domenica 27 luglio 2014

La fatalità del corpo


Pubblicato in: La lettre de l’enfance et de l’adolescence – Revue du GRAPE (Groupe de Recherche et d’Action pour l’Enfance), n°58 : « L’enfant et son corps », décembre 2004, p. 7-12. Grazie a Andrea Piccolo per la segnalazione e la traduzione.
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 «Piccina mia, se sapessi quanto è facile non essere un oggetto sessuale.»
Pronunciò la frase dolcemente, ma con una tristezza così sincera da farla risuonare a lungo nella stanza.
Milan Kundera, Il libro del riso e dell’oblio, VII,4
 
La diversità dei corpi
L’adolescente. Il corpo. L’adolescente e il suo corpo. Ma quale adolescente? Quale corpo? Un adolescente nella media, con un corpo nella media? Un adolescente platonico, con un corpo platonico? Oppure adolescenti molto differenti, con corpi molto differenti, e esperienze che si somigliano come il diritto somiglia al rovescio, il giorno alla notte?
Camminava come uno di quei giovanissimi e bellissimi adolescenti che lei aveva visto sulle spiagge italiane, distaccati, quanto meno possibile interessati alla propria bellezza ma di cui si indovinava, dall’agilità o dalla noncuranza, che godevano intensamente, egoisticamente, dei loro muscoli, dei loro riflessi, della morbida e rapida meccanica dei loro corpi – corpi fino a quel momento solitari, felici d’esserlo e di cui ignoravano ancora il potere venturo[1].
Così per alcuni – che tuttavia ignorano raramente il loro potere a venire, che si esercita già nel presente. Per altri, la descrizione sarebbe meno lirica: si indovinerebbe dal disagio o dalla goffaggine, che soffrono intensamente per i loro corpi sgraziati – corpi che non esercitano alcun potere attrattivo, e minacciati da una solitudine duratura. Un personaggio di Angelo Rinaldi lo afferma: un essere brutto non ha giovinezza.
Il corpo del bambino appartiene ai suoi genitori, esiste in primo luogo agli occhi dei genitori che se ne occupano, vegliano su di lui, spesso lo valorizzano ritraendolo in fotografie, filmandolo con la videocamera. L’adolescente deve appropriarsi del suo corpo sottraendolo all’interesse familiare, o constatando la scomparsa di questo interesse. Da oggetto dei genitori, il corpo si fa portatore, vettore del soggetto. Ma questa evoluzione è lungi dall’essere pura emancipazione: attraverso il corpo, il soggetto si costituisce sotto lo sguardo degli altri, consegnato al loro giudizio. Sottrarsi all’alienazione iniziale del bambino a sua madre, ai suoi genitori, non significa sfuggire all’alienazione. La moltiplicazione degli sguardi amplia lo spazio. Ma allo stesso tempo, questi sguardi sono sprovvisti di indulgenza: se alcuni ne ricevono incessanti omaggi, per altri la situazione è più incerta, per altri ancora è calamitosa.
La liberazione dei corpi
Questo stato di fatto non rappresenta niente di nuovo, ma le modalità sono evolute. Il XX secolo ha unanimemente, sotto tutti i regimi, autoritari o liberali, esaltato la giovinezza. Per un’idea di continuità la giovinezza della giovinezza doveva finire per concentrare su di sé l’attenzione: così è stato durante gli ultimi decenni, dove l’adolescenza è diventata a un tempo visibile, appassionante e problematica. Periodo della vita ignorato in quanto tale in molte società umane[2], si è trovato allo stesso tempo dilatato (scomparsa del periodo di latenza a vantaggio della preadolescenza, confini a valle mal definiti) e fortemente valorizzato nelle rappresentazioni sociali. La concezione dominante, nei paesi occidentali, si esprime in questi termini:
Più precoce, più libero – di avere relazioni sessuali, di amministrare il suo denaro – l’adolescente è protagonista della sua vita più in fretta di una volta. Fisicamente al sommo della sua forza, intellettualmente in piena espansione, socialmente curioso di tutto, psicologicamente pronto ad assumersi rischi come in nessun’altra età della vita, lui è l’età di ogni possibilità.[3]
In due frasi, è detto tutto. Ciò che vuole essere una descrizione assume la forma di un abbandono estatico. «L’uomo non vuole essere dio, vuole essere giovane»: la validità universale di questa affermazione può essere discussa, certamente essa è vera per l’Occidente contemporaneo. Ne è testimonianza la visione inebriata di quest’età testé menzionata, che sacrifica la diversità del reale all’attrazione di un ideale, fortemente erotizzato. Ideale erotico talmente diffuso nell’ambiente circostante che difficilmente se ne coglie l’influenza – che si esprima direttamente, come nell’impiego pubblicitario di corpi adolescenti, o indirettamente come nel passaggio dalla repressione all’incoraggiamento più o meno esplicito alla sessualità adolescente. Il romanzo di Gombrowicz La Pornografia, che mostra gli sforzi messi all’opera da due uomini maturi, non per «approfittare» di un ragazzo e una fanciulla di sedici anni, ma per accoppiarli, è a questo riguardo emblematico. Il ricorso alla letteratura, su questo punto, non è fortuito: c’è bisogno di questo stacco perché si riveli la parte di concupiscenza che entra in ciò che, nel discorso, si dà sempre come un combattimento per liberare gli slanci naturali dalla pesantezza di una morale arcaica. Ahimè, una tale liberazione non ha che gli effetti prevedibili.
Che la competizione scolastica si sia attenuata o meno, è una questione che si può discutere. Se non altro, le forme esteriori di questa competizione sono state, per quanto si possa fare, sfumate: basta componimenti, classifiche, premi, orientamenti procrastinati al massimo, corsi indifferenziati il più a lungo possibile. L’istruzione continua a selezionare, ma a malincuore, con un senso di colpa, quasi di nascosto. E tuttavia, le gerarchie sono forse scomparse nelle scuole? Ne manca un bel pezzo! Nelle scuole medie e nei licei, la competizione è rabbiosa. Essa, favorita dalla promiscuità, si è soltanto dislocata, polarizzata su un nuovo terreno: il terreno sessuale. Chi ha il ragazzo o la ragazza, chi non ne ha; chi esce con strafichi, chi non esce con nessuno: questi sono i veri problemi. E’ così. Si può sorridere, alzare le spalle, passare sopra la questione con condiscendenza, dire che non è quello l’essenziale. Ma l’essenziale per chi? Perché una cosa non deve essere dimenticata: per sorridere o alzare le spalle, bisogna essere capaci di prendere le distanze dalla realtà immediata. Bisogna averne i mezzi. «Tutti i dolori sono sopportabili se li si inserisce in una storia o si racconta una storia su di essi», dice Karen Blixen. Si può perfino riderne, si chiama umorismo. L’umorismo poggia su uno spostamento, un passaggio al «super-io»: assumere nei confronti degli avvenimenti la stessa posizione del genitore che consolava un bambino dicendo: su, su, non è così grave. Ma se nessuno sguardo adulto è lì, chi consentirebbe di dirsi: su, non è grave? Ora, è proprio questo il caso. Degni adulti che considerano gli adolescenti «più precoci, più liberi di avere relazioni sessuali, protagonisti della loro vita più in fretta di una volta» non sono affatto nella posizione di temperare, di relativizzare le difficolta che questi ultimi possono eventualmente incontrare: non c’è più spostamento possibile, non c’è più un fuori.
Affrancato dell’autorità degli adulti, il bambino non è stato liberato, ma sottomesso a una autorità ben piò spaventosa e veramente tirannica: la tirannia della maggioranza […] [I bambini] sono consegnati a sé stessi, sono consegnati alla tirannia del loro gruppo, contro il quale, per via della sua superiorità numerica, non possono ribellarsi, col quale, essendo bambini, non possono discutere e dal quale non possono sfuggire per nessun’altro mondo , perché il mondo degli adulti è chiuso loro[4].
Gli adolescenti sono in una situazione analoga. Il testimone interiore di cui difetta il bambino, e che permette di sfuggire alla presa dell’Altro, si è costituito, ma quali sono i suoi mezzi? Che il mondo degli adulti sia chiuso o che rinneghi la sua differenza, in entrambi i casi il punto d’appoggio esterno fa difetto. Senza leve, l’adolescente è votato a vivere nel mondo così come si presenta. Perché non è un superuomo nietzscheano, che sceglie i suoi valori in maniera attiva e sovrana, ascoltando solo la sua volontà di potenza. E’ sottomesso al contesto, ai modelli circostanti. E il contesto, per dirla in modo crudo, è «un mondo composto di strafighi e di cessi, di tipi tosti e di sfigati[5]». Si può sbottare, contestare, riprovare un tale linguaggio, trovare che sia un guardare la realtà con vedute ristrette. Il risultato è che si sarà rifiutato di vedere la realtà così com’è. Si può affermare che le cose sono molto più complicate. Cosa assolutamente vera – ma la complessità vale solo se affina le verità primarie, non se le dissimula o le fa dimenticare.
La verità primaria è che «la sessualità è un sistema di gerarchia sociale» che si impone dall’adolescenza, con una influenza tanto più grande in quanto non ce ne sono molte altre a quell’età. I cattivi allievi di una volta potevano, all’occasione, trovare delle compensazioni – carattere indipendente e disinibito, forza muscolare, conoscenza dell’altro sesso, ecc. – potevano burlarsi dei forti nelle versioni e degli albi donore. Un’intera letteratura ha fatto dei somari i suoi eroi. Ma nella competizione sessuale, che cosa possono opporre i vinti ai vincitori? Ben poche cose. Eventuali successi scolastici? Questo può contentare i genitori, ma resta inefficace nel momento in cui la posta in gioco è esistere autonomamente, fronteggiando istanze esterne che, in difetto delle istituzioni, non possono essere che i pari. L’antica morale borghese diffidava del sesso per viltà, per paura di vivere, per pigrizia: «Naturalmente il sesso è ed è sempre stato peccato perché non c’è bisogno di darsi da fare per ciò che è proibito[6].» Ma se il sesso non è più un peccato, se è consentito e non solo consentito, ma dato d’esempio? Allora non si può che prendersela con sé stessi per non riuscire a ottenere ciò che è liberamente a disposizione di tutti. Così è comparsa una nuova figura di «somari». Ma questi assolutamente sprovvisti di grazia, irrecuperabili, refrattari alla trasmutazione letteraria. Possono essere compresi, compatiti, non amati.
La biologizzazione dei corpi
Gli adolescenti entrano nella competizione sessuale coi loro corpi come primo viatico. Alcuni ne otterranno innumerevoli o memorabili successi; altri conosceranno fortune alterne; altri infine avranno, da subito, meno possibilità di un impiegato tessile senza specializzazione, licenziato a cinquant’anni e in cerca di impiego in una regione in crisi. Si pretende sempre che gli adolescenti manchino di informazioni: sulla sessualità, i metodi contraccettivi, la prevenzione dell’AIDS. Allora glie ne si dà senza considerare sempre che allo stesso tempo si aggrava in alcuni un’altra carenza, più fondamentale. «Proprio come il liberalismo economico senza freni, e per ragioni analoghe, il liberalismo sessuale produce fenomeni di pauperizzazione assoluti. Alcuni fanno l’amore tutti i giorni; altri cinque o sei volte nella vita, o mai. Alcuni fanno l’amore con decine di donne; altri con nessuna. E’ ciò che si chiama la “legge di mercato”[7]
L’adolescente, nel marasma, ha almeno il vantaggio di potersi illudere nella speranza di un avvenire migliore. Ma lo può davvero? «Fisicamente al sommo della sua forza, intellettualmente in piena espansione, socialmente curioso di tutto, psicologicamente pronto ad assumersi rischi come in nessun’altra età della vita, lui è l’età di ogni possibilità»: una rappresentazione di questo tipo gli lascia poche illusioni. Glie lo si afferma: lui è al punto culmine della sua esistenza. Dopo non farà che avvizzire. Di fronte agli orpelli della giovinezza, l’età adulta ha l’espressione dispiaciuta, non vale che per quel poco che sopravvive in essa delle virtù giovanili, per non parlare della vecchiaia sinonimo di naufragio. «Di tutti i segni di debilità dell’epoca, uno dei più irritanti è per me il modo in cui quest’epoca parla della vecchiaia: modo turbolento (ne parla continuamente) e circoscritto (ne parla istituzionalmente, mai esistenzialmente, “sistema pensionistico”, “soggiorno per la terza età”), […] Al giorno d’oggi, non c’è contropartita simbolica alla vecchiaia, nessun riconoscimento di un valore specifico: saggezza, lungimiranza, esperienza, avvedutezza[8].» Questi modi di vedere, caricano il corpo di una importanza esorbitante: il suo declino è, precisamente, quello dell’essere. Ecco l’adolescente posto in una situazione singolare: il corpo di cui si appropria è, immediatamente, al suo apice. E lui con esso. All’inizio è l’apogeo. Che concluderne se l’apogeo è molto basso?
Attraverso il suo corpo, l’adolescente è messo bruscamente a confronto con le aporie dell’epoca. Sottraendolo al controllo familiare, acquisendo il diritto di disporne a modo suo diviene libero. Ma solo per scoprire che questa libertà è gravemente e doppiamente confinata. Da un lato, da un determinismo biologico che identifica l’essere al corpo, e consegna il corpo alle sorti della materia. E’ in relazione a questo assegnamento biologico che si può interpretare la voga di pratiche come il piercing, il tatuaggio o pratiche che consistono nell’esercitare violenza contro sé stessi. D’altro lato, la libertà si scontra con le «leggi di mercato» della seduzione, più rigide che mai nell’adolescenza. Anche qui, il corpo appare sotto le sembianze della fatalità. Una fatalità tanto più difficile da comprendere in quanto ovunque – in televisione, nelle riviste, sui cartelloni – non si espongono che degli «è la mia scelta»; una fatalità tanto meno comprensibile in quanto la scienza moderna, che ha fatto del corpo la sua cosa, veicola un ideale di onnipotenza, di convertibilità di tutto in tutto. Eppure, alle tecniche di trasformazione dell’apparenza, illustrate in modo compiacente dai media, quale infima frazione della popolazione ha accesso? Ciò che fa si, in fin dei conti, che esse alimentino infinitamente più frustrazioni di quanto non portino soccorso. Anche quando queste tecniche sono messe in atto. Il loro potere rimane modesto, non possono compiere miracoli. Sul fronte delle diete, del training e degli sforzi dello stesso tipo, i risultati sono ugualmente limitati. Il corpo resiste. Perché ha il suo equilibrio, o perché è il sintomo di difficoltà che si giocano su un’altra scena, inconsapevole. Quando si arrende è a prezzo di una attività spossante e metodica, agli antipodi dell’abbandono al godimento che si presume consenta e che di fatto impedisce[9]. Il corpo oggetto, oggettivato, macchina da padroneggiare e domare, sopravanza troppo il corpo vissuto – ciò che la fenomenologia chiama il corpo proprio, il corpo così come lo si abita, non parte del mondo ma ciò per mezzo del quale si è al mondo. Questo corpo vissuto era respinto dalla morale antica, perché troppo carnale. Allo stesso modo è ignorato dalla scienza moderna, perché non abbastanza materiale. Questa simmetria nel rifiuto dovrebbe far riflettere. Il materialismo non è che l’immagine inversa dello spiritualismo – vale a dire che gli è identico, a meno del segno. Sotto l’apparenza del materialismo, è un dualismo radicale che si perpetua: il corpo, interamente de-spiritualizzato, consegnato senza riserve all’oggettivazione, ha per risultato paradossale di esiliare completamente il soggetto dal suo corpo. Se ne trova un segno caricaturale nel «sogno» carezzato in certi ambiti scientifici americani, di un abbandono del corpo per un transfert di sé su un nuovo supporto, meno contingente e più durevole. E’ lecito supporre che coloro che sono affezionati a questo fantasma non appartenessero alla squadra dei vincitori, nella competizione sessuale avviata alla scuola media. Lo spirito che li muove non è una singolarità isolata: trova profonde risonanze negli sviluppi della scienza contemporanea, che a sua volta ha grandi conseguenze sull’evoluzione del nostro mondo. Per il tramite di una metafisica biologizzante, la questione del corpo non è stata chiarita. Si è limitata a guadagnare un livello in oscurità, passando per risolta.



[1] Françoise Sagan, E poi alla fine [De guerre lasse, 1985], trad. dal francese Cin Calabi, Mondadori, Milano, 1990.
[2] La parola latina adulescentia designa la giovinezza, adulescens il giovane uomo o la giovane donna da diciassette a trenta anni, anche oltre. La parola «teen» è sempre più impiegata, forse perché il termine adolescente comincia a sembrare troppo lungo, troppo ampolloso per l’uso sempre più frequente che se ne fa. Con il marchio del participio presente latino, scompare ugualmente ciò che il termine indicava di transitorio a vantaggio di una identità più marcata. Infine bisogna tenere conto del desiderio di avvicinarsi a coloro che il termine designa imitando la loro libertà di linguaggio.
[3] Le Monde, 1° settembre 2004, «Adolescenti: ciò che rivela la crisi» (Catherine Vincent). Se crisi c’è, ci si può chiedere se una tale rappresentazione dell’adolescenza non ne sia in parte responsabile.
[4] Hannah Arendt, «La crisi dell’istruzione» [“The Crisis of Education”, 1961], in Tra passato e futuro, trad. Tania Gargiulo, Garzanti, Milano, 1999.
[5] Michel Houellebecq, Le particelli elementari [Les Particules élémentaires, 1998], Bompiani, Milano, 1999. Queste distinzioni sono ben lungi dal basarsi unicamente sulle caratteristiche fisiche. L’immagine che si dà dipende dal modo in cui si percepisce sé stessi – senza dimenticare che questa percezione di sé dipende dal modo in cui si è percepiti.
[6] Fritz Zorn, Marte – il cavaliere, la morte et il diavolo [Mars, 1977], trad. dal tedesco Amina Pandolfi, Gabriele Capelli Editore, Mendrisio (CH), 2006..
[7] Michel Houellebecq, Estensione del dominio della lotta [Extension du domaine de la lutte, 1994], Bompiani, Milano, 2000.
[8] Roland Barthes, Le Neutre, Seuil, 2002, p. 192.
[9]«Le ossessioni dietetiche, la tirannia della “linea”, le continue imposizioni concernenti il look, la medicalizzazione di ogni minima attività, l’obbligo di prestazioni sportive o di conformità professionale, la crudele predominanza della giovinezza contro ogni idea di maturità o di saggezza: tutto ciò induce una crudeltà fisica verso sé stessi di cui le riviste riportano ingenuamente l’eco. Queste mortificazioni glorificate non valgono ampiamente, in intensità di sforzo e di dolore, le restrizioni esercitate un tempo sui desideri sessuali?» (Jean-Claude Guillebaud, La Tyrannie du plaisir, Seuil, coll. Points, 1999, p. 470).