venerdì 29 agosto 2014

Tra profezia e diaconia. Il cristianesimo come stile, alla luce di Papa Francesco



Spirito contemplativo e mistica della fraternità nel magistero di Papa Francesco. Lo stile del cristiano

Profezia e diaconia. «Tra profezia e diaconia. Il cristianesimo come stile, alla luce di Papa Francesco» è il titolo della relazione pronunciata dal preside dell’Istituto universitario «Sophia» di Loppiano al seminario di studio organizzato a giugno, a Firenze, da Caritas italiana e da «Il Regno». Riportiamo una parte del testo, pubblicato nel supplemento speciale del numero 14 della rivista.
(Piero Coda) Gesù asceso al cielo — ha detto Papa Francesco all’Angelus nella solennità dell’Ascensione (1° giugno 2014) — porta in regalo al Padre le piaghe della sua/nostra umanità. È questo il mistero della Chiesa e dell’umanità che si fa oggi, a cinquant’anni dal Vaticano II, nel soffio profetico del ministero di unità e missione universale di Papa Francesco, singolarmente percepibile. E ci spinge e ci incalza. Verso dove? Come? Occorre — ha detto il Pontefice ai vescovi italiani — «inforcare occhiali capaci di cogliere e comprendere la realtà e, quindi, le strade per governarla, mirando a rendere più giusta e fraterna la comunità degli uomini».
Una parola, per cominciare, sullo “stile” con cui, da discepoli di Gesù, siamo chiamati a riflettere insieme su ciò che lo Spirito ci suggerisce attraverso i “segni dei tempi”: ascoltando e dialogando, tra noi certo, ma insieme e prima e in ogni caso indirizzando il nostro cuore e la nostra mente all’ascolto della Parola nel soffio dello Spirito che illumina e discerne, come «spada a doppio taglio» (cfr. Ebrei, 4, 12), la nostra storia. Mi pare essenziale questa premessa: per non «correre invano» (cfr. Galati, 2, 2), per non battere l’aria, ma per aprirci alla sorpresa di ciò che lo Spirito Santo ha in serbo per noi. Il momento dello Spirito e il momento dell’umanità che viviamo non ci permettono di menar il can per l’aia. Occorre avere il cuore pronto e occorre compiere il passo nuovo che ci è chiesto.
Direi che sono tre gli atteggiamenti che ci sono donati e insieme richiesti — ma prima donati, e per questo poi anche richiesti — da Gesù risorto e che Papa Francesco con vigore ci ripropone: apertura all’iniziativa di Dio che si fa dono oggi per noi; condivisione del «grido» che sale dal cuore dei fratelli; spirito contemplativo e sinodale. Innanzi tutto, il nostro cuore (in senso biblico, di cui la mente è espressione) va tenuto aperto, va dilatato anzi a percepire, accogliere, decifrare e seguire l’iniziativa dell’amore di Dio. Noi, tutti, siamo già da sempre, in Gesù, presi dentro dall’amore del Padre nella comunione dello Spirito. Sembra scontato dirlo, per un cristiano: ma non è scontato far sempre di nuovo scaturire la nostra vita, il nostro pensare e il nostro agire dall’esperienza di questo dono originario e permanente che definisce il nostro essere, il nostro guardare a noi e al mondo, il nostro operare. Noi siamo stati e siamo chiamati a vivere dentro questo spazio aperto e nuovo che è descritto dall’amore del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. È di qui, dall’avere sempre presenti al cuore gli occhi dello sguardo d’amore di Dio per noi e per tutti, che diventiamo ciò che siamo in Cristo, «nuova creazione», e abitiamo con responsabilità e profezia il kairós del nostro tempo.
In seconda battuta, o meglio in simultaneità, il nostro cuore, nascosto con Gesù nel Padre (cfr. Colossesi, 3, 3), ha da essere, in Gesù, ferito dal «grido» dei fratelli e delle sorelle e dalle piaghe incise nel loro corpo e nella loro anima. Come Gesù è sceso nell’abisso della povertà, della sofferenza, persino del peccato, così il nostro vivere, pensare, discernere, agire e servire da discepoli non può esser fatto se non ascoltando e facendo nostro il «grido del povero che invoca», come canta il Salmo 34, 7, se non calandosi sino in fondo nelle piaghe dell’umanità facendole nostre. Si tratta di grida e piaghe che alcune volte sono anche rimosse, camuffate o restano inespresse. Occorre avere lo sguardo e l’ascolto di Gesù crocifisso per scoprirle e amarle. Anzi, occorre scoprire e amare in esse Gesù crocifisso stesso. Scoprirle, guardarle e ascoltarle, perciò, queste ferite e queste piaghe, con amore: sino a riconoscere e a far sprigionare in esse e da esse, con cuore ricco di misericordia e gesti concreti, il profumo della speranza, la promessa della libertà, la compagnia della giustizia e della gioia.
L’uno e l’altro atteggiamento che ho così rapidamente descritto, in verità, non sono che le due facce di un’unica medaglia: lo “stile” di sequela che oggi ci è chiesto. Papa Francesco lo definisce con due parole: «spirito contemplativo» e «mistica della fraternità». Non si tratta di uno stile spirituale soltanto, ma teologico, culturale, sociale: uno stile che immerge il nostro esistere, personale e comunitario, nella Pasqua di Gesù e che, perciò, ci fa morire e rinascere a vita nuova in lui. Spirito contemplativo: Papa Francesco, nella Evangelii gaudium, lo descrive così: «Posti dinanzi a lui con il cuore aperto, lasciando che lui ci contempli, riconosciamo questo sguardo d’amore che scoprì Natanaele il giorno in cui Gesù si fece presente e gli disse: “Io ti ho visto quando eri sotto l’albero di fichi” (Giovanni, 1, 48). Che dolce è stare davanti a un crocifisso, o in ginocchio davanti al Santissimo, e semplicemente essere davanti ai suoi occhi! Quanto bene ci fa, lasciare che egli torni a toccare la nostra esistenza e ci lanci a comunicare la sua nuova vita! (...) È urgente ricuperare uno spirito contemplativo, che ci permetta di riscoprire ogni giorno che siamo depositari di un bene che umanizza, che aiuta a condurre una vita nuova. Non c’è niente di meglio da trasmettere agli altri» (n. 264). Mistica della fraternità: ecco le parole di Papa Francesco, sempre nell’Evangelii gaudium: «Oggi, quando le reti e gli strumenti della comunicazione umana hanno raggiunto sviluppi inauditi, sentiamo la sfida di scoprire e trasmettere la “mistica” di vivere insieme, di mescolarci, di incontrarci, di prenderci in braccio, di appoggiarci, di partecipare a questa marea un po’ caotica che può trasformarsi in una vera esperienza di fraternità, in una carovana solidale, in un santo pellegrinaggio» (n. 87). E spiega: «Quando viviamo la mistica di avvicinarci agli altri con l’intento di cercare il loro bene, allarghiamo la nostra interiorità per ricevere i più bei regali del Signore. Ogni volta che ci incontriamo con un essere umano nell’amore, ci mettiamo nella condizione di scoprire qualcosa di nuovo riguardo a Dio. Ogni volta che apriamo gli occhi per riconoscere l’altro, viene maggiormente illuminata la fede per riconoscere Dio» (n. 272).
Essere, dunque, contemplativi della Parola e insieme contemplativi del popolo di Dio (cfr. n. 154). L’espressione è quasi paradossale e vuol essere senz’altro provocatoria: per renderci più consapevoli di un tratto fondamentale e qualificante dell’evangelizzazione, soprattutto oggi. Esprime infatti, questa espressione, un’esigenza intrinseca al Vangelo: «La contemplazione che lascia fuori gli altri — scrive il Papa — è un inganno» (n. 281). Qual è, in realtà, il fine della contemplazione di Dio Trinità d’amore, in Gesù, sua Parola fatta carne, nel soffio dello Spirito Santo, se non servire lui, la Parola fatta carne, nella carne dei fratelli?
Ciò che più colpisce, nella formula di Papa Francesco «contemplativi della Parola e contemplativi del popolo di Dio», è il riferimento al popolo di Dio. Che cosa significa essere contemplativi del popolo di Dio? Significa — e la spiritualità di sant’Ignazio di Loyola, di cui il Papa è figlio, lo incarna — cogliere e promuovere ovunque le tracce operanti della presenza di Dio tra gli uomini e nelle cose umane, in quanto tutto è creato e ricreato in Cristo ad maiorem Dei gloriam.
Non è difficile riconoscere, in ciò, un’eco dell’insegnamento del Vaticano II sulla Chiesa popolo di Dio in cammino, che campeggia nel secondo capitolo della Lumen gentium e che, a ben vedere, illumina il magistero conciliare in tutte le sue espressioni. Così come ci è grato, in questo accento peculiare e appassionato dell’insegnamento di Papa Francesco, veder rifluire nella comunione della Chiesa una e cattolica il frutto spirituale e apostolico del cammino sofferto e della ricca esperienza di fede e condivisione vissuti, in questi ultimi decenni, dalla Chiesa in America latina.
L'Osservatore Romano