesso, resa possibile da un dono dello Spirito Santo (1 Corinzi, 12, 3). Implica l’adesione al messaggio evangelico del Signore crocifisso e risorto (1 Corinzi, 15, 1-2) e salda fiducia nelle promesse di Dio (Genesi 15, 6; cfr. Romani, 4, 11-17). La fede è sia personale sia ecclesiale, poiché ogni credente riceve e confessa la fede della Chiesa e vive quella “sola fede” nella comunità dei credenti (Efesini, 4, 4-6). La nozione biblica della fede implica più che un assenso intellettuale alle verità della rivelazione divina. Comporta pentimento e rinascita a una nuova vita in Cristo, preghiera e culto, conoscenza della verità del Vangelo di Dio, confessione di tale verità dinanzi ad altri, una fiducia in Dio che guida tutta la vita, servizio al prossimo e carità. In virtù del dono promesso dello Spirito Santo (Giovanni, 14, 16-26; 16, 1-17) i credenti sono in grado di conoscere e dare testimonianza della verità (Atti degli apostoli, 2, 17; cfr. Gioele, 3, 1). Sono in grado, sotto la guida degli apostoli e degli anziani, di risolvere questioni importanti per la comunità apostolica (Atti degli apostoli, 6, 1-6; 15, 7-22).
La seconda parte del primo capitolo spiega in che modo funzionava la convinzione riguardo al sensus fidei fidelium, vale a dire la capacità dell’intera Chiesa di sostenere e trasmettere la tradizione apostolica senza errore, nelle controversie patristiche e medievali. Dinanzi alle innovazioni nella dottrina e nella pratica, i padri e i teologi si appellavano al consenso universale dell’intera Chiesa (consensus fidelium) quale punto di riferimento certo. Fu determinante, per esempio, nello stabilire il canone della Scrittura e nel difendere la divinità di Cristo, la verginità perpetua e la maternità divina di Maria, nonché la venerazione e l’invocazione dei santi. Newman attribuì alla testimonianza dei fedeli laici il merito di aver svolto un ruolo fondamentale nelle controversie ariane post-nicene e nelle dispute medievali sulla presenza reale e sulla visione beatifica.
La prima elaborazione sistematica del sensus fidei fidelium avvenne nel XVI secolo. In risposta alle domande sollevate dai riformatori, alcuni teologi come Melchor Cano e Roberto Bellarmino identificarono fonti della Scrittura e nella tradizione che affermavano l’infallibilità dell’intera Chiesa nel credere e l’autorità del Papa e dei concili nell’insegnare. Il concilio di Trento aveva fatto appello all’universum Ecclesiae sensum, ma i teologi post-tridentini iniziarono a distinguere in maniera piuttosto netta i ruoli della Chiesa che insegna e della Chiesa che impara, e alcuni consideravano la prima attiva e la seconda passiva.
A ogni modo, la dottrina del sensus fidelium ricevette nuova attenzione come locus theologicus nell’opera di teologi del XIX secolo come Johann Adam Möhler, John Henry Newman e Giovanni Perrone, i quali si dedicarono alla tradizione e allo sviluppo della dottrina. Perrone sottolineò il contributo attivo dei fedeli laici alla conservazione e alla trasmissione della fede apostolica, per esempio alla definizione dell’Immacolata Concezione. Sostenne che il consenso unanime, o conspiratio, dei fedeli e dei loro pastori a tale dottrina fosse sufficiente per stabilirne le origini apostoliche. Anche Newman sottolineò il ruolo attivo dei fedeli, distinti dai loro pastori, e illustrò la sua tesi Sulla consultazione dei fedeli con interessanti testimonianze della tradizione. Papa Pio IX e i teologi comunque sottolinearono l’importanza della “testimonianza unanime” dei fedeli e dei loro pastori. Quando il concilio Vaticano I affermò che le definizioni dottrinali ex cathedra del Papa riguardanti la fede e la morale erano irreformabili «per virtù propria, e non per il consenso della Chiesa» (cfr. Pastor aeternus, DH 3074), intendeva escludere non la consultazione, bensì la pretesa gallicana che tale consenso, precedente o successivo, fosse una condizione necessaria per lo status autoritativo dell’insegnamento papale.
Nel XX secolo il sensus fidei emerse come tema nella teologia della tradizione, un’ecclesiologia rinnovata, e nella teologia del laicato. Apparve nella definizione dell’Assunzione di Maria di Papa Pio XII, e anche nell’opera di teologi come Yves-Marie-Joseph Congar, e fu confermato in modo esplicito dal Vaticano II. Il concilio insegna che lo Spirito Santo suscita e sorregge nei credenti un «senso soprannaturale della fede» (supernaturali sensu fidei), che si osserva quando l’intero popolo «mostra l’universale suo consenso in cose di fede e di morale» (Lumen gentium, n. 12). Il sensus fidei è una capacità attiva di comprendere la fede e di aderirvi. È lo strumento mediante il quale l’intera Chiesa, compresi i fedeli laici, partecipano al ministero profetico di Cristo (cfr. Lumen gentium, n. 35). Pur senza usare questa espressione, anche Dei Verbum (n. 8) afferma il sensus fidei in relazione allo sviluppo della dottrina. Il magistero post-conciliare ribadisce costantemente tale dottrina, ma mette in guardia dall’identificare il sensus fidelium con l’opinione pubblica.
Il secondo capitolo affronta il sensus fidei nella vita del credente, il sensus fidei fidelis. Questa dimensione del sensus fidei fu riconosciuta dai teologi patristici e medievali, ma il trattamento classico della sua natura e delle sue manifestazioni è stato articolato da san Tommaso d’Aquino. Questi esamina il sensus fidei in relazione alla virtù teologale della fede. Quale proprietà della fede e sorta di istinto spirituale, nasce dalla connaturalità affettiva, o affinità, tra il cristiano che conosce e ama la propria fede e le verità di fede stesse. Tale affinità può essere paragonata alla capacità di amici che, attraverso la conoscenza intima e l’amore, sono ciascuno in grado di prevedere ciò che rallegra o rattrista l’altro. In modo simile, colui che possiede la virtù infusa della fede ha un’affinità con l’oggetto della stessa, la verità della fede. In quanto virtù, la fede è una inclinazione soprannaturale e, come una “seconda natura”, dispone il credente a riconoscere ciò che è vero e a respingere ciò che è falso, non attraverso un processo di ragionamento, ma in maniera spontanea. Il sensus fidei, così inteso, esige “fede viva”, fede animata dalla carità. La sua azione è proporzionata alla santità di vita del credente, vale a dire alla sua conoscenza esperienziale delle realtà spirituali e alla sua ricettività verso i doni dello Spirito Santo, specialmente quelli della sapienza e dell’intelletto. Ciò avrà quindi delle implicazioni per l’identificazione di criteri.
L'Osservatore Romano