martedì 26 agosto 2014

Non esiste una “teoria Bergoglio”: «La vera rivoluzione è il Vangelo»


Bergoglio
«Come nella poesia la strada si fa camminando» Seconda parte dell’intervista rilasciata a La Nacion dal direttore della Civiltà Cattolica, padre Antonio Spadaro, in viaggio a Buenos Aires alla scoperta delle radici di papa Francesco 

È stato a Buenos Aires per una settimana. Era quasi la sua prima visita alla città di Jorge Mario Bergoglio; la volta precedente ci era stato solo per alcune ore ed era passato con emozione per La Boca e San Telmo. Antonio Spadaro (Messina, 1966) sembrava allora voler conoscere tutto; e le circostanze gli sono state favorevoli: ha visitato altri quartieri, il Museo delle Belle Arti, la chiesa del Pilar. Ascoltando tango al Tortoni e celebrando messa nel santuario di San Cayetano de Liniers. La domenica ha trascorso la mattinata con padre Pepe Di Paola nella villa La Cárcova di León Suárez e di sera ha ascoltato Daniel Baremboin e Martha Argerich al Teatro Colón. Ha avuto lunghi incontri con Abraham Skorka e con il capo islamico Omar Abboud. Ha incontrato Victor Fernández, rettore dell’UCA, e il gesuita Diego Fares, dell’Hogar de Cristo, il Focolare di Cristo. Ha percorso con attenzione molte strade della città e si è fermato in diverse librerie. Ha preferito viaggiare sempre con mezzi pubblici: metropolitana, autobus, treno. Ha assaggiato il mate amaro e l’infuso di mate dolce. In una trattoria  ha voluto provare un salame e una morcilla, la salsiccia di sangue. Chiamare quest’accoppiata “matrimonio” gli è sembrato amichevolmente sacramentale. Quello che più gli è piaciuto della nostra cucina è stato il dulce de leche.
Questo gesuita, direttore della leggendaria rivista La Civiltà Cattolica, fondata a Roma nel 1850, dieci anni prima dell’unificazione politica dell’Italia, ha avuto il privilegio di fare la prima intervista a papa Francesco, il cui testo ha girato mezzo mondo in tutte le lingue. Bergoglio, fino ad allora sempre riluttante a prendere contatto con i mezzi di comunicazione, ha accettato di conversare con lui per tre sere.
Spadaro ha studiato filosofia all’Università statale della sua città, poi teologia alla Gregoriana di Roma, si è specializzato in letteratura e comunicazioni sociali, approfondendo gli studi negli Stati Uniti. Ha scritto più di 20 libri: di critica letteraria (forte l’interesse per gli autori nordamericani), media digitali e spiritualità. È gentile e discreto. Ha una particolare sensibilità nel percepire i dettagli. Evidentemente, gli anni romani gli hanno dato una secolare prospettiva storica. È convinto che ogni papa è anche, con i suoi pregi e i suoi difetti, un segno della provvidenza divina per tutta la Chiesa. Si chiede: “che vuole dirci il Signore con l’elezione di Bergoglio?” Crede che conoscere le sue radici in questa città potrebbe lasciare intravedere una qualche risposta. Spadaro non ha mai voluto essere considerato un “vaticanista”, ma di fatto oggi è ritenuto come uno dei migliori e più informati di questa rara specie.
Il suo amore per la letteratura nasce grazie all’insegnamento, quando i gesuiti gli chiesero di prendere una cattedra in una scuola superiore. «Mentre insegnando letteratura metabolizzavo la filosofia. Mi sono reso conto che la letteratura è più vicina alla vita e allora ho fatto la mia scelta di preferire le lettere. Sentivo che era molto vitale e devo riconoscere che gli alunni mi hanno aiutato molto a scoprirlo perché si sentivano chiamati in causa. Potevamo affrontare temi filosofici elevati attraverso la mediazione della parola poetica, decisamente molto più completa rispetto ad altre. È stato allora che mi sono innamorato dell’espressione creativa e così ho anche coinvolto gli alunni in un progetto di scrittura. Molto dopo mi sono reso conto che era un’esperienza simile a quella che aveva vissuto Bergoglio quando era professore a Santa Fe».
Dopo aver visitato tanti luoghi, ha trovato la sintesi che le permette di capire meglio Bergoglio?
«Non amo la sintesi perché la realtà è superiore a qualsiasi sintesi. Parlare di sintesi suppone già una posizione ideologica. Preferisco vivere il conflitto, che qui a Buenos Aires addirittura sperimento fisicamente nell’avvertire le differenze. Realizzare una sintesi significa ridurre tutto a un’ingiusta semplicità. Quando parlo di conflitti, non mi riferisco necessariamente ad aspetti negativi, ma a differenze. Quello che mi sembra di vedere, è un quadro con colori accesi, che non possono sintetizzarsi, né agglutinarsi, ma che allo stesso tempo sono molto espressivi. Preferisco percepire tutta la loro conflittualità, anche negli estremi che ho potuto vedere, che non sono incompatibili: la villa da un lato e il Teatro Colón dall’altro, due facce così diverse e non necessariamente opposte. Mi ha impressionato sapere che quando Bergoglio era superiore a San Miguel voleva che i gesuiti che si stavano formando andassero a teatro; per lui l’opera era molto importante. La persona il cui cuore si commuoveva nelle ville miseria, sentiva l’importanza della lirica. Non saprei trovare adesso le proporzioni che esige una sintesi, preferisco che le esperienze di questi giorni restino sproporzionate dentro di me. Non voglio scegliere un elemento al di sopra degli altri, anche se certamente molti di essi mi hanno impressionato e mi hanno permesso di capirci qualcosa. In realtà Bergoglio sarebbe inspiegabile senza il contesto di questa grande città. La sua mentalità è frutto di una spiritualità urbana, in cui ci sono contrasti molti forti, dalla povertà estrema fino al lusso o a espressioni culturali d’eccellenza. Il tango mi sembra una musica profondamente popolare e allo stesso tempo piena di emozioni. C’è un’affascinante cultura meticcia. Perfino il dialogo interreligioso, così vivo qui, è frutto di una storia recente che non ha sofferto i peggiori traumi europei».
Il papa ha fallito nella sua mediazione di pace in Medio Oriente?
«Non credo; al contrario, penso che il suo gesto oggi è più significativo. È stato qualcosa di profetico, oltre la storia e capace di attraversarla. Che si sia scatenato un cruento conflitto dopo l’abbraccio di pace trasforma il suo in un gesto simbolico che evidenzia ancora di più la sua natura profetica. Quello che più mi impressiona è che il dialogo, che si è sempre mantenuto nel segno della diplomazia, con Francesco sia diventato un gesto di amicizia. La diplomazia è fondamentale ma, in qualche modo, implica anche una certa ipocrisia. L’icona del viaggio è stato l’abbraccio a Gerusalemme tra il Papa, Abraham Skorka e Omar Abboud. Questo gesto ha imposto un nuovo linguaggio, una nuova visione e una nuova simbologia: l’amicizia è il contrario della strategia tattica. D’altro canto, si è trattato di un abbraccio non tra leader religiosi riconosciuti nel mondo ma tra amici, con cui Bergoglio ha relazioni da anni».
Cosa significa Francesco sul piano internazionale?
«Si situa come leader mondiale riconosciuto da molte persone nel mondo. Si tratta di un dato verificabile: la sua figura è molto attraente e la sua autorità non risiede nella distanza ma, al contrario, nella vicinanza. Questo aspetto sconvolge i canoni del potere, secondo cui chi vuole imporsi si mantiene distante. La sua grande sfida è la dimensione missionaria della Chiesa, che descrive come un ospedale da campo. Si tratta di un’apertura radicale di fronte al mondo, di fronte alla realtà. Io direi che quella di Francesco non è una rivoluzione di contenuti, perché quello che cerca di fare è di ripetere il Vangelo. In ogni caso prospetta una rivoluzione ermeneutica, che mette in relazione il Vangelo con le esperienze dell’uomo di oggi; e per questo probabilmente molti lo sentono vicino. Cosa che non solo si legge sui quotidiani ma che io ho potuto sperimentare personalmente quando, il giorno dopo la pubblicazione dell’intervista che ho realizzato, ho ricevuto più di mille sms o mail di persone che si dicevano lontane dalla Chiesa a che avevano avvertito nell’intervista una vicinanza, una sintonia profonda che ha portato molti a ritornare alla lettura del Vangelo, ad alcune pratiche della Chiesa, o a considerare che non si sarebbero allontanati così tanto se avessero letto prima parole del genere. Tutto ciò parla dell’impatto che hanno suscitato le sue risposte. Un’altra immagine che mi impressiona, e che lui è solito usare, è la Chiesa dalle porte aperte. Più che aprire le porte perché la gente entri in Chiesa, si tratta di aprirle perché il Signore possa uscire incontro alle persone». 

«Che vuole dirci il Signore con l’elezione di Bergoglio?». Continua su questo solco,  con uno sguardo all’attualità della Chiesa e del mondo, l’intervista concessa da padre Spadaro durante il suo viaggio in Argentina
Quali sono i punti di maggiore resistenza che incontra Francesco nella Chiesa?
«Credo che ci sia un preconcetto. Il Papa non ha un programma preventivo chiaro e nitido che vuole applicare nella Chiesa. Per Francesco la cosa fondamentale è il discernimento, e mi sembra che prenda le sue decisioni più nella cappella che alla scrivania. C’è una direzione verso la quale procede e un disegno generale, ma prende le decisioni leggendo la storia momento per momento. È difficile dire cosa passa per la sua testa o cosa vuole fare con precisione; credo che neanche lui ha tutto così chiaro. Cerca di interpretare la storia e di rispondere alle sue esigenze. D’altra parte, la collegialità per lui è molto importante. Alcuni lo considerano un eroe isolato, ma se fosse così correrebbe il rischio di trasformarsi nella figura di un nuovo imperatore, un sovrano illuminato. Credo che il papa miri molto di più alla collegialità, a un cammino comune; e questo esige che i cambiamenti che vuole fare debbano essere condivisi. Quello che avverto è un itinerario che procede nella storia passo dopo passo e trova resistenze che, in qualche modo, pian piano supera per strada. Come nella poesia, la strada si fa camminando. Non possiamo pensare ad una sorta di “teoria Bergoglio”, in cui tutto è già pensato e predeterminato. Questo sarebbe davvero errato. In ogni modo, sono i gruppi ultraconservatori che lo attaccano di più».
Ci saranno cambiamenti importanti nella struttura della Chiesa?
«La mia impressione è che già sia iniziato un processo di cambiamento: le consultazioni con i cardinali, la riflessione sull’economia e la struttura della curia? Bergoglio ha già dato un forte impulso alla vita della Chiesa che, in un certo senso, è rivoluzionario; anche se forse ancora non ce ne rendiamo conto. Rispetto al sinodo della famiglia vuole dibattiti aperti».
Bisogna sottolineare la quantità di relazioni che il Papa mantiene con dirigenti o referenti politici e sociali. Come si avverte questo a Roma?
«Credo che preservi le relazioni umane; molte volte si tratta di amicizie o vincoli che coltiva da tempo e ai quali non è disposto a rinunciare. Che lo abbiano eletto papa non vuol dire che debba perdere la sua condizione di essere umano. Per lui contano molto le amicizie e le relazioni. E ha una memoria eccezionale, davvero. Un aspetto interessante della sua personalità è che, nonostante i suoi molti impegni e la stanchezza che possa sentire, consideri le relazioni umane fondamentali per la sua vita».
Ma il suo stile non è sconcertante per la diplomazia vaticana e per la burocrazia della Chiesa?
«Non credo che sia un’eccezione che un papa conservi le sue relazioni personali, in ogni caso quello che risalta è il suo stile. È un uomo che ha l’abitudine di chiamare molte persone per telefono, per esempio. E questo lo percepisco come un aspetto della sua umanità e della sua freschezza. Varie volte mi ha fatto notare che dobbiamo essere “persone normali”. Per lui la dimensione della normalità della vita è importante, e allo stesso tempo questo atteggiamento smantella la vita di corte. Quello che stiamo vivendo è lo smembramento di un immaginario collettivo che considerava il Sommo Pontefice come una sorta di semidio in una corte monarchica. Cambiare un immaginario collettivo è una profonda innovazione, perfino molto più di una riforma strutturale. Lui sostiene che le riforme arrivano dopo, perché quello che deve prevalere è lo spirito del Vangelo. Una volta mi ha detto: “La vera rivoluzione è il Vangelo. Tutto il resto viene dopo, come conseguenza”».
Come è la sua relazione con il papa?
«Non voglio presentarla come qualcosa di eccezionale. Tutto è iniziato quando mi ha chiamato, essendo io il direttore di Civiltà Cattolica. Ci siamo rivisti in Brasile durante il suo viaggio a Rio de Janeiro, e dopo a lungo per l’intervista. Non esiste nessuna formalità né incarico speciale. Se mi chiama per telefono, è per la relazione stabilita».
Lei è un uomo con cui si consulta?
«Assolutamente no».
E perché molti la considerano tale?
«Non lo so. Forse lo deducono dall’intervista».
Un’intervista che è stata una specie di presentazione del papa nella società, il preambolo dell’esortazione apostolica Evangelii Gaudium?
«Sì, l’intervista ha avuto luogo in un momento particolare. È stata una conversazione molto ampia, abbiamo potuto trattare aspetti personali. Bergoglio non ha fatto problemi, ha superato le mie aspettative, ed è stato alla vigilia della pubblicazione dell’esortazione, all’inizio di un pontificato che suscitava molte incognite nella società e nella Chiesa. Il modo di esprimersi e quello che ha detto mi hanno impressionato».
Dopo la Corea è già annunciato un viaggio in Albania?
«È significativo che il suo primo viaggio europeo sia stato a Lampedusa e che il secondo sia in Albania. C’è una visione geopolitica nuova: sceglie vere frontiere. Il Papa capisce che la comprensione della realtà proviene fondamentalmente dalle periferie».
La versione originale di questa intervista è stata pubblicata dall’autore il 19 agosto 2014 su “La Nacion”   quotidiano di Buenos Aires, secondo per tiratura su scala nazionale,  fondato nel 1870

Traduzione a cura di Domenico D’Amiano



La versione originale di questa intervista è stata pubblicata dall’autore il 19 agosto 2014 su “La Nacion”   quotidiano di Buenos Aires, secondo per tiratura su scala nazionale,  fondato nel 1870