sabato 23 agosto 2014

Religione in movimento.



 Il pellegrinaggio è postmoderno

(Ugo Sartorio) Quando si parla di religiosità popolare non si evoca qualcosa di stantio, ferraglia vecchia da rottamare oppure tradizioni di un tempo tenute in vita dalla Pro loco per garantire un weekend di folklore paesano, ma si mette in campo un tema d’attualità, un vero e proprio evergreen, capace di sorprendere. Il linguaggio per delimitare il campo è più che variabile: si parla, infatti, di devozione, pietà, religiosità, fede popolare, ma in ogni caso s’intendono cose abbastanza vicine anche se non identiche. 
Che hanno in comune un doppio presupposto: innanzitutto il fatto che l’uomo è per natura “uomo religioso” (homo religiosus), per cui tende spontaneamente verso l’alto, in cerca del divino e di una pienezza di vita che non riesce a darsi con le proprie mani. Se, come primo passo, non si riesce a dimostrare che lo slancio religioso appartiene di diritto alla “versione base” dell’umano, si corre il rischio di vederlo ridotto a un trascurabile optional, anzi a un’aggiunta ingombrante e al limite deformante. 
In secondo luogo, quando l’uomo si apre alla trascendenza, incontra sempre esperienze, luoghi, oggetti, persone, che si frappongono, fino a sostituirlo, all’Assoluto di cui sono semplici mediazioni. In prima battuta, quindi, l’opposto della fede non è l’incredulità, ma più propriamente l’idolatria, la sostituzione del mezzo con il fine, dell’ultimo con il penultimo, oppure l’investimento alternativo in pezzi di fango colorati di cielo: questo sono gli idoli. 
Dettagliando brevemente tale possibile capovolgimento, dal quale anche la religiosità popolare va preservata, bisogna fare attenzione a che i pellegrinaggi non si trasformino in viaggi turistici low cost, che le sagre popolari non diventino forme di culto dell’identità territoriale, che la processione non travalichi in ostentazione (si vedano le recenti tristi vicende in terra di Calabria), che la drammatizzazione liturgica della Settimana santa non sia autocelebrazione della locale compagnia di teatro. 
In tutti questi casi è il religioso che viene reso funzionale all’umano, non viceversa, come dovrebbe essere. 
Si badi bene, stiamo parlando di rischi possibili, dopo di che ci mettiamo decisamente dalla parte delle potenzialità che tutte queste forme religiose offrono alla fede dei singoli e della collettività.
Ma qual è, ci chiediamo ora, il senso più proprio dell’aggettivo “popolare” che sta accanto a religiosità. È tempo di confutare la tesi secondo la quale la religiosità popolare è fenomeno marginale, recessivo, quasi un sottobosco che sopravvive per il fatto di stare lontano dalla luce (dalla razionalità!) e di coinvolgere tutto sommato gente di basso livello sociale. Non è vero che la religiosità popolare è religiosità dei poveri e tantomeno religiosità povera. Chi se la sentirebbe di affermare che alle espressioni devozionali sopra elencate (pellegrinaggi, feste paesane per il santo protettore, processioni, e via dicendo) partecipano solo persone di poca cultura o ai margini della Chiesa? 
Oggi siamo molto lontani dagli schematismi della lettura illuminista della religiosità popolare, che vedeva nella religione ufficiale un fenomeno di élite controbilanciato dalla fede ignorante del popolino, ma anche di quella romantica, che metteva in opposizione fede dei dotti e dei semplici, come pure dalla lettura neomarxista che ne faceva un termine di confronto e scontro tra classe dominante e classi subalterne (cfr. Toccare il divino, Padova, Messaggero, 2012). La società complessa dei nostri giorni non è più così stratificata e non cerca nella religione forme di rivincita di qualche tipo. 
La libertà di non credere da una parte, come mette in evidenza il filosofo canadese Charles Taylor (L’età secolare, Milano, Feltrinelli, 2009), è diventata libertà nella scelta di fede dall’altra. E oggi la religiosità popolare è nutrimento della libertà e della fede di molti. Nutrimento sano e calorico in giusta dose. 
Agli inizi degli anni Duemila, una sociologa francese della religione, Danièle Hervieu-Léger, nel suo Il pellegrino e il convertito (Bologna, Il Mulino, 2003), sosteneva che oggi le forme prevalenti del credere, in opposizione a quella tradizionale, sono sostanzialmente due: quella riassunta nella figura del pellegrino e quella che invece si rispecchia nel convertito. Parlando della prima delle due, che più ci interessa, la descrive come molto distante dal modo tradizionale di praticare la fede, soprattutto per il netto distacco da ogni vincolo istituzionale. Si passa, infatti, da una pratica obbligatoria, quella del praticante, a una volontaria: il pellegrino, che si mette in marcia quando decide; da una pratica regolata dall’istituzione a una autonoma: il pellegrinaggio non risponde direttamente a dettami delle gerarchie ecclesiastiche; da una pratica territoriale stabile a una mobile: oltre la parrocchia o la città di residenza; da una pratica ripetuta e ordinaria a una eccezionale e straordinaria: si parte per un’occasione speciale, spesso rispondendo a un impulso interiore.
Senza sposare in tutto questa tesi, altri autori giudicano che, a fronte del prevalere di una religiosità individuale e mobile, sulla quale l’istituzione religiosa non riesce ad avere presa e tanto meno controllo, la stessa istituzione sembra comunque puntare su una religiosità in movimento. In ambito cattolico, le giornate mondiali della gioventù sarebbero indicative di questo nuovo stile di mobilitazione collettiva (cfr. Franco Garelli e Raffaella Ferrero Camoletto, Una spiritualità in movimento. Le giornate mondiali della gioventù da Roma a Toronto, Padova, Messaggero, 2003), riscontrabile inoltre nella riabilitazione di processioni, missioni parrocchiali, congressi eucaristici e altro. In fondo, lo stesso Giovanni Paolo II, Papa pellegrino, ha accreditato questa forma di religiosità. 
Insomma, il ritorno dei pellegrinaggi non dice di uno sguardo imitativo rivolto al passato, quasi per rispolverare stili di Chiesa superati, ma piuttosto i pellegrinaggi sono una forma moderna (e postmoderna) del credere, poiché contengono in sé la consapevolezza profonda dell’uomo contemporaneo di essere in costante evoluzione, sempre in cammino, in ricerca, sulle tracce dell’Eterno percorrendo le vie del mondo, homo viator secondo l’espressione resa famosa da Gabriel Marcel, filosofo francese dell’esistenzialismo cristiano. 
L’indicazione è quanto mai preziosa soprattutto nel contesto del villaggio globale in cui l’andirivieni a flusso continuo di gruppi umani e soggetti apolidi rischia di incrementare — almeno secondo l’analisi del sociologo inglese di origini polacche Zygmunt Bauman (La società dell’incertezza, Bologna, Il Mulino, 1999) — la figura del vagabondo e del turista, a scapito invece di quella del pellegrino. Dove sta la differenza? Mentre il vagabondo e il turista sono figure di passaggio, girovaghe, instabili e inquiete, il pellegrino viaggia in modo essenziale e orientato alla meta. Se questo è vero, per andare nella giusta direzione, o anche solo fino in fondo al nostro viaggio, non ci resta che farci pellegrini.
L'Osservatore Romano