giovedì 31 luglio 2014

Un cristiano ucciso ogni 5 minuti

Cristiani  uccisi: più di 105mila all'annoLa strage taciuta: un cristiano ucciso ogni 5 minuti
di Massimo Introvigne

Il 4 aprile 2014, nella sua omelia di Santa Marta, Papa Francesco ha affermato: «Oso dire che forse ci sono tanti o più martiri adesso che nei primi tempi, perché a questa società mondana, a questa società un po’ tranquilla, che non vuole i problemi, dicono la verità, annunziano Gesù Cristo: ma c’è la pena di morte o il carcere per avere il Vangelo a casa, per insegnare il Catechismo, oggi, in alcune parti! Mi diceva un cattolico di questi Paesi che loro non possono pregare insieme. È vietato! Soltanto si può pregare soli e nascosti. Ma loro vogliono celebrare l’Eucaristia e come fanno? Fanno una festa di compleanno, fanno finta di celebrare il compleanno e lì fanno l’Eucaristia, prima della festa. E quando vedono che arrivano i poliziotti, subito nascondono tutto e continuano con la festa. Poi, quando se ne vanno, finiscono l’Eucaristia. Così devono fare, perché è vietato pregare insieme. Oggi».
Papa Francesco ha ricordato oltre venti volte, in meno di un anno e mezzo di pontificato, i cristiani perseguitati oggi nel mondo. Chissà perché, non è la parte del suo magistero su cui i grandi media insistono di più, anche se Francesco ha cercato di attirare l'attenzione su questo tema più di ogni altro Pontefice precedente e certamente più di qualunque leader politico mondiale. I capisaldi del magistero di Papa Francesco sui cristiani perseguitati sono quattro. Esaminiamoli insieme, perché ci dicono molte cose sia sui cristiani che oggi, non solo metaforicamente, tornano sulla croce in molte parti del mondo, sia sul perché l'Occidente tace.
Primo: «ci sono più martiri cristiani oggi che nei primi secoli della Chiesa». Il vero tempo dei martiri è il nostro. Era già un grande tema di san Giovanni Paolo II (1920-2005), il quale invitava a non dimenticare mai i martiri dl XX secolo, a partire dai cristiani uccisi da quel comunismo che conosceva così bene. Che ci siano più martiri nel nostro tempo che durante le persecuzioni romane è un dato di fatto supportato dalle statistiche. Il maggiore istituto di statistica mondiale sulle religioni è l’americano Center for Study of Global Christianity, diretto fino alla sua morte nel 2011 da David B. Barrett (1927-2011) e oggi dal professor Todd M. Johnson, che Papa Francesco ha ricevuto qualche mese fa. Nel 2000 l'Istituto volle contare i cristiani uccisi per la loro fede da Gesù Cristo alla fine del secolo XX.  Barrett concluse che le vittime cristiane nei primi due millenni erano state circa 70 milioni, di cui 45 milioni concentrate nel solo secolo XX. Il XX secolo da solo ha ucciso più cristiani di tutti gli altri secoli messi insieme.
Secondo insegnamento di Papa Francesco: i cristiani continuano a essere la minoranza più perseguitata oggi nel mondo. Anche questo è un dato statistico. Barrett e Johnson ci dicono che anche nel XXI secolo i cristiani rappresentano oltre il 75% delle persone perseguitate a causa della loro fede. È giusto parlare anche di altre minoranze perseguitate ieri e oggi (lo stesso Papa Francesco ha chiesto perdono per la complicità di cattolici nella persecuzione degli ebrei o dei pentecostali), ma diventa ipocrita se si dimentica la minoranza più grande e più perseguitata: i cristiani e, tra i cristiani, i cattolici. E i morti continuano a essere tanti. C'è una battaglia mediatica sulla cifra fornita da Johnson di 105.000 cristiani uccisi all'anno, un morto ogni cinque minuti. Soprattutto la Bbc è scesa in campo per contestare questa cifra, e anche studiosi seri, ma non specialisti di queste statistiche, come il mio amico e grande sociologo Rodney Stark la contestano. 
Molti però di quelli che criticano Johnson considerano discutibile soprattutto il suo uso della parola “martiri”. Anch'io penso che non sia appropriata, perché nella tradizione religiosa un martire è una persona che offre la sua vita esplicitamente per la fede. Se un villaggio cristiano è distrutto perché cristiano, non sappiamo se gli abitanti uccisi, posti di fronte alla scelta, avrebbero preferito morire piuttosto che rinnegare il cristianesimo. Ma questo non toglie che sono stati uccisi perché cristiani, non perché il nome del loro villaggio non era simpatico agli assassini. È anche opportuno precisare che una buona metà dei 105.000 morti annuali di Johnson sono uccisi in conflitti tribali africani, talora da assassini che nominalmente si dichiarano anche loro cristiani, perché si rifiutano di arruolarsi nelle milizie che combattono efferate guerre civili come quella del Congo. Ma Johnson include nel suo conteggio quanti motivano il rifiuto per ragioni di coscienza cristiane: anche loro sono uccisi per la loro fede, ancorché per motivazioni diverse da chi muore in Nigeria, Cina, Iraq o in Corea del Nord.
Terzo: Papa Francesco insegna che non basta contare i nostri morti, occorre chiedersi sempre perché ci perseguitano. In un’altra omelia di Santa Marta, il 4 marzo 2014, con il suo tipico linguaggio il Papa aveva definito la vita cristiana «un’insalata con l’olio della persecuzione». Ci perseguitano perché diciamo la verità, perché annunciamo un Vangelo che a vario titolo dà fastidio ai poteri forti e ai violenti di questo mondo, dai fondamentalisti musulmani al comunismo nordcoreano e alla dittatura del relativismo in Occidente. La solidarietà con i fratelli perseguitati è il punto di partenza, ma il punto di arrivo è la critica delle ideologie che li mettono a morte. È perché non vuole arrivare a questa critica che l'Occidente politico e mediatico così spesso nasconde le proporzioni dei genocidi dei cristiani.
E qui veniamo al quarto punto. Lo stesso Papa Francesco non dimentica mai di ricordare che noi cristiani siamo perseguitati anche in Occidente, da una dittatura del «pensiero unico» che discrimina e anche uccide chi non vi si conforma. Nel 2013 il Papa ha dedicato un piccolo ciclo di omelie di Santa Marta al tema del nuovo totalitarismo, al pensiero debole che si fa pensiero unico e impedisce ai cristiani di parlare, ispirandosi al romanzo Il padrone del mondo del pastore anglicano, figlio dell'Arcivescovo di Canterbury, convertito al cattolicesimo e divenuto sacerdote cattolico Robert Hugh Benson (1871-1914). Il 18 novembre 2013 il Pontefice ha paragonato lo scenario descritto da Benson con riferimento ai nostri tempi all'episodio biblico dei Maccabei, quando «il re prescrisse in tutto il suo regno che tutti formassero un solo popolo e ciascuno abbandonasse le proprie usanze. Non è la bella globalizzazione dell’unità di tutte le Nazioni, ognuna con le proprie usanze ma unite, ma è la globalizzazione dell’uniformità egemonica, è proprio il pensiero unico». È quello, ha spiegato il Papa, che oggi si chiama il nuovo ordine mondiale, che però la Bibbia chiama «abominio di devastazione» e adorazione di idoli imposti dai più forti.
«Questo succede anche oggi?» si è chiesto il Pontefice. E ha risposto: «Sì». Nel brano del Primo Libro dei Maccabei si legge che «se presso qualcuno veniva trovato il Libro dell’Alleanza e se qualcuno obbediva alla Legge, la sentenza del re lo condannava a morte», perché il re si era venduto ai nemici di Dio. «E questo», afferma il Papa, «l’abbiamo letto sui giornali, in questi mesi». Anche oggi i cristiani rischiano la prigione o peggio se si rifiutano di negoziare la loro identità. Il Pontefice ha dunque citato Il padrone del mondo. Il romanzo, ha detto Francesco, denuncia giustamente «quello spirito di mondanità che ci porta all’apostasia», uno spirito che minaccia la Chiesa ancora oggi. Infatti, ci sono ancora nella Chiesa, e sono tanti, coloro che pensano che «dobbiamo essere come tutti, dobbiamo essere più normali, come fanno tutti, con questo progressismo adolescente». Poi purtroppo «segue la storia»: la Bibbia mostra, per chi invece resta fedele, «le condanne a morte, i sacrifici umani». Sbaglia chi pensa che siano cose di un passato remoto. «Ma voi», ha chiesto il Papa, «pensate che oggi non si facciano, i sacrifici umani? Se ne fanno tanti, tanti! E ci sono delle leggi che li proteggono». 
Ogni riferimento all'aborto e all’eutanasia non è casuale. Ma la persecuzione è più generale. Sempre a Santa Marta il 29 novembre Francesco ha affermato che «il pensiero debole», cioè l'articolazione filosofica del relativismo, pretende oggi di diventare «pensiero unico». L'espressione «Io penso come mi piace» è presentata come elemento di libertà, ma è esattamente il suo contrario: è espressione dello «spirito del mondo, che non ci vuole popolo: ci vuole massa, senza pensiero, senza libertà». Il 28 novembre, ancora a Santa Marta, il Papa aveva mostrato quali sono le tremende conseguenze del relativismo che diventa «pensiero unico», collegandole all'azione del demonio nei tempi ultimi e alludendo di nuovo al romanzo «Il padrone del mondo», laddove ci mostra l'azione dei poteri forti manovrati dall'Anticristo negli ultimi giorni.  Attenzione, ha detto il Pontefice: questo non riguarda solo chi vive in pochi Paesi totalitari, riguarda tutti noi. «I cristiani che soffrono tempi di persecuzioni, tempi di divieto di adorazione, sono una profezia di quello che accadrà a tutti».

Apostoli della necro-ideologia


di Tommaso Scandroglio

Fare pressing. É questa una delle strategie vincenti che mette in campo il fronte pro-choice sui principi non negoziabili. Beppino Englaro ottenne il permesso di far morire di fame e di sete sua figlia da un giudice, dopo che sei suoi colleghi gli dissero di no. I Radicali, il giorno seguente  alla mazzata ricevuta dal referendum perso sulla legge 40, iniziarono a bussare alle porte dei tribunali di mezza Italia per vedere abrogata questa legge manu iudicis e ci sono riusciti. Poi un esempio fresco fresco. La Consulta apre all’eterologa e i sostenitori del figlio in provetta non si danno ai pazzi festeggiamenti ma si dicono: “Non basta. Ora vogliamo l’eterologa senza confini e guai se il Parlamento o il Governo vogliono mettere dei paletti”. Altro che strategia cattolica. Vi ricordate la famosa intervista rilasciata da un altissimo prelato all’indomani della vittoria referendaria sulla legge 40? Diceva più o meno così: abbiamo vinto sulla provetta ma non ci passa nemmeno per l’anticamera del cervello mettere in discussione la legge 194 sull’aborto.
Fare pressing dunque, stare con il fiato sul collo dell’avversario. Un saggio di questa tattica ci viene da un articolo a firma di Umberto Veronesi sulla Stampa pubblicato qualche giorno fa che tocca temi quali il caso stamina, la fecondazione eterologa e l’eutanasia. Facciamo opera di carotaggio. L’illustre oncologo butta nell’inceneritore qualche quintalata di leggi e di tradizione giuridica quando dichiara dopo poche righe: “Io penso che non è con le leggi che si possono guarire le persone o tutelare la loro salute”. Affermazione scolpita nel marmo della scienza che fa un po’ a pugni ad esempio con le normative che riguardano i protocolli clinici, il consenso informato, la responsabilità civile e penale del medico, i controlli sui farmaci ad opera dell’Aifa che è ente pubblico e sugli alimenti e su chi confeziona o vende gli stessi, i trattamenti sanitari obbligatori, i fenomeni di epidemia e pandemia e relativi vaccini, gli standard di sicurezza sui luoghi di lavoro e nella circolazione stradale e quelli attinenti alla costruzione di edifici (compresi gli stessi ospedali), i criteri per accedere alla professione medica, la tutela della salubrità dell’ambiente. E ci fermiamo qui per non ammorbare l’attenzione del lettore.
Dunque per Veronesi le leggi si devono astenere dal disciplinare la materia “salute e cure”. E a cosa servono allora le norme dello Stato per uno come lui che fa il medico? “E’ con le leggi che si dovrebbe garantire la libertà di scelta – tiene a precisare il nostro – hanno sbagliato i legislatori a vietare la fecondazione eterologa ed ora sbaglia il Ministero della Salute a frenarla con le briglie delle mancate linee guida. […] Obbligare e proibire è inutile se nessun provvedimento tutela la libertà del medico di agire secondo scienza e coscienza da un lato e la libertà del cittadino di curarsi o non curarsi, dall’altro”. Insomma in ambito clinico la suprema lex dovrebbe essere quella del “vietato vietare” caro ai sessantottini. L’unica norma legittima sarebbe quella che dicesse a medico e paziente: “fate come credete”. Ergo de-legittimazione totale, deregulation senza se e senza ma, libertà no limits.
E’ quello a cui puntavano i Radicali nel referendum del 1981 in merito alla legge 194 che volevano venisse completamente abrogata. E’ in fondo lo spirito che anima l’art. 4 della stessa legge che entro il 90° giorno permette di abortire sempre e comunque.Veronesi in fondo vuole una regola per non avere regole. Poi il frontman del diritto a morire tira in ballo la proposta di iniziativa popolare sull’eutanasia lamentandosi che è ormai quasi un anno che è stata depositata: “Il Parlamento ignora la questioni che riguardano il diritto di decidere”. Aggiunge infine che la parola “eutanasia” è stata equivocata ed è quindi meglio sostituirla con “libera scelta”: “la parola ‘scelta’ è un punto cruciale perché mette il diritto di morire sullo stesso piano degli altri diritti delle persona universalmente riconosciuti”. Peccato che per il nostro ordinamento la vita è un bene indisponibile e che abbia già da parecchi decenni legiferato sul tema e dunque non abbia per nulla ignorato la materia (vedasi tra gli altri gli artt. 575, 579, 580 cp e 5 cc).
Dunque lo Stato italiano ha già fatto la sua scelta ed ha scelto la vita. Per questo motivo il “diritto” a morire nel Bel Paese non esiste proprio e anzi l’effetto morte è considerato un reato se procurato da terzi con o senza il consenso della futura salma. E in merito alla scelta e al diritto di decidere, unico aspetto secondo Veronesi che la legge dovrebbe tutelare in campo medico, spesso si evoca l’art. 32 della Costituzione che al secondo comma così recita: “Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”. Ma al di là delle interpretazioni fuorvianti che la giurisprudenza ha prodotto su questo articolo nelle ultime decadi, l’art. 32 non dice: “Hai il diritto di rifiutare le cure anche quelle salvavita”, bensì impone allo Stato di non mettere le mani sulle persone senza loro consenso. E’ uno stop imposto al medico, non un via libera per il cittadino all’eutanasia. Pare che sia la stessa cosa, ma così non è. Nella Costituzione sono elencati alcuni ben individuati principi valoriali positivi: diritto alla vita, alle cure, all’educazione, al lavoro, etc. Di certo non ci può essere il diritto alle cure ed anche il diritto al rifiuto delle cure. Il diritto alla vita e il “diritto” alla morte o alla malattia.
La Costituzione ha fatto una scelta tra i beni da tutelare giuridicamente e non ci può essere tutto e il contrario di tutto. L’art. 32, nato come gli altri articoli all’indomani delle barbarie della Seconda Guerra Mondiale tra cui le sperimentazioni sugli ebrei, cristiani, zingari, persone omosessuali e malati psichici, dice semplicemente che non si può sottoporre ad esperimenti chi non vuole. Ma queste argomentazioni per i fan della necro-ideologia sono presto ridotte a meri sofismi sotto lo schiacciasassi del pressing a tutto campo.

Verso la sera della Trasfigurazione



Gli ultimi giorni di Paolo VI nei ricordi di uno dei medici che lo hanno assistito. 

(Renato Buzzonetti) Alle soglie dell’estate 1978, che si prospettava densa di eventi rischiosi, io ero preparato alle nuove fatiche e avevo rinunciato alla ferie estive, sfruttando la pazienza di mia moglie. Dal lontano settembre 1967 ero stato coinvolto nell’assistenza medica di Papa Paolo VI, a seguito di chiamata — improvvisa e mai nemmeno ipotizzata — del professor Mario Fontana, medico personale del Pontefice e mio diretto superiore nella sua duplice veste di primario dell’ospedale San Camillo, dove lavoravo, e di direttore dei Servizi sanitari vaticani, dove ero stato assunto part-time nel gennaio 1965 con la qualifica di “medico supplente”, incaricato di occasionali sostituzioni e guardie notturne.
Furono, quelli, giorni di grande impegno professionale e di forte passione spirituale, perché vedevo declinarsi dinanzi a me – a una distanza davvero ravvicinata e del tutto inusuale — una sintesi imprevedibile di gesti e di segni, che tratteggiavano il singolare profilo umano e cristiano di un grande Papa.
Venerdì 14 luglio, alle ore 18, accompagnato dal professor Fontana, Paolo VI si trasferì in elicottero a Castel Gandolfo. Da tempo lamentava astenia, facile esauribilità, difficoltà di concentrazione e una sete intensa, pur presentando in ordine i fondamentali parametri biologici. Dal medico personale fu prescritta una terapia iniettiva cosiddetta ricostituente, che nell’ultima settimana del mese fu eseguita da me.
Ma il Pontefice non trasse alcun giovamento dal cambiamento di clima e di ambiente.
Domenica 30 luglio ero presente all’ultimo Angelus di Papa Montini dal balcone interno del Palazzo apostolico di Castel Gandolfo. Pur provato, Paolo VI era vivace e attento, e scese a piedi, senza aiuto, al piano sottostante a quello della sua abitazione, per affacciarsi a guidare la preghiera mariana. Una bella fotografia scattata da Arturo Mari documenta uno di questi ultimi incontri con i fedeli.
Martedì 1° agosto il Pontefice, sofferente per un attacco febbrile con 38,2 gradi di temperatura, si recò alle Frattocchie, località vicina alla sua residenza, per pregare sulla tomba del cardinale Giuseppe Pizzardo. Questi, nella sua veste di segretario della Congregazione per gli affari ecclesiastici straordinari, nel 1923 gli aveva comunicato la nomina pontificia ad assistente ecclesiastico della Federazione universitaria cattolica italiana (Fuci) di Roma e nel 1924 lo aveva inserito definitivamente nei ruoli della Segreteria di Stato. Infine nell’ottobre 1925 fu monsignor Pizzardo a comunicargli la nomina di Pio XI ad assistente ecclesiastico centrale della Fuci. 
Questo pellegrinaggio di ricordi fu l’ultimo dei gesti compiuti da Paolo VI in quelle difficili settimane. Prima di partire da Roma per il soggiorno estivo, aveva voluto visitare alcuni cardinali infermi o molto anziani — tra i quali Alberto di Jorio — e, con specifica intenzione, il porporato che era stato un suo storico oppositore, il trasteverino Alfredo Ottaviani, antico suo superiore come sostituto della Segreteria di Stato nel problematico e non dimenticato 1933. Era stato l’anno delle dimissioni, imposte dai superiori, dall’ufficio di assistente centrale della Fuci, a seguito della campagna ostile scatenata dal cardinale vicario Marchetti Selvaggiani e da alcuni padri gesuiti per motivi politici, ecclesiali e persino liturgici.
Papa Montini voleva manifestare intatti sentimenti di gratitudine e di venerazione per i suoi antichi superiori e, nel contempo, confermare a se stesso di non portare sentimenti ostili verso chi lo aveva osteggiato anche dopo la sua elezione al Pontificato, con un cuore mondo da ogni residua amarezza e soltanto aperto al suo universale ministero di carità. Ormai il suo cuore di uomo e di cristiano batteva più in alto.
Mercoledì 2 agosto il vescovo di Roma tenne regolarmente l’udienza generale nel cortile del Palazzo di Castel Gandolfo e il 3 agosto ricevette l’onorevole Sandro Pertini, eletto presidente della Repubblica italiana il precedente 8 luglio. Questa udienza, che si protrasse per venticinque minuti, fu affrontata dal Papa, che aveva oltre 38 gradi di temperatura, con buono spirito ed energia. Pertini uscì piangendo e disse: di queste lacrime non ci si deve vergognare.
Da parte sua, il Papa commentò l’incontro, in cui presumibilmente aveva trattato argomenti importanti, chiedendo ai suoi intimi: «Sono stato bravo?». Era contento perché il presidente forse non si era accorto del suo stato di malattia ed egli aveva potuto rendere un ultimo servizio alla Chiesa e all’amata Italia.
La sera dello stesso giorno lo visitai: aveva la febbre alta. Mi feci coraggio ed eseguii un’osservazione clinica accurata e dettagliata. Diagnosticai un’infezione delle vie genitourinarie e prescrissi una terapia antibiotica per via iniettiva. La mattina seguente furono prelevati i campioni biologici per gli esami del caso. Come al solito, mio compito fu recapitarli in modo anonimo al laboratorio privato del professor Alessandrini a Roma, in viale Mazzini, perché il medico personale del Pontefice giustamente esigeva la massima segretezza. Tutti i risultati furono normali, inclusi l’esame delle urine e l’urinocoltura. Solo la creatinina, indice di sofferenza renale, era leggermente incrementata.
Nella notte tra venerdì 4 e sabato 5 agosto, verso le 2.30, il Papa chiamò il segretario monsignor Pasquale Macchi, suonando il campanello con un gesto assolutamente eccezionale e chiedendo aiuto. Pochi minuti dopo, il secondo segretario, padre John Magee, mi telefonava nella mia casa di Roma, dicendomi di correre a Castel Gandolfo. In effetti non esisteva una guardia medica vaticana in loco.
Il Santo Padre d’improvviso aveva avvertito una grave difficoltà respiratoria con fame d’aria, che lo aveva costretto a sedere sulla sponda del letto. La crisi broncospastica si esaurì nell’arco di circa trenta minuti con il solo ausilio di una bombola di ossigeno.
Io arrivai verso le 3.30 con la mia automobile e trovai l’episodio di insufficienza cardiaca acuta già migliorato, ma la pressione arteriosa si manteneva elevata (180/120) e all’ascoltazione del cuore si apprezzavano una spiccata tachicardia e un ritmo di galoppo, segno di grave compromissione cardiaca. Il quadro era di indubbia gravità. Praticai le cure del caso, che furono utili nel favorire il ritorno allo status precedente entro meno di sessanta minuti.
Le ore restanti della notte furono trascorse dal Papa con grande irrequietezza: cambiava ininterrottamente posizione nel letto, chiedeva acqua da bere, accusava dolorosa stranguria.
Al mattino la Sala stampa della Santa Sede annunciò la cancellazione dell’Angelus del giorno seguente, giustificandola con la ripresa dolorosa della nota artrosi del Papa. Non si osò dire la verità, contro il mio sommesso parere, per non scatenare i media già in agguato.
Nella giornata di sabato la febbre divenne più alta sino a sfiorare i 39 gradi, anche se il malato era soggettivamente meno sofferente. Nuovi esami di laboratorio consentirono di accertare un marcato peggioramento della funzione renale.
Alle 19 ebbe luogo un consulto del professor Fontana con il professor Fabio Prosperi, primario urologo del romano ospedale San Camillo, data l’assenza dall’Italia del professor Mario Arduini, insigne urologo, che nel passato aveva prestato la sua opera a Paolo VI. Prosperi confermò la mia diagnosi del 2 agosto e la relativa terapia.
Dal pomeriggio del 5 sino alla mattinata di domenica 6 agosto io rimasi accanto al Santo Padre o nell’Appartamento. 
La sera del 5 agosto il Papa era febbrile e visibilmente sofferente, ma lucido e sereno. Verso le 20.30, si levò dal letto e, indossati la vestaglia bianca, l’anello e lo zucchetto, si recò nella stanza vicina, l’elegante sala da pranzo di Clemente XIV. Qui cenò a tavola con i suoi due segretari e con me, consumando una frugale refezione. Diede uno sguardo al televisore acceso e a uno spot pubblicitario di Tino Scotti, attore che abitualmente divertiva il Pontefice, secondo quanto allora disse don Macchi.
I due segretari cercavano di stimolare la conversazione e Paolo VI interloquì sobriamente, tra l’altro ricordando che non aveva mai ballato né era mai andato a cavallo.
Levandosi da tavola, si soffermò dinanzi a un grande quadro sito su una parete e raffigurante una cavalcata settecentesca di un Papa. A me ignaro di etichetta pontificia Paolo VI fece notare la piccola croce disegnata sulla “sacra pantofola” allo scopo di favorirne il bacio da parte dei fedeli e di evitare la discesa del vescovo di Roma dal cavallo.
Successivamente, in un salotto vicino, con un plaid sulle ginocchia nonostante l’elevata temperatura ambientale, recitò austeramente il rosario, dialogando la preghiera mariana con i segretari e con me.
Quindi si recò nella cappella attigua alla camera da letto. Seduto, recitò compieta in latino e, sia all’ingresso sia all’uscita, fece una lunga genuflessione senza alcun sostegno.
Prima di allontanarsi, sostò qualche minuto in silenzio genuflesso sull’inginocchiatoio. Alle 22 circa tornò a letto.
La febbre si manteneva molto elevata, tuttavia il Santo Padre, seduto sul letto, dedicò mezz’ora alla lettura e alla firma di documenti, che la Segreteria di Stato era solita inviare al Papa dopo cena.
Poi ascoltò la lettura, fatta da don Macchi, del capitolo sesto su Gesù Cristo del Mon petit catéchisme di Jean Guitton, suo grande amico. Infine pronunciò la nota frase, piena di dolorosa attesa: «Adesso viene la notte».
L’assistenza notturna fu ripartita tra don Macchi e me. Mi toccò il turno dalle ore 2.45 alle ore 8. Il Papa era molto agitato, riusciva a dormire solo per pochi minuti e allora si accasciava su un cuscino, chiedeva da bere, domandava ripetutamente che ora fosse. Non mancarono fasi di obnubilamento del sensorio.
Nella mattinata di domenica 6 agosto giunse il professor Fontana. Questi mi chiese di praticare una fleboclisi sulle vene sottili del Pontefice e io ebbi successo sotto lo sguardo assorto degli astanti. La situazione clinica si manteneva critica, ma alquanto stabilizzata.
Tornai a Roma per qualche ora per cambiarmi e per visitare mia suocera, che era reduce da una crisi stenocardica. Ma fui ben presto raggiunto da una telefonata del segretario, che mi chiedeva di tornare subito a Castel Gandolfo. Arrivai verso le 14. Ero digiuno. Mi fu offerta una coppa di gelato, inviato in dono al Papa da un bar del paese.
Le ore del pomeriggio furono contraddistinte dal crescente stato di sofferenza e irrequietezza del malato. La febbre e la pressione arteriosa si mantenevano su livelli molto elevati. Qualcuno ricordò che il 6 agosto 1964, nella luce della Trasfigurazione, Paolo VI aveva firmato la sua prima e programmatica enciclica Ecclesiam suam. Nel vespro domenicale il magistero e la missione di Papa Montini giungevano al loro terreno compimento.
Alle 17.50 don Macchi iniziò la celebrazione della messa della festa della Trasfigurazione nella cappella attigua, comunicante con la stanza da letto del Papa. Accanto all’infermo, padre Magee ripeteva o suggeriva le parole del celebrante. Credo sia stato il primo giorno della sua vita sacerdotale in cui Paolo VI non celebrò la messa o almeno uno dei pochissimi. 
Era perfettamente cosciente e si associava con voce fioca e spezzata dalla dispnea. Durante la recita del Credo, ripeté due volte le parole apostolicam ecclesiam. Fu l’ultima, solenne e appassionata professione di fede del Papa del Concilio Vaticano II, che — il 30 giugno 1968, sul sagrato di San Pietro — aveva proclamato il Credo del popolo di Dio.
Verso le ore 18.15, all’inizio della consacrazione, il respiro del malato diventò estremamente affannoso in ragione del broncospasmo sopravvenuto. Paolo VI venne messo a sedere sulla sponda del letto e io auscoltai il torace, mentre si evidenziavano tutti i segni clinici dell’edema polmonare acuto. Consapevolmente decisi di invitare don Macchi a offrire l’Eucarestia senza indugi, dandogli la precedenza per pochi secondi rispetto agli urgenti atti medici.
Il Papa indossò la stola bianca e ricevette il santo viatico sotto le due specie, mentre io mi apprestavo a effettuare le prestazioni del caso. Il professor Fontana, frattanto rientrato da Roma, riuscì a effettuare, secondo i protocolli dell’epoca, un salasso efficace. Nel frangente don Macchi chiese al Papa se desiderasse l’unzione degli infermi. La risposta fu: «Subito, subito». Montini partecipava al rito offrendo le parti del corpo che dovevano essere segnate con l’olio santo e rispondeva alle preghiere in latino. Si è scritto poi erroneamente che il sacramento degli infermi era stato amministrato dal cardinale Jean Villot, in quel momento non presente.
Giunsero anche altri flaconi da salasso, ottenuti con difficoltà dall’ospedale Regina Apostolorum di Albano, previa autorizzazione di don Macchi.
Dopo le 19 si notò un leggero miglioramento, pur persistendo un’intensa cianosi dei letti ungueali e una ben visibile venostasi.
Il Papa pregava con voce flebile e spezzata e guidava la preghiera di chi lo circondava nella recita dell’Ave Maria, del Magnifcat, dell’ignaziano Anima Christi, di alcuni salmi e, soprattutto, del Pater noster, poi ripetuto a fior di labbra sino alla fine: Et factus in agonia, prolixius orabat (Luca, 22, 43).
Il Papa morente, ormai disancorato da ogni legame terreno e proteso verso la casa del Padre, offriva la sua testimonianza sacerdotale ed esemplare di una “buona morte”.
Verso le ore 20 la pressione arteriosa si manteneva elevata e la temperatura corporea era salita a 42 gradi.
Nell’ambiente c’era un caldo umido e opprimente: nei locali non esisteva l’impianto dell’aria condizionata. Più tardi si notò un accenno di saluto fatto dal morente con la mano sinistra. Frattanto nella stanza erano convenuti i familiari del Papa: i due segretari, l’aiutante di camera Franco Ghezzi, le quattro suore di Maria Bambina che vivevano nell’Appartamento pontificio. A essi si aggiunsero il cardinale Villot, segretario di Stato, monsignor Giuseppe Caprio, sostituto, Marco Montini, pronipote del Papa, e infine il gesuita padre Paolo Dezza, confessore del Papa. Questi giunse dopo che il malato aveva perso coscienza e disse: «Tutta la Compagnia di Gesù è vicina a Vostra Santità» e poi lo assolse in articulo mortis.
Infatti intorno alle 21 il papa era entrato serenamente in coma. Don Macchi ed io gli tenevamo la mano sinistra. Alle 21.40 di domenica 6 agosto, festa della Trasfigurazione, Paolo VI spirò.
Il professor Fontana e io constatammo il decesso. Pochi istanti dopo trillava la piccola sveglia, dono della mamma, che Montini portava sempre con sé dai tempi lontani del servizio di addetto presso la nunziatura di Varsavia, e che quella mattina era stata caricata maldestramente da don Macchi.
Io rapidamente procedetti all’esecuzione dell’elettrocardiotanatogramma, perché monsignor sostituto voleva trasmettere la notizia in Segreteria di Stato e al mondo entro il più breve tempo possibile.
Mio compito successivo fu quello di aiutare i segretari e Ghezzi nella lavanda e nella vestizione della salma, la cui pelle scottava come il fuoco a causa della febbre elevata presente all’atto della morte, dell’umidità e del calore ambientale.
Ricordo che sotto la veste bianca pontificale fu messo un gilet anch’esso bianco, che Paolo VI abitualmente indossava.
Alla fase finale di questo pietoso compito si unirono le suore della casa e il sopraggiunto monsignor Virgilio Noè, Maestro delle celebrazioni liturgiche pontificie. Ai piedi del defunto Papa fu messo, al posto dei mocassini abituali, un paio di scarpe rosse, le stesse che aveva indossato nel primo viaggio in Terra Santa e poi in tutti i viaggi apostolici sino a quello che, cadavere, lo avrebbe ricondotto a Roma: beati pedes evangelizantium pacem.
Fu rivestito da una casula color rosso, che a me subito ricordò il rosso porpora del frammento di tessuto regale che ricopriva le ossa rinvenute nella necropoli vaticana e da Paolo VI ritenute appartenere all’apostolo Pietro, come disse nell’udienza generale del 26 giugno 1968. 
Al dito anulare destro fu posto l’anello del Concilio, tra le mani si notava una corona del rosario donatagli dai fucini in anni lontani, sui polsini spiccavano i gemelli con la scritta “pace” in giapponese, dono di don Macchi, sul cuore stava il piccolo e povero crocifisso in legno, che da sempre aveva il suo posto sul comodino della camera da letto.
Verso le ore 01 del 7 agosto toccò a me leggere il comunicato sulla morte, scritto dal professor Fontana, dal segretario e da me, attraverso una telefonata a un giovane monsignore della Segreteria di Stato. Dopo molti anni scoprii che questi era Leonardo Sandri.
In effetti, io avevo suggerito di pubblicare una nota che, al di là del certificato di morte, spiegasse l’evoluzione tumultuosa degli eventi clinici al fine di raccordare la tranquilla diagnosi di artrosi del sabato con il decesso.
I giornali ritennero che il testo fosse un bollettino ufficiale e inventarono una firma ufficiale mai apposta da Fontana e da me, benché entrambi fossimo soltanto citati. E infatti in tale forma fu registrato nelle pubblicazioni della Santa Sede.
Alle ore 1.45 della notte — era ormai lunedì 7 agosto — rifiutai la cena e andai a dormire in una stanza dell’Appartamento. Don Macchi rimase solo, per l’intera notte, accanto al Papa defunto, a pregare e a piangere.
Alcuni anni prima, Paolo VI, rimasto solo con me nella sua camera da letto, mi disse a sorpresa: «La ringrazio per la sua continua presenza... nello sfondo». Quel giorno le parole del Papa io le avevo ben presenti e serenamente rientrai “nello sfondo”.

*

Papa della riconciliazione. Quando Paolo VI andò a pregare sulla tomba del cardinale Pizzardo

(Carlo Di Cicco) Paolo VI, insieme a Giovanni XXIII al quale era fortemente legato, è stato e resterà nella mia mente il papa del concilio Vaticano II. Diversi per caratteristiche, Roncalli e Montini erano spiritualmente assimilati dall’amore alla Chiesa e dal desiderio di renderla capace di annunciare il Vangelo in modo trasparente e comprensibile agli uomini loro contemporanei. Il riconoscimento della santità dei due maggiori artefici del concilio diventa una chiave di lettura autentica e autorevole per comprendere anche la missione di Papa Francesco, ancorato al concilio considerato un dono di Dio che la Chiesa, anziché discutere, è chiamata a mettere in pratica. 
Si deve a Paolo VI se le grandi intuizioni giovannee hanno trovato concretezza per diventare realtà operanti nella vita quotidiana cristiana. Con Montini, infatti, la celebrazione del concilio si è completata avviandone i cambiamenti richiesti. Alcuni enormi e tutti benefici nell’ambito della liturgia, nella rinnovata coscienza di Chiesa, nel modo di intendere il papato e il suo esercizio, nella Curia romana, nella vita religiosa, nel rapporto tra le Chiese e le religioni, nella comprensione reciproca tra Chiesa e mondo moderno, tra credenti e non credenti, nell’impegno per la giustizia e la pace, nell’aggiornamento della dottrina e della pastorale.
Con il riconoscimento autorevole della santità di vita di Giovanni Battista Montini anche la comprensione più serena del suo pontificato riceve una spinta fortissima e aiuta a cogliere meglio parole e gesti di umanesimo integrale che lo hanno segnato fino agli ultimi giorni della sua vita.
Vorrei ricordare uno di questi gesti, apparentemente minore, ma indicativo della finezza umana di questo pontefice radicata nella sua umiltà cristiana.
Era martedì 1 agosto 1978. Come di consueto il Papa si era trasferito a Castel Gandolfo. Cinque giorni dopo, Trasfigurazione del Signore, Paolo VI sarebbe morto. Anche per me era giunto il tempo delle ferie. Ma, come giornalista vaticanista, mi accompagnava una sottile inquietudine che lasciava in bilico la decisione di partire o restare. La visita del Pontefice annunciata quasi a sorpresa alla tomba del cardinale Giuseppe Pizzardo, in località Frattocchie, poteva essere un buon punto di verifica del suo stato di salute. 
Quel pomeriggio ad attendere l’arrivo del Papa eravamo anche due giornalisti di agenzia spinti dallo scrupolo professionale. Non potevamo immaginare che saremmo così diventati gli ultimi giornalisti a parlare con lui al di fuori dei recinti vaticani. 
Ragionavamo tra noi, ma non riuscivamo a cogliere il senso di quella visita che il mondo dell’informazione riteneva di minore interesse: pregare sulla tomba di un cardinale defunto da otto anni, che allora quasi più nessuno ricordava. 
Nell’attesa del Papa, un prelato ci ricordò che proprio per le sue aperture coraggiose, Montini aveva avuto a soffrire da quel porporato. La tomba di Pizzardo si trova a poca distanza dalla residenza estiva papale. Tuttavia Paolo VI, negli otto anni seguiti alla sepoltura, mai vi si era recato. Perché — ci chiedevamo noi cronisti — succedeva adesso, dopo l’amarezza provata in maggio per l’assassinio di Aldo Moro e le sue richieste a Dio per l’amico ucciso formulate con la forza biblica di antichi profeti e dopo l’omelia nella solennità dei santi Pietro e Paolo, una sorta di testamento, nella quale il pontefice aveva sottolineato che la sua vita volgeva al tramonto? Indizi sufficienti per sentire che qualcosa stesse per succedere.
Fu così che decidemmo di abbordare direttamente Paolo VI. Cosa che, nella confusione creata nella piccola chiesa al termine della preghiera e delle parole dette dal Papa sulla fede, ci riuscì per un breve momento.
Ci avvicinammo e con l’altare tra noi e lui gli chiedemmo il perché di questa visita. Egli rispose sereno e pacato che la riconciliazione era una valore cristiano anche per un Papa. Parole che ci illuminarono a giorno. Guardammo con altri occhi Paolo VI che ci parve stanco ma come pacificato. Andammo ad aspettarlo alla curva di Frattocchie dove nel rallentamento obbligato della vettura scoperta lo guardammo l’ultima volta incurvato: ci vide e parve darci un saluto di addio. Tanto restammo inquieti che, nonostante la breve udienza generale del giorno successivo nel Palazzo Apostolico e l’incontro del 3 agosto con il presidente Pertini, chiesi con inconsueta insistenza al vice direttore della sala stampa della Santa Sede, in assenza del direttore, conferme sulla salute del Pontefice. Mi rassicurò più volte. Non ne fui del tutto convinto e senza fare la valigia cominciai le ferie domenica 6 agosto restando a Roma. La sera si diffuse la notizia della morte di Paolo VI.
L'Osservatore Romano

Don Bosco a casa di don Gius



Don Bosco e la "Società dell'allegria"

Il Meeting di Rimini rende omaggio al grande santo piemontese nell'imminenza del bicentenario della nascita

L’anno prossimo cadrà il bicentenario della nascita di San Giovanni Bosco (1815-1888) e, tra le decine di iniziative per celebrare il fondatore dei Salesiani, non mancherà una mostra al Meeting di Rimini.
La società dell’allegria. L’oratorio di don Bosco: «Questa è la mia casa!» è il titolo dell’esposizione in programma a Riminfiera dal 24 al 30 agosto 2014.
Alcune anticipazioni sulla mostra sono state fornite da Davide Cestari, uno dei curatori.
Come sarà strutturata la mostra?
Voglio subito precisare che la mostra dedicata a don Bosco non è stata fatta da “esperti” ma è nata da un gruppo di amici che si sono imbattuti in questa figura e si sono lasciati colpire. Molti di noi conoscevano appena San Giovanni Bosco ed è stato entusiasmante approfondire e guardare la sua vita. È impressionante vedere come da una collina come quella dei Becchi, vicino a Torino, dalla povertà assoluta che si viveva a fine ’800, sia venuta fuori una storia e una presenza come quella dei salesiani oggi. È stato inevitabile chiedersi come poteva spiegarsi tutto quello che da don Bosco è nato, come faceva a essere così, che educazione aveva ricevuto, che incontri costruirono la sua personalità. La cosa evidente a tutti è stata che solo l’intervento del Mistero, di Dio, poteva dar vita a una capacità così profonda e vera di amare e di “ricostruire” i giovani soli e abbandonati incontrati in carcere e nelle periferie di una città che stava cambiando faccia così rapidamente come la Torino di allora.
Solo il Mistero poteva aprire la porta del cuore di quei ragazzi: «L’educazione è cosa di cuore, e solo Dio ne è padrone, e noi non potremmo riuscire a cosa alcuna se Dio non ce ne insegna l’arte e ce ne dà in mano le chiavi».
La mostra racconta semplicemente alcuni fatti della sua vita, chiedendo a tutti di guardarla con gli occhi dei bambini (la mostra nasce principalmente per i più piccoli ed è collocata all’interno del Villaggio Ragazzi del Meeting), lasciandosi stupire e interrogare. Inoltre la mostra ha sì una parte di pannelli, ma proprio sulla scia di don Bosco, abbiamo pensato di creare uno spazio dove è possibile vivere come all’Oratorio di Valdocco: una “Società dell’allegria”! Un luogo da vivere insieme, ragazzi e adulti, e dove incontrare quello sguardo - attraverso giochi, musica e racconti - che faccia compagnia al nostro cuore oggi.
Don Bosco credeva nell'allegria come una strada per la santità: qual è il fondamento dell'allegria salesiana?
Papa Francesco ha detto recentemente: «Non siate mai tristi: un cristiano non può mai esserlo! La nostra non è una gioia che nasce dal possedere tante cose, ma dall’aver incontrato una Persona: Gesù, dal sapere che con Lui non siamo mai soli, anche nei momenti difficili, anche quando il cammino della vita si scontra con problemi e ostacoli che sembrano insormontabili».
Credo che la gioia, l’allegria che viveva e trasmetteva don Bosco - la strada alla santità - è esattamente questa: la certezza, per dirla con il tema del Meeting, che “il Destino non ha lasciato solo l’uomo”, ma gli è venuto incontro per accompagnarlo nel suo cammino. Questa è l’esperienza che facevano i ragazzi di don Bosco: si sentivano amati in modo vero. E per chi ha fatto questo incontro la vita non può essere che “allegra” anche nelle circostanze più difficili e dolorose, come accadeva per i carcerati che don Bosco andava a trovare e che riscoprivano la propria dignità facendo catechismo con lui dietro le sbarre.
Che questa sia la strada alla santità lo dimostrano i santi e beati che da quello sguardo sono stati educati: Domenico Savio, morto a soli 15 anni; don Michele Rua, beato, il primo successore di don Bosco; Santa Maria Domenica Mazzarello, cofondatrice delle Figlie di Maria Ausiliatrice. Ma la stessa vita di don Bosco è stata accompagnata da santi e beati: la prima, mamma Margherita, di cui è in corso la causa di beatificazione, San Giuseppe Cafasso, che è stata la sua guida spirituale o la serva di Dio Marchesa Giulia di Barolo, che lo ha aiutato agli inizi della sua missione.
L'oratorio di don Bosco sorge a Torino, prima capitale del Regno d'Italia, proprio negli anni dell'unità del Paese. Possiamo dire che anche questo santo ha contribuito a fare l'Italia? Quanto c'è di "italiano" in lui?
Don Bosco vuole fare dei «buoni cristiani e [per questo] buoni cittadini». Insegna ai ragazzi la storia d’Italia, il sistema decimale e scriverà tantissimi libretti per favorire il loro apprendimento. Scrive anche i primi contratti di apprendistato per contrastare lo sfruttamento dei suoi ragazzi. Mette su laboratori per insegnare i mestieri che lui aveva imparato da ragazzo, delle vere scuole professionali.
Nella mostra realizzata al Meeting in occasione dei 150 anni dell’Unità d’Italia c’era una parte dedicata proprio ai santi piemontesi. In quel periodo storico Torino è anche la città in cui fioriscono esempi bellissimi di “santità sociale”.
Non si può pensare a queste persone come ai protagonisti di una storia parallela al Risorgimento nazionale, o addirittura come a nemici del processo unitario. Lo stesso don Bosco accusato più volte di essere un sobillatore verrà fatto oggetto di violenze e attentati - dirà sempre di non volere fare politica - ma manterrà sempre i rapporti con le istituzioni, giudicandole con lucidità, senza fermarsi alle contrapposizioni ideologiche. Del resto non esita a servirsene per difendere le sue opere.
La mostra sorge nel contesto del Meeting di Rimini, nato dall’incontro di alcuni giovani con un altro grande educatore: don Luigi Giussani. È possibile un parallelo tra questi due giganti della Chiesa italiana, vissuti a un secolo di distanza?
Don Giussani portava don Bosco come esempio: «Coloro che vedendo San Giovanni Bosco sentivano un richiamo a una vita cristiana più piena, più dedicata si sono messi insieme, hanno dato vita ai Salesiani, secondo tutte le loro gradazioni fino alle confraternite per gli ex-allievi. L'associarsi è indispensabile per vivere sul serio quello che ci ha colpito».
Dio suscita sempre in qualcuno un particolare “dono” per aiutare la sua Chiesa a camminare in ogni epoca. E, come stiamo imparando anche oggi, ogni circostanza è sempre un’occasione che il Signore permette per farci maturare. Chiaramente ci sono molte analogie tra le sfide di oggi e quelle di fine ’800. Ma un parallelo tra i due educatori è difficile e finirebbe per ridurre l’uno e l’altro. Sicuramente tutti e due sono stati mossi da una passione per i giovani e per comunicare loro la bellezza della vita che nasce dall’incontro con Cristo. Hanno speso la vita per loro totalmente e con letizia. Don Bosco incontrando i ragazzi nelle carceri e nella periferia di Torino, don Giussani al liceo Berchet di Milano. Una cosa è sicura: il cuore dei ragazzi - il cuore dell’uomo - è sempre lo stesso. È alla ricerca di qualcosa che compia il proprio desiderio di felicità.
Rimanendo a don Giussani e ad un tema a lui caro: qual è l'attualità di don Bosco di fronte all'emergenza educativa?
La situazione del mondo giovanile è sicuramente cambiata. Tuttavia, come ha detto Giovanni Paolo II in occasione del centenario dalla morte di don Bosco «anche oggi permangono quelle stesse domande, che il sacerdote Giovanni Bosco meditava sin dall’inizio del suo ministero, desideroso di capire e determinato ad operare. Chi sono i giovani? Che cosa vogliono? A che cosa tendono? Di che cosa hanno bisogno? Questi, allora come oggi, sono gli interrogativi difficili, ma ineludibili che ogni educatore deve affrontare».
Il “sistema preventivo” di don Bosco basato su “ragione, religione e amorevolezza” che ha consegnato ai suoi salesiani, è sicuramente il tratto distintivo della sua “genialità” educativa.
La consapevolezza di un bene che sta nel profondo dei ragazzi, nonostante la noia e a volte la disperazione che li caratterizza, è indispensabile in chi oggi voglia educare. Di fronte all’emergenza educativa, mi sembra importante che ci siano educatori che possano testimoniare ai ragazzi una reale esperienza di bene, che accade prima di tutto in loro, di una ragione aperta alla realtà, così come abbiamo imparato da don Giussani.
L. Marcolivio

Non è del male l’ultima parola



L’istinto della vendetta e il rifiuto di una logica di morte. 

(Enzo Bianchi) Perché il perdono è un tema così decisivo nella nostra vita umana e cristiana? Perché la nostra vita conosce il male, questa contraddizione, questa negazione del bene che non possiamo rimuovere né negare. Il perdono ha a che fare con il male, il male che noi facciamo a noi stessi e agli altri, il male che gli altri ci fanno. Il male — nelle sue varie forme del cattivo pensare, del malvagio agire, dell’offensivo parlare — è una realtà nella nostra vita e nelle nostre relazioni. Il male, dice Gesù, è ciò che nasce dal nostro cuore e diventa aggressività, violenza, odio verso gli altri e verso noi stessi (cfr. Marco, 7, 20-23; Matteo, 15, 18-20). Il male è ciò che io faccio nonostante voglia fare il bene, confessa l’Apostolo Paolo (cfr. Romani 7, 18-19). 
Non a caso le domande che rivolgiamo a Dio nel Padre nostro, la preghiera insegnataci da Gesù, sono: «Non abbandonarci alla tentazione» e «Liberaci dal male» (Matteo, 6, 13); e queste richieste sono precedute da quella del perdono di Dio, invocato perché ci renda capaci di perdonare i nostri fratelli: «Rimetti a noi i nostri debiti, come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori» (Matteo, 6, 12).
Il male come azione malvagia compiuta da noi esseri umani ci accompagna per tutta la vita. Nel quotidiano il più delle volte non è epifanico, non ha conseguenze vistose; in alcune circostanze invece esplode e ci spaventa, provocando in noi indignazione. In ogni caso, il male è sempre banale… L’uomo si abitua al male, e soprattutto la violenza può nutrire il male, farlo crescere fino alla negazione dell’altro, degli altri. Siamo sinceri con noi stessi: non arriviamo talvolta alla tentazione di voler vedere scomparire chi ci è nemico, di voler vedere escluso dal nostro orizzonte un altro che ci ha fatto del male? Non siamo tentati di ripagare con lo stesso male chi ci ha fatto del male? Non giungiamo perlomeno a sperare il male per chi ci ha fatto soffrire?
Questo è il nostro istinto di conservazione: vogliamo vivere e vivere a ogni costo, anche senza gli altri e magari contro gli altri. Siamo tutti malati di philautía, l’egoistico amore di noi stessi, e quando siamo offesi il nostro istinto è quello di difenderci attaccando, non diversamente dagli animali. Siamo tentati di rispondere al male con il male, alla violenza con la violenza, alimentando così una spirale di odio e di vendetta che ben presto finisce per mostrare la sua qualità mortifera. Noi esseri umani, in verità, sappiamo che per intraprendere il cammino di umanizzazione in vista di una vita piena di senso, di una vita segnata dalla qualità della convivenza, dobbiamo impedire la vittoria del male su di noi e la spirale di violenza che ne consegue: è qui che si colloca il perdono, che è innanzitutto, umanamente, un’interruzione del male, un porre un argine al male, un dire no a una logica di morte.
È significativo in questo senso che il Nome di Dio rivelato a Mosè sia: «Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e compassionevole, lento all’ira e grande nell’amore e nella fedeltà, che conserva la sua grazia per mille generazioni, che perdona la colpa, la trasgressione e il peccato» (Esodo, 34, 6-7). E Gesù con tutta la sua vita ha cercato di narrarci questo volto di Dio fino a vivere lui stesso, in prima persona, il perdono fino all’estremo. Perdono donato anche ai suoi carnefici, ai suoi aguzzini, a quanti lo hanno condannato a morte, a quanti lo hanno angariato durante la sua esecuzione: «Padre, perdona loro perché non sanno né quello che dicono né quello che fanno» (cfr. Luca, 23, 34). Proprio per aver ricevuto la testimonianza e l’insegnamento di Gesù, Paolo nella Lettera ai Romani ha potuto rivelarci Dio quale fonte di ogni perdono. Ascoltate questo straordinario annuncio dell’Apostolo: «Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi. A maggior ragione ora, giustificati nel suo sangue, saremo salvati dall’ira per mezzo di lui. Se infatti, quand’eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo, molto più, ora che siamo riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita» (Romani, 5, 8-10).
Si pensi a questa scandalosa simultaneità: mentre noi odiamo Dio, Dio ci ama e ci perdona; mentre noi siamo peccatori, Dio ci riconcilia con sé. Questo è il cristianesimo, a tal punto che Hannah Arendt, una filosofa ebrea e non credente, è giunta a scrivere: «A scoprire il ruolo del perdono nell’ambito delle relazioni umane fu Gesù di Nazaret». Questo è lo scandalo della croce di Cristo (cfr. 1 Corinzi, 1, 23), e solo nella folle logica della croce (cfr. 1 Corinzi, 1, 18.23.25) si può comprendere il perdono di Dio verso di noi, e quindi il nostro perdono verso noi stessi e gli altri.
Il male commesso è irreversibile, resta male anche dopo il perdono, ma può essere trasceso. Con il perdono, chi ha subìto il male irreversibile ricrea le condizioni per un nuovo inizio nella relazione con l’altro: questa è l’azione dello Spirito santo il quale — come recita l’orazione Super oblata del sabato della VII settimana di Pasqua — «è la remissione dei peccati» (Quia ipse [Spiritus sanctus] est remissio omnium peccatorum), è il perdono che ricrea vita là dove c’è morte, che rimette in piedi chi è caduto, che fa di un peccatore una nuova creatura. Sì, il perdono attesta che l’ultima parola non spetta al male commesso, ma alla grazia, all’amore!
L'Osservatore Romano

Passione unica



Dalla realtà rurale all’annuncio nelle grandi città. 

Alla luce dell’Evangelii gaudium. Esce il 2 agosto il nuovo numero del quindicinale «La Civiltà Cattolica». Anticipiamo alcuni stralci dell’articolo dedicato al rapporto tra evangelizzazione, mistica popolare e pastorale ubana alla luce dell’Esortazione apostolica di Papa Francesco Evangelii gaudium.
(Jorge R. Seibold) L’Esortazione apostolica di Papa Francesco dal titolo Evangelii gaudium, pubblicata a Roma il 24 novembre 2013, tratta dell’annuncio del Vangelo nel mondo attuale. Qui intendiamo riflettere su alcuni aspetti particolari che vi sono indicati quando la «nuova evangelizzazione» viene messa in rapporto con la «pietà popolare», la «mistica popolare» e la «pastorale urbana», così come Papa Francesco li presenta in quell’Esortazione.Sono aspetti molto vincolati alla ricca esperienza spirituale latinoamericana, espressa in molti modi, e più in particolare nel Documento di Aparecida del 2007. 
Il primo tema della nostra indagine viene trattato esplicitamente nel terzo capitolo dell’esortazione, intitolato «L’annuncio del Vangelo» (110-175). Papa Francesco apre il n. 122 affermando il ruolo evangelizzatore che hanno i popoli ove il Vangelo è già penetrato nelle culture, con le quali si sentono identificati. Ciò fa sì che ogni popolo trasmetta «la fede in modi sempre nuovi; da qui l’importanza dell’evangelizzazione intesa come inculturazione». Il Papa, ispirato dai testi delle Conferenze generali dell’episcopato latinoamericano e dei Caraibi nei Documenti di Puebla (1979) e di Aparecida (2007), afferma esplicitamente che «il popolo evangelizza continuamente se stesso». È in questo contesto che la «pietà popolare» viene citata per la prima volta nell’esortazione, come «autentica espressione dell’azione missionaria spontanea del Popolo di Dio. Si tratta di una realtà in permanente sviluppo, dove lo Spirito Santo è il protagonista». Subito dopo Papa Francesco riconosce (n. 123) che la «pietà popolare» è una realtà che è stata rivalutata negli ultimi anni del XX secolo, in particolare a partire dalla Evangelii nuntiandi di Paolo VI nel 1976, e confermata, più di recente, nell’apertura della V Conferenza di Aparecida (2007), quando anche Benedetto XVI ha segnalato che essa è «un prezioso tesoro della Chiesa cattolica» e che in essa «appare l’anima dei popoli latinoamericani».
A parlare, qui, non è soltanto la dottrina del Documento di Aparecida, bensì la stessa esperienza di Papa Francesco, che da giovane prese parte a queste grandi manifestazioni di fede popolare nella sua patria argentina, come ha dimostrato ampiamente nella «Giornata mondiale della gioventù» svoltasi a Rio de Janeiro nel luglio 2013, in cui si è prodigato totalmente. 
Questo capitolo dedicato alla «pietà popolare», intesa come espressione fiduciale e apostolica, si conclude nel n. 126, in cui la «pietà popolare» è collocata come «luogo teologico» al quale occorre fare ricorso quando s’intende pensare la nuova evangelizzazione. Quanto detto fin qui ci prepara meglio ad addentrarci di più nel «senso mistico» della «pietà popolare».
Sia il testo di Aparecida sia l’esortazione legano intimamente tra loro la «pietà popolare» e la «mistica popolare». In verità queste hanno una propria fisionomia, che le distingue una dall’altra, ma al tempo stesso possiedono molti lineamenti comuni che le legano strettamente tra loro. Tante volte esse sono state ritenute molto diverse, quando la «pietà popolare» è stata considerata qualcosa di «meramente esteriore» che caratterizza il comportamento del popolo fedele di Dio, mentre la «mistica» sarebbe qualcosa di «meramente interiore» e prodotta nel soggetto dall’agire di Dio attraverso segni e portenti tali da riservare una simile grazia a una cerchia ristretta di eletti. Sicché la «pietà popolare» si ridurrebbe ad alcune pratiche del nostro popolo devoto, in massima parte umile e semplice, che recita il Rosario alla Madonna nelle sue svariate invocazioni, venera le immagini dei santi, partecipa a vari pellegrinaggi nei suoi santuari preferiti, esterna molti gesti fisici di chiaro significato spirituale, come inginocchiarsi davanti a un’immagine, segnarsi con l’acqua benedetta, portare sempre con sé immaginette, medaglie e scapolari, con i quali ci si raccomanda a Dio, alla Madonna e ai santi per i quali si ha devozione. 
La verità è più complessa e si sottrae a una simile dicotomia. La «pietà popolare» possiede una profondità «mistica» che raggiunge l’intimo dei suoi fedeli, grazie all’azione primaria dello Spirito Santo, da cui dipende; e a sua volta la «mistica» non soltanto si radica con Dio nel cuore dell’uomo, ma conduce anche l’uomo, insieme a molti altri, a trasformare il mondo in cui è inserito. 
Nel capitolo quarto dell’esortazione, intitolato «La dimensione sociale dell’evangelizzazione» (176-258), il Papa torna a riferirsi alla «mistica popolare», allo scopo di darle un senso sociale e trasformante, che la sottrae al rischio di rinchiudersi entro mistiche «disincarnate», che affondano soltanto nelle profondità dell’io umano, o si perdono e sbiadiscono in una trascendenza vuota, che è «niente», dimenticando con ciò che il mistero divino è intimamente connesso con il mistero umano e con il suo contesto sociale. 
Notiamo che qui il Papa sceglie l’espressione «mistica popolare» per riferirsi a tutta una serie di realtà che egli enumera, come la «preghiera», la «fraternità», la «giustizia», la «lotta» e la «festa». 
Da qui l’importanza del fatto che i fedeli siano inseriti nel «popolo», perché così potranno vivere davvero una «pietà» e una «mistica» effettivamente «popolari». È per questa ragione che un poco più avanti, nel capitolo quinto dell’esortazione, il Papa ci parla di una mistica che non deve mantenersi a «una prudente distanza dalle piaghe del Signore».
Questa è l’esperienza basilare e umana dell’essere «noi», che è fondamentale per sentirsi popolo.
Qui appare di nuovo, e adesso legata alla nuova evangelizzazione, «la mistica di avvicinarci agli altri». Una mistica che, pur avendo un fondamento naturale nella capacità innata che noi uomini abbiamo di avvicinarci agli altri per formare famiglie e popoli, adesso, con l’incentivo dell’«azione dello Spirito», origine e frutto dell’evangelizzazione, non soltanto si arricchisce, ma ci spinge pure a evangelizzare affinché anche molti altri possano godere insieme a noi di tali «più bei regali del Signore». Questa ultima constatazione ci invita a entrare negli ambiti propri e più urgenti della nuova evangelizzazione. Uno di essi è la «pastorale urbana». 
Sarebbe conveniente fare ricorso a un testo precedente di Francesco, che risale più precisamente a quando, prima di essere eletto Papa, egli era il cardinale Jorge Mario Bergoglio, arcivescovo della città di Buenos Aires. Nel 2011 partecipò al primo Congresso di pastorale urbana, svolto dalla Regione metropolitana di Buenos Aires. Le parole iniziali di quel Congresso vennero pronunciate da Bergoglio, che scelse come tema Dio vive nella città, espressione che si trova anche nel Documento di Aparecida (cfr. 514) e che il Congresso aveva scelto come propria cifra espressiva. Ecco le sue parole iniziali: «Nella città ci sono moltissimi “non cittadini”, “cittadini a metà” e “avanzi urbani”: o perché non godono di pieni diritti — gli esclusi, gli stranieri, le persone senza documenti, i bambini non scolarizzati, gli anziani e i malati privi di copertura sociale — o perché non adempiono i loro doveri. In questo senso, lo sguardo trascendente della fede, che porta al rispetto e all’amore del prossimo, aiuta a “scegliere” di essere cittadino di una società concreta e a mettere in pratica atteggiamenti e comportamenti che creano cittadinanza. Lo sguardo che voglio condividere con voi è quello di un pastore che desidera approfondire la propria esperienza di credente, di uomo che crede che “Dio vive nella città”».
In maniera analoga adesso, nella sua esortazione, Papa Francesco propone dal n. 71 la problematica pastorale che oggi affrontano le nostre grandi città. E lo fa in una prospettiva «contemplativa», con uno sguardo illuminato dalla fede, che, ispirandosi ad Apocalisse 21, 2-4, lo porta ad affermare: «È interessante che la rivelazione ci dica che la pienezza dell’umanità e della storia si realizza in una città. Abbiamo bisogno di riconoscere la città a partire da uno sguardo contemplativo, ossia uno sguardo di fede che scopra quel Dio che abita nelle sue case, nelle sue strade, nelle sue piazze». E poco più avanti dice: «Egli vive tra i cittadini promuovendo la solidarietà, la fraternità, il desiderio di bene, di verità, di giustizia». 
Questa analisi e altre più dettagliate che Papa Francesco espone in questi punti lo inducono a concludere con parole riprese dal Sinodo: «Il Sinodo ha constatato che oggi le trasformazioni di queste grandi aree e la cultura che esprimono sono un luogo privilegiato della nuova evangelizzazione (cfr. Propositio 25). Ciò richiede di immaginare spazi di preghiera e di comunione con caratteristiche innovative, più attraenti e significative per le popolazioni urbane. Gli ambienti rurali, a causa dell’influsso dei mezzi di comunicazione di massa, non sono estranei a queste trasformazioni culturali, che operano anche mutamenti significativi nei loro modi di vivere» (73). 
Papa Francesco si preoccupa inoltre di descrivere in maniera fenomenologica ciò che «appare» nella cronaca di tutti i giorni, e che lo spinge a esclamare: «Non possiamo ignorare che nelle città facilmente si incrementano il traffico di droga e di persone, l’abuso e lo sfruttamento di minori, l’abbandono di anziani e malati, varie forme di corruzione e di criminalità». (75).
Davanti a questa cruda realtà, il Papa non cede allo sconforto, e conclude il testo invitando a «vivere» approfonditamente il Vangelo, e al tempo stesso consiglia di evitare uno stile uniforme e rigido nella pastorale urbana, affinché essa possa adattarsi a tutte queste problematiche con la pienezza del suo messaggio. 
Più avanti, nel capitolo quarto dell’Esortazione, il Papa tornerà a insistere sulla «dimensione sociale dell’evangelizzazione» (176-258), perché, se questo avvertimento venisse trascurato, tanto l’«evangelizzazione» quanto la «devozione popolare» e addirittura la «mistica popolare» ne potrebbero essere snaturate. 
Nel quinto e ultimo capitolo della Evangelii gaudium ci viene detto che la nuova evangelizzazione ha bisogno di «evangelizzatori con Spirito», che «vuol dire evangelizzatori che si aprono senza paura all’azione dello Spirito Santo» (259).
Qui si vede con tutta evidenza che la nuova evangelizzazione, in qualsiasi contesto avvenga, rurale o urbano, ha sempre bisogno di un forte radicamento tanto in Gesù quanto nel popolo. Per questo Papa Francesco dirà poi: «La missione è una passione per Gesù ma, al tempo stesso, è una passione per il suo popolo» (268).
L'Osservatore Romano