venerdì 25 luglio 2014

Preti di Dio



ponte
di F.Agnoli
Una volta nelle chiese si pregava perché Dio desse all’umanità dei sacerdoti, molti e santi sacerdoti. Perché la messe è tanta, ma gli operai sono pochi. Non che ora non si preghi più, ma divenendo più rari, non sono per questo diventati più pregiati. Il perché è presto detto: si è in parte persa la comprensione dell’importanza del sacerdozio, della necessità di un ponte tra l’uomo e Dio. I ponti (da cui la parola “pontefice”) legano due sponde diverse; esigono che sia chiara la differenza, ma anche la connessione, tra l’una e l’altra; in questo caso tra terra e cielo.
Chi è, allora, il sacerdote? Colui che tiene insieme le due sponde; colui che, scelto dal cielo, vocatus dall’alto,
non per suo merito, ma per una elezione di Dio, cuce e ricuce pazientemente i lembi di una tela che si spezza, e che Cristo, vero uomo e vero Dio, ha unito con la sua Incarnazione.
Dicevo che oggi la necessità del sacerdote è meno sentita. Da una parte si crede spesso che il rapporto con Dio possa essere qualcosa di esclusivamente personale, di individualistico, dall’altra che l’esistenza di un sacerdozio ministeriale violi l’uguaglianza tra gli uomini. Che bisogno ho io di un altro? Perché un altro uomo come me dovrebbe perdonare i miei peccati? E così via…
Eppure, benché l’aria che si respira sia questa, i sacerdoti che fanno bene il loro “mestiere” vengono dal popolo riconosciuti, amati, cercati. Anche oggi, nel ventesimo secolo, nell’Europa post cristiana. La natura dell’uomo, infatti, è sempre quella. Magari oggi è più coperta di incrostazioni e di pregiudizi, ma la forza del ponte sta proprio qui: se non si nasconde tra le erbacce; se non finge di essere un sentierino come gli altri, che porta in un luogo come gli altri; se mostra l’altra sponda, senza staccarsi da quella da cui sorge, affascina, attira, conquista.
Nella mia vita ho conosciuto molti sacerdoti, ed ho imparato a comprendere, per quanto possibile, l’altezza e la difficoltà di questa missione. Essere di Dio e dare la propria vita per il mondo; amare Cristo, che non si vede, e renderlo evidente nell’amore per i fratelli che si vedono; darsi a tutti e non avere nessun legame totalmente proprio; celebrare con le proprie mani il mistero dell’Eucarestia, perdonare i peccati nel confessionale, accompagnare i morti nel loro trapasso… ed essere anche, nel contempo, uomini, con tutti i limiti del caso: non è per nulla facile. Richiede senza dubbio la grazia di Dio, la buona volontà, l’abnegazione, la capacità continua di lavorare su se stessi…
Di sacerdoti, dicevo, ne ho conosciuti tanti: quelli che usano il pulpito come strumento di potere; quelli che vorrebbero i fedeli fatti a loro immagine e somiglianza; quelli che vogliono portare le persone, non a Cristo, ma a se stessi; quelli vanagloriosi e quelli rancorosi; quelli che, per nulla vergini e celibi, si attaccano al potere, alla carriera; quelli che si appiattiscono sulle idee del mondo, e quelli che credono di contrastarle con lunghe litanie di sterili lamentele; quelli che vivono con stanchezza una missione un tempo abbracciata con entusiasmo e slancio…
Stupirsi? Stupirsi che degli uomini siano così terribilmente umani? Sì, ma sino ad un certo punto.
Mi stupiscono di più gli altri, che ho conosciuto: quelli ricolmi di fede, di forza interiore, di carità, di attenzione agli altri, di senso profondo della loro missione. Sono questi che tengono pulito e visibile il ponte; che ci invitano a passare; che ci spingono, con il loro esempio, e con la forza dei sacramenti, a far sì che il viaggio di questa vita non sia un girare intorno sempre alle solite cose, senza durata e senza direzione.
Costoro sono persone che tengono alto lo sguardo, senza lasciarsi travolgere dalla contingenza delle piccole cose; che sanno distinguere l’essenziale dal secondario; che sanno accompagnare e stimolare il prossimo, ma anche attenderlo, con pazienza… Hanno, in sintesi, un metodo molto efficace: la carità. E un fine molto chiaro: la salvezza dell’uomo; non dico la salvezza dell’anima, come si diceva un tempo, perchè è forse un po’ riduttivo: la salvezza dell’uomo intero, perché Cristo non è venuto solo ad aprirci il Paradiso, ma anche a darci il “centuplo quaggiù”. Ecco, un sacerdote santo si vede, credo, da questo: dalla consapevolezza che egli ha di aver dato tutto per avere il Cielo, domani, e il centuplo, oggi; dalla gioia e dalla forza con cui vive le circostanze, mostrando con evidenza a tutti quanto seguire Cristo sia appagante, bello, grande; quanto ciò dilati l’umanità e la trasfiguri.
Anche di fronte alle difficoltà, nelle battaglie, nel dolore, nella durezza dei tempi, un sacerdote santo, è, a mio giudizio, un generale: che avanza, e non indietreggia; combatte e non si nasconde; incalza, e non si perde in lamentazioni… Molti sacerdoti, notava il cardinale Giuseppe Siri, sembrano oggi, purtroppo, “ufficiali di un esercito in ritirata”. Questo avviene se mancano fede, speranza e carità. Quando queste virtù teologali ci sono, invece, come scriveva santa Teresina, non c’è nulla che turbi, nulla che spaventi, nulla che sgomenti… Erano in 12, i primi sacerdoti, e conquistarono il mondo. Il Foglio, 24/7/2014