mercoledì 23 luglio 2014

Non è perdono quello davanti alle telecamere



Pubblichiamo la prefazione di Perdono a cura di Alessandra Peri, (Editori Riuniti Int., pagg. 320, 12 euro) da oggi in libreria.
Perché il perdono è un tema così decisivo nella vita umana e cristiana? Perché la nostra vita conosce il male, questa contraddizione, questa abiura del bene che non possiamo rimuovere né negare. Il perdono ha a che fare con il male, il male che noi facciamo a noi stessi e agli altri, il male che gli altri ci fanno. Il male [...] è una realtà nella nostra vita e nelle nostre relazioni. 
Il male — dice Gesù — è ciò che nasce dal nostro cuore e diventa aggressività, violenza, odio verso gli altri e verso noi stessi (cfr. Mc. 7,20-23;Mt. 15,18-20). Il male è ciò che io faccio nonostante voglia fare il bene, confessa l’Apostolo Paolo(cfr. Rm. 7,18-19). Non a caso le domande rivolte a Dio nel Padre nostro, la preghiera insegnata da Gesù, sono: «Non abbandonarci alla tentazione»e «liberaci dal male» (Mt. 6,13); e queste richieste sono precedute da quella del perdono di Dio, invocato perché renda capaci di perdonare i fratelli: «Rimetti a noi i nostri debiti, come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori» (Mt. 6,12). Il male come azione malvagia compiuta da noi esseri umani ci accompagna per tutta la vita. Nel quotidiano il più delle volte non è epifanico, non ha conseguenze vistose; in alcune circostanze invece esplode e ci spaventa, provocando in noi indignazione. In ogni caso, il male è sempre banale... L’uomo si abitua al male, e soprattutto la violenza può nutrire il male, farlo crescere fino alla negazione dell’altro, degli altri. Siamo sinceri con noi stessi: non arriviamo talvolta alla tentazione di voler vedere scomparire chi ci è nemico, di voler vedere escluso dal nostro orizzonte un altro che ci ha fatto del male? Non siamo tentati di ripagare con lo stesso male chi ci ha fatto del male? [...] Questo è il nostro istinto di conservazione: vogliamo vivere e vivere a ogni costo, anche senza gli altri e magari contro gli altri. Siamo tutti malati di philautía, l’egoistico amore di noi stessi, e quando siamo offesi il nostro istinto è quello di difenderci attaccando, non diversamente dagli animali. Siamo tentati di rispondere al male con il male, alla violenza con la violenza, alimentando così una spirale di odio e di vendetta che ben presto finisce per mostrare la sua qualità mortifera. Noi esseri umani, in verità, sappiamo che per intraprendere il cammino di umanizzazione in vista di una vita piena di senso, di una vita segnata dalla qualità della convivenza, dobbiamo impedire la vittoria del male su di noi e la spirale di violenza che ne consegue: è qui che si colloca il perdono, che è innanzitutto, umanamente, un’interruzione del male, un porre un argine al male, un dire no a una logica di morte. Il male commesso è irreversibile, resta male anche dopo il perdono, ma può essere trasceso. Con il perdono, chi ha subìto il male irreversibile ricrea le condizioni per un nuovo inizio nella relazione con l’altro: è il perdono che ricrea vita là dove c’è morte, che rimette in piedi chi è caduto, che fa di un peccatore una nuova creatura. Sì, il perdono attesta che l’ultima parola non spetta al male commesso, ma all’amore! Dal punto di vista etimologico «per-donare» — termine diffusosi nella lingua latina in epoca carolingia — significa «donare totalmente »: nel perdono c’è la perfezione del dono, c’è il donare fino all’estremo, fino in fondo. Perdonare richiede dunque un sacrificio di se stessi in rapporto all’altro: si perdona affinché l’altro esista, ma questo richiede un cammino faticoso. Non è naturale perdonare, a tal punto che un perdono accordato facilmente ha tutta la probabilità di essere inautentico. Questo è tanto più vero oggi, in un contesto socioculturale in cui si è diffusa l’abitudine di perdonare in favore di telecamere, rischiando di fare così un atto di esibizione e di protagonismo che riceve l’applauso della gente. Chi è arrivato a perdonarei n verità sa invece che si tratta di un cammino lungo, faticoso, costoso.
Enzo Bianchi