mercoledì 20 agosto 2014

La preghiera mi ha reso un uomo libero




di J.Foley

*James Foley (1973-2014), giornalista freelance statunitense, è stato decapitato da miliziani dell’Isis in Iraq. Catturato in Siria nel 2012, di lui non si era più saputo nulla. Non era la prima volta che veniva catturato mentre faceva il suo lavoro di inviato di guerra. Anche in Libia, nel 2011, era stato imprigionato da truppe fedeli al dittatore Muammar Gheddafi. Questa che pubblichiamo è una lettera scritta da Foley subito dopo il periodo di cattività in Libia, indirizzata alla sua ex università, l’ateneo cattolico Marquette University di Milwaukee. Qui Foley descrive il potere della preghiera, «un collante che ha permesso la mia libertà, una libertà interiore prima e dopo il miracolo di essere rilasciato durante una guerra in cui il regime non aveva alcun reale interesse a liberarci». Per non dimenticare James Foley, l'abbiamo tradotta e pubblicata in versione integrale.

L’Università di Marquette è sempre stata un’amica per me. Il tipo di amica che ti sfida a fare sempre meglio e ad essere sempre migliore e, infine, ti forgia per quello che sei.
Grazie all’Università di Marquette ha partecipato a viaggi di volontariato nel Sud Dakota e nel Mississippi e ho capito di essere un ragazzo privilegiato mentre il mondo aveva problemi seri. Ho potuto conoscere persone giovani che volevano dare il cuore per il bene degli altri. Più in là negli anni ho fatto volontariato in una scuola elementare del Milwaukee, dall’altro lato della strada rispetto all’università e volevo diventare un insegnante per i ragazzi dei quartieri più degradati. Ma la Marquette non mi è mai stata più vicina rispetto a quando sono stato catturato, mentre facevo il giornalista.
Assieme a due colleghi, siamo stati catturati e tenuti prigionieri in un centro di detenzione militare a Tripoli. Ogni giorno provavo un’ansia sempre più forte al pensiero che le nostre madri potessero cedere al panico. La mia collega, Clare, avrebbe dovuto telefonare a sua madre per il suo compleanno, il giorno dopo la nostra cattura. Non avevo pienamente ammesso a me stesso che mia mamma fosse a conoscenza di quello che mi era successo.
Ho pregato perché lei realizzasse che stavo bene. Ho pregato di poterle parlare attraverso chissà quale via cosmica fino a lei.
Ho iniziato a pregare il rosario. Era come mia madre e mia nonna avrebbero pregato. Ho recitato dieci Ave Maria per ogni Padre Nostro. Mi ha preso molto tempo, quasi un’ora, per arrivare a 100 Ave Maria. E mi ha aiutato a mantenere sveglia la mia mente.
Clare ed io abbiamo pregato ad alta voce. Mi sentivo rinfrancato nel confessare la mia debolezza e la mia speranza insieme e conversando con Dio, piuttosto che stare solo in silenzio.
In seguito siamo stati portati in un’altra prigione, dove il regime teneva prigionieri centinaia di dissidenti politici. Sono stato ben accolto dagli altri detenuti e trattato bene.
Una notte, al diciottesimo giorno della nostra prigionia, alcune guardie mi hanno portato fuori dalla cella. Nell’atrio ho visto Manu, un altro collega, per la prima volta in una settimana. Eravamo esausti, ma felici di rivederci assieme. Al piano di sopra, nell’ufficio del direttore, un uomo distinto, in giacca e cravatta ci disse «Pensavamo che voleste chiamare le vostre famiglie».
Ho recitato un’ultima preghiera e composto il numero. Mia mamma mi rispose al telefono. «Mamma, mamma, sono io, Jim!».
«Jimmy, dove sei?»
«Sono ancora in Libia, mamma. Scusami, scusami tanto!»
«Non chiedere scusa, Jim – mi pregava – Oh, il papà se n’è appena andato… voleva tanto parlare con te. Come stai, Jim?». Le ho detto che ero ben nutrito, che mi era stato dato il letto migliore e che eravamo trattati come degli ospiti.
«Ti stanno costringendo a dire queste cose, Jim?»
«No, i libici sono persone magnifiche – le ho detto – Stavo pregando per te, perché tu sapessi che sto bene», le ho detto. «Hai sentito le mie preghiere?».
«Oh, Jimmy, c’è tanta gente che sta pregando per te. Tutti i tuoi amici, Donnie, Michael Joyce, Dan Hanrahan, Suree, Tom Durkin, Sarah Fang che ha chiamato. Tuo fratello Michael ti ama così tanto – iniziava a piangere – l’ambasciata turca sta cercando di contattarti e anche Human Rights Watch. Li hai visti?». Le ho risposto che non li avevo visti.
«C’è una veglia di preghiere per te alla Marquette. Non le senti, le nostre preghiere?» mi ha chiesto.
«Sì mamma, le sento» e ci ho pensato su per un secondo. Probabilmente erano le preghiere degli altri che mi stavano rafforzando, tenendomi a galla.
L’ufficiale fece un gesto. Ho iniziato a salutare. La mamma ha iniziato a piangere. «Mamma, io sono forte, sto bene. Sarò a casa in tempo per assistere alla laurea di Katie» che sarebbe stata di lì a un mese.
«Ti amiamo, Jim!» mi ha detto. E poi ho appeso.
Ho ripetuto quella telefonata centinaia di volte nella mia mente – la voce di mia madre, i nomi dei miei amici, la sua consapevolezza della nostra situazione, la sua assoluta fiducia nel potere della preghiera. Mi ha detto che i miei amici si erano riuniti per fare tutto quel che potevano per aiutarmi. Sapevo di non essere solo.
La mia ultima notte a Tripoli, ho potuto connettermi a Internet per la prima volta in 44 giorni e ho potuto sentire un discorso che Tom Durkin aveva pronunciato, per me, alla veglia di preghiera della Marquette. In una chiesa piena di amici, allievi, preti, studenti e docenti, ho assistito al miglior discorso che un uomo potesse pronunciare per suo fratello. Suonava come il discorso di un testimone di nozze e, al tempo stesso, come un elogio. Era la dimostrazione di un incredibile affetto ed era solo un dettaglio degli sforzi e delle preghiere che quelle persone stavano esprimendo. Se non altro, la preghiera è stata un collante che ha permesso la mia libertà, una libertà interiore prima e dopo il miracolo di essere rilasciato durante una guerra in cui il regime non aveva alcun reale interesse a liberarci. Non aveva senso. Solo la fede lo aveva.
(Traduzione di Stefano Magni)

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Svegliamoci, i tagliagole islamici sono tra noi
di Luigi Santambrogio

«Wake up, svegliatevi!». Papa Francesco avrebbe dovuto estendere il suo appello per i giovani coreani ai governanti italiani ed europei. Basta dormire, datevi una mossa se non volete svegliarvi domani con una scimitarra alla gola. Messaggio che dovrebbe far tornare dal mondo dei sogni pure gli oltranzisti del dialogo con l’islam e dell’accoglienza a mani alzate. Troppo tardi: oggi, più che il Papa a dare una scossa alla nostra assopita Italia servirà il terribile video della decapitazione del reporter americano James Foley, messo in rete dagli stessi macellai dell’Isis. Nel video, il reporter è vestito di arancione, inginocchiato vicino a un uomo armato di coltello e vestito di nero. Il terrorista afferma di essere un membro dello Stato islamico, dice che l’esecuzione del giornalista è la risposta ai bombardamenti americani contro le postazioni Isis in Iraq. Dopo Foley toccherà a Steven Joel Sotloff, un secondo ostaggio americano, che verrà decapitato se Washington non fermerà i raid. 
All’attenzione degli analisti c’è ora il particolare per nulla trascurabile che il jihadista dell’Isis si esprime in inglese, con un marcato accento britannico: segno piuttosto evidente della provenienza europea del guerrigliero. E ieri il primo ministro, David Cameron, ha interrotto all'improvviso le vacanze in Portogallo per tornare a Londra per seguire da vicino l’inquietante sviluppo. Ma che il tagliagole possa venire dalla civilissima Inghilterra può sorprendere solo gli sprovveduti o i finti ingenui: da tempo, infatti, le intelligence di Inghilterra, Francia e Italia avvertono dell’esistenza di una “quinta colonna” presente nelle capitali europee che fiancheggia il terrorismo islamico, gruppi formati da pochi protagonisti palesi e attivi, ma di tanti comprimari che contribuiscono a promuovere la causa dell’islamizzazione globale.
Li chiamano terroristi “self starters”: si auto-indottrinano, sono molto ideologici e potrebbero autonomamente decidere di passare all'azione contro bersagli e obbiettivi simbolo, sulla spinta della propaganda che incita al martirio contro "cristiani, apostati ed ebrei". E specie in relazione ad eventi percepiti come un'aggressione o offesa all'islam. In Italia, ha scritto recentemente Magdi Allam, «è presente principalmente negli ambienti islamici delle moschee e dei siti Internet, annovera immigrati che non si integrano e quelli che sono nati e cresciuti da noi con o senza cittadinanza, con un peso crescente degli italiani convertiti che più agevolmente e spavaldamente si avvalgono e sfruttano le nostre leggi e risorse per diffondere la causa di Allah». 
Guerriglieri islamici dell'Isis
Affermazioni confermate dalla cronaca: decine di imam espulsi, l’ultimo quello di San Donà di Piave, il marocchino Abdul-Barra Ar-Rawda, allontanato dal ministro dell’Interno Alfano. E poi almeno 50 terroristi islamici residenti in Italia partiti per combattere la loro guerra santa in Siria e in Iraq. Come Giuliano Ibrahim Delnevo, il venticinquenne genovese ucciso in Siria nel 2013 ed elevato a “martire” dell’islam. O come il marocchino Haisam noto con il soprannome di Abu Omar. Viene arrestato dalla nostra polizia e subito liberato mentre partecipa all'assalto dell'ambasciata siriana del 12 febbraio 2012. Denunciato a piede libero, Haisam Abu Omar ripara in Siria per unirsi ai gruppi combattenti. La sua faccia ricompare in un inquietante video in cui insieme ad altri militanti partecipa alla spietata esecuzione di 7 soldati governativi appena catturati e assassinati con un colpo alla nuca.
Non è un mistero, che la quinta colonna dei tagliagole si avvalga anche di coperture negli ambienti sia dell’estrema destra sia dell’estrema sinistra, benefici di cospicui aiuti finanziari e logistici da parte di molte Ong italiane e straniere, laiche, cattoliche e musulmane, che simpatizzano più o meno pubblicamente ed esplicitamente con il terrorismo islamico. Una realtà smascherata dalla sconcertante vicenda delle due ragazze italiane, Vanessa Marzullo e Greta Ramelli, rapite ad Aleppo, Siria, la notte dello scorso 31 luglio. Nel cartello in arabo con cui Vanessa e Greta si sono fatte fotografare in una manifestazione si legge: «Agli eroi della Brigata dei Martiri - Grazie dell'ospitalità - Se Allah vorrà, presto Idlab sarà liberata - E noi ci torneremo». La “Brigata dei Martiri”, in arabo Liwa Shuadha, è anch’essa un gruppo di terroristi islamici il cui capo, Jamal Maarouf, ha ammesso di collaborare con Al Qaeda. Questa è la tragica realtà che forse le due giovani hanno sottovalutato: i terroristi islamici non fanno differenze tra nemici e amici e nella jihad non c’è posto per i buoni e caritatevoli sentimenti. 
I cittadini o residenti europei che in questi quasi tre anni hanno preso parte al jihadin Siria sarebbero quasi 5000. I contingenti più numerosi, dopo quello francese, sono del Regno Unito, del Belgio e della Germania. In rapporto alla popolazione, il paese con la maggiore presenza di jihadisti in Siria è il Belgio (sarebbero 2,7 ogni 100 mila abitanti). Ecco in dettaglio chi sono e quanti sono i guerriglieri della brigata europea di Allah.
In Italia, la brigata può contare su almeno 50 elementi: tanti sono i militanti partiti dal nostro Paese che ora si troverebbero soprattutto nel Nord della Siria e tra questi ci sarebbe anche una donna. Di questi, 6 o 7 sono cittadini italiani convertiti all’islam. Ma ecco cosa scrivono i nostri 007 al riguardo: «C’è un ininterrotto attivismo, sulla rete, di giovani perlopiù completamente formati dal punto di vista ideologico o che sono ancora in fase di auto indottrinamento, sia appartenenti alla seconda generazione di immigrati sia cittadini italiani caratterizzati da una visione intransigente dell'islam e da atteggiamenti di insofferenza verso i costumi occidentali». Per quanto riguarda in particolare la crisi siriana, «numericamente contenute sono risultate le partenze dall'Italia di cittadini siriani intenzionati a sostenere la rivolta in madrepatria o a fornire supporto umanitario alla popolazione, ma non sono emersi strutturati canali di instradamento verso quel teatro di aspiranti mujahidin». I servizi segnalano in prospettiva possibili «insidiosi casi di reducismo, nonché forme di riattivazione sul territorio nazionale, in funzione di sostegno al jihad siriano, di circuiti estremisti di origine prevalentemente maghrebina rimasti sinora sottotraccia».
Francia. Per ammissione dello stesso presidente François Hollande, con i suoi 700 combattenti in Siria la Francia è il Paese europeo col più grosso contingente di jihadisti. Si tratta quasi sempre di immigrati o figli di immigrati dal Nordafrica, ma si danno anche casi di giovani convertiti francesi. Come i fratellastri Nicolas e Jean-Marie, 30 e 22 anni, di Tolosa morti in battaglia: il primo in un attentato suicida a Homs e il secondo nei combattimenti di Aleppo. Anche l’attentatore del Museo Ebraico di Bruxelles è un cittadino francese, Mehdi Nemmouche, di origine magrebina e islamico radicale, ex carcerato pluri-recidivo e con più di un anno di esperienza militare nella guerriglia siriana, inquadrato nell’Esercito Islamico dell’Iraq e del Levante. Francese è pure l’autore dalla strage alla scuola ebraica di Tolosa, commessa da Mohammed Merah, pregiudicato: nel suo curriculum di guerra c’è anche con uno “stage” di terrorismo in Afghanistan. Recentemente, le cronache si sono occupate del caso di due adolescenti di Tolosa, un 15enne e un 16enne, che sono partiti per unirsi al jihad in Siria acquistando un biglietto aereo per la Turchia. Traumatizzati dal soggiorno in territorio siriano, sono tornati in Francia con l’assistenza delle autorità turche. 
Islamici manifestano a Londra
Regno Unito. Gli estremisti britannici che si sono uniti allo Stato Islamico in Siria e Iraq sono «i combattenti tra i più feroci». É l'opinione di un esperto del King's College di Londra, secondo il quale musulmani sunniti radicali provenienti dal Regno Unito stanno prendendo parte al conflitto "in ogni suo ambito". Di tale ferocia i londinesi hanno avuto la prova lo scorso anno quando Lee Rigby, soldato britannico, è stato sgozzato per strada con un machete da due nigeriani al grido di: «Nessuno di voi potrà dirsi al sicuro (…) Noi abbiamo fede in Allah e non finiremo mai di combattervi». Parole mai scordate nella capitale, dove si fanno da mesi le stime di quanti musulmani hanno lasciato l’isola per andare a combattere in Siria: almeno 500, forse anche di più. Venti sono gli uomini morti nel combattere per la Siria. Qualche giorno fa, il rapper londinese Abdel-Majed Abdel Bary ha postato una foto dalla Siria in cui esibisce la testa mozzata di un nemico. Bary ha lasciato in Inghilterra un appartamento da un milione di sterline, preferendo alla noia degli agi borghesi, la via del sangue. E sono sempre più numerose le donne, in genere musulmane immigrate, che desiderano trasferirsi in Siria e sposarsi in forma permanente con combattenti.  Ne hanno dato notizia The Times e il Daily Telegraph, raccontando di un blogger jihadista di lingua inglese al quale si rivolgono le aspiranti spose in cerca di veri credenti impegnati nel campo di battaglia siriano.
Dall’Olanda, sono partiti per la Siria almeno 100 guerriglieri. Ciò ha spinto Frans Timmermans, ministro olandese degli Affari Esteri, e il suo omologo belga Didier Reynders a esprimere serie preoccupazioni su questo trend, troppo sottovalutato dai media occidentali e dalla stessa Ue. «Questi giovani faranno ritorno in patria traumatizzati e dopo aver subito un totale lavaggio del cervello», hanno dichiarato i due ministri ad un incontro internazionale. Secondo i due diplomatici «essi saranno una potenziale minaccia per i Paesi europei». In Olanda sono già diverse decine le famiglie che chiedono al Ministero degli esteri e alle organizzazioni internazionali indicazioni su come riportare indietro i loro figli. 
Danimarca.  “I giovani gangster combatteranno in nome dell’Islam”, titolava qualche tempo fa un quotidiano della capitale. Secondo i servizi segreti danesi, infatti, diversi esponenti delle più violente bande di immigrati di Copenaghen sono attualmente in Siria per partecipare alla guerra santa. Ciò rischia di aggiungere una componente fondamentalista alla vita di criminali incalliti. «È una nuova tendenza. Queste persone sono già potenzialmente violente, e tornando a casa hanno accesso ad armi ed esplosivi. Il rafforzamento dei legami tra i criminali comuni e gli islamisti è inquietante», dichiarava il capo dell'intelligence intervistato dal quotidiano.
Neppure i belgi, infine, di sicuro dormono sonni tranquilli: in Europa il Belgio sarebbe infatti diventato “Il principale punto d'origine” dei giovani che partono per la Siria, scrive De Morgen. Il quotidiano cita un esperto di terrorismo, secondo cui «in Belgio esiste ancora un grande [bacino] potenziale di combattenti», anche se «molti di loro resteranno delusi. Hanno in mente un’immagine eroica e vogliono diventare guerrieri, ma la maggior parte di loro non avrà un’arma. Sono impiegati per costruire barricate, per tenere un posto d’osservazione o come carne da cannone».

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Sì alle armi ai curdi. Ma non si sa ancora quali
di Gianandrea Gaiani
Dopo giorni di chiacchiere sugli aiuti militarti che l’Italia invierà ai curdi nessun chiarimento sostanziale è giunto dalle comunicazioni alle Commissioni parlamentari Esteri e Difesa dei ministri Mogherini e Pinotti. Nessuno dei nodi evidenziati dal dibattito politico e dai media negli ultimi giorni è stato sciolto dal Ministro della Difesa il cui intervento è stato a dir poco vago. La Pinotti ha detto che il governo «è impegnato a valutare con attenzione altre forme di aiuto alle stesse autorità regionali per incrementare le limitate capacità di autodifesa e di protezione locale delle popolazioni, attraverso il sollecito invio, in quel territorio, di materiale militare d’armamento già in uso alle Forze Armate nazionali. Tale contributo, destinato alla difesa personale e d’area, è costituito da armi automatiche leggere dal relativo munizionamento». Difficile però comprendere come si possano inviare ai curdi le armi in modo sollecito se il governo sta ancora «valutando con attenzione» le forme di aiuto.  La Difesa non ha ancora deciso o semplicemente non vuole fornire informazioni?  Tra le «armi automatiche leggere» surplus dell’esercito Italiano spiccano le mitragliatrici Browning e MG ma occorrerebbe addestrarne i curdi all’uso e inoltre i peshmerga avrebbero difficoltà a reperire munizioni e ricambi. 
L’invio di armi leggere italiane non soddisfa infatti le necessità dei curdi che hanno bisogno di armi di tipo sovietico che impiegano da sempre e soprattutto di armi anticarro e artiglieria con cui far fronte ai veicoli corazzati (inclusi i tank americani Abrams) e ai cannoni che i miliziani dello Stato Islamico hanno catturato a centinaia nelle caserme di ben tre divisioni irachene sbandate senza combattere nel giugno e luglio scorso a Tikrit, Mosul e Baji.  La Pinotti ha ammesso che «è all’esame» anche l’invio di armi leggere e contro- mezzi (cioè missili e razzi anticarro) provenienti dagli stock requisiti durante il conflitto balcanico che ammette essere «armamenti più famigliari e confacenti alle esigenze manifestate dai curdi» . 
L'alto rappresentante del governo regionale del Kurdistan in Italia, Rezan Kader, ha detto lunedì che «i peshmerga non possono arginare lo Stato Islamico con i mezzi al momento a loro disposizione», sostenendo la necessità di ricevere in particolare missili anti-carro ed elicotteri. Difficile ipotizzare la fornitura di velivoli ai curdi, ma nell’isola sarda di Santo Stefano sono conservate dal 1994 due mila tonnellate di armi ucraine sequestrate sulla nave Jadran Express che cercò di violare l’embargo internazionale alla ex Jugoslavia sbarcandole in Croazia. Si tratterebbe di 200 container contenenti 30 mila kalashnikov con oltre 20 milioni di proiettili, 4 mila missili anticarro AT-4 Spigot, 50 batterie lanciarazzi del tipo katyusha con 5mila razzi Grad, 400 lanciarazzi Rpg con 11 mila razzi anticarro. Una parte di queste armi è stata fornita in segreto dal governo Berlusconi ai ribelli libici a Bengasi, ma la notizia divenne di dominio pubblico quando i container contenenti le armi vennero imbarcati con scarsa sagacia su un traghetto civile. 
Sulla vicenda il governo pose il segreto di Stato così come doveva restare riservata anche la notizia della visita che lunedì il ministro Pinotti ha effettuato al deposito di Santo Stefano. Perché tanta segretezza? E perché il governo non ha fornito al Parlamento una lista completa delle armi che intende donare ai curdi? Certo pesa il tradizionale approccio vago e poco trasparente che caratterizza tutti i governi italiani in fatto di comunicazione sui temi militari. Basti pensare che nel silenzio più totale del Ministero della Difesa da inizio agosto Roma ha inviato a Gibuti 2 droni e 140 militari dell’Aeronautica come ha riferito anche la Nuova Bussola Quotidiana. 
Tornando alle armi per i curdi l’intervento parlamentare sembra indicare che Roma non confermi l’invio di missili e razzi la cui fornitura irriterebbe di certo Baghdad che non vuole che i curdi ricevano armi pesanti utili ora a sconfiggere lo Stato Islamico e forse domani a sostenere la pretesa di indipendenza del Kurdistan. Del resto senza armi pesanti i curdi non riusciranno a respingere i jihadisti e dopo le penose prestazioni offerte dal ben armato esercito iracheno limitare le capacità operative dei peshmerga significherebbe fornire un valido aiuto allo Stato Islamico. Rispondendo alle domande dei parlamentari il ministro Pinotti ha aggiunto che le armi «sono efficienti e sottoposte a trattamenti di conservazione nel tempo. Le verifiche sono state effettuate anche in questi giorni». Per armi leggere si intende mitragliatrici che le nostre Forze Armate usavano e non usano più, oppure stiamo parlando di razzi anticarro e soprattutto di munizioni e questo fa parte di quelle armi confiscate. 
Non si può però escludere l’ipotesi che il governo Renzi abbia già preso decisioni in merito senza volerne per ora informare nei dettagli il Parlamento e l’opinione pubblica. Impossibile non notare, infatti, che nel lungo intervento delle ministre Mogherini e Pinotti è presente la lista degli aiuti umanitari forniti ai curdi (49 tonnellate di alimenti, in particolare biscotti proteici e acqua potabile, 200 tende e 400 sacchi a pelo) ma neppure un numero relativo ad armi e munizioni. Vaga anche la tempistica nella consegna delle armi. La Pinotti ha riferito di invii via aereo e via nave la cui pianificazione può essere «finalizzata fin dai prossimi giorni» per poi «tempestivamente entrare nella fase operativa avviando la richiesta di tutte le necessarie autorizzazioni internazionali». 
Frase che sembra indicare che la decisione su quando far partire i carichi, quali inviare via aereo e quali via nave e se inviarli direttamente ai curdi a Erbil o prima a Baghdad non è stata ancora presa oppure non venga semplicemente comunicata. Non è superfluo ricordare che le armi trasportate via aereo in Kurdistan arriveranno a destinazione in poche ore mentre per quelle inviate a bordo di navi nella base italiana negli Emirati Arabi Uniti e da lì in aereo a Baghdad o Erbil i curdi dovranno attendere settimane. Nella speranza che i miliziani islamisti che si trovano a soli 20 chilometri da Erbil e Dohuk abbiano il buon gusto di aspettare che i curdi si riarmino.