martedì 30 settembre 2014

1 ottobre. Santa Teresa di Lisieux




Appena do un’occhiata al Santo Vangelo,
subito respiro i profumi della vita di Gesù
e so da che parte correre… Non è al primo
posto, ma all’ultimo che mi slancio…
Sì lo sento, anche se avessi sulla coscienza
tutti i peccati che si possono commettere,
andrei, con il cuore spezzato dal pentimento,
a gettarmi tra le braccia di Gesù,
perché so quanto ami il figliol prodigo che ritorna a Lui.
Teresa di Lisieux
*
In quel momento i discepoli si avvicinarono a Gesù dicendo: «Chi dunque è il più grande nel regno dei cieli?». Allora Gesù chiamò a sé un bambino, lo pose in mezzo a loro e disse: «In verità vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli. Perciò chiunque diventerà piccolo come questo bambino, sarà il più grande nel regno dei cieli.
 (Dal Vangelo secondo Matteo 18, 1-4)

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L’ambizione è sempre figlia dell’insoddisfazione, dell’esigenza insopprimibile di colmare il vuoto che sperimentiamo. Tutto appare sfuggevole e precario, incapace di saziarci. Così si fa strada in noi l’illusione che in una certa grandezza vi sia la possibilità di dare consistenza e certezze alla nostra vita. Essere il più grande, la stessa tentazione che ha sedotto Adamo ed Eva, diventare come Dio, salire più in alto di tutti per decidere in tutta "libertà", dirigere e proteggere la propria vita senza nessuno che la contesti e frustri i nostri desideri. Il più grande in un affetto, al lavoro, nello studio, tra fratelli e amici, nel matrimonio, nella Chiesa. Il più grande per non scomparire e avere spazio nel cuore degli altri. Grandi, per essere cercati, accolti, compresi, apprezzati, ricordati, amati… Anche chi si nasconde nella timidezza cerca la stessa grandezza; spesso ci si sottomette all’evidenza della realtà covando risentimento, e l’apparente umiltà è solo un soprabito indossato per vestire le frustrazioni.

Ma la felicità, la beatitudine, la pace sono regali preparati per i bambini; non importa se capricciosi o irritanti, perché un bambino è amato proprio per la sua piccolezza. Più è debole, goffo e insicuro, più è oggetto di tenerezze e attenzioni. Non si può non amarlo, anche quando sbaglia, cade, urla e strepita o si chiude nel silenzio dei sogni infranti. Santa Teresa di Lisieux lo aveva compreso: Dio cerca, predilige e ama la piccolezza, la nostra realtà senza ipocrisie. Per questo una porta “porta stretta” schiude il passo al Regno dei Cieli. Per entrarvi non sono necessari sforzi e fantasie, le dimensioni di quell’uscio coincidono esattamente con le nostre, quelle “originali” con le quali Dio ci ha creati. Convertirci è, semplicemente, ritornare a quelle misure, al pensiero di Dio su ciascuno di noi; quello che avanza non ci appartiene, è falso, fonte di sofferenza e frustrazione. Diventare come bambini, significa dunque aprire senza paura gli occhi su noi stessi e amare la nostra piccolezza, accogliere la storia che con la Croce pota il superfluo. Anche oggi infatti, Gesù ci “chiama a sé”, piccoli “in mezzo” ai tanti grandi secondo la carne, ma i “più grandi” nel suo cuore, il Regno dei cieli così vicino a noi.


Vedi anche in questo blog tutti i post con la etichetta Teresa di Lisieux.

Francesco e Papa Francesco


Padre Pietro Messa racconta il carisma di San Francesco e i punti di comunanza con l'attuale Pontefice che ne ha preso il nome


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Il richiamo alla povertà della Chiesa; la "allergia" nei confronti di tutto ciò che appare come vanità e privilegio; il rigore e la sobrietà nella vita personale; lo spirito di servizio e l’umiltà. Sono queste alcune delle caratteristiche di Jorge Mario Bergoglio, il Papa che ha scelto di chiamarsi Francesco, facendo memoria del Poverello D’Assisi che stupì il mondo e la Chiesa per come visse coerentemente il Vangelo. A pochi giorni dal 4 ottobre, giorno in cui ricorre la festività del Santo Patrono d'Italia, abbiamo voluto approfondirne la conoscenza intervistando padre Pietro Messa, preside della Scuola Superiore di Studi Medievali e Francescani della Pontificia Università Antonianum, il quale ha indicato anche i punti di comunanza tra il Santo e l'attuale Pontefice.

Che cosa fece San Francesco di Assisi per la Chiesa e per il popolo del suo tempo?
Francesco d’Assisi, figlio del mercante Pietro di Bernardone, nel 1206 circa cambiò stile di vita e cominciò, come dice lui stesso nel Testamento, a vivere secondo la forma del santo Vangelo. Movente delle sue scelte non era la riforma della Chiesa, come facevano molti suoi contemporanei, e neppure osservare la forma della Chiesa primitiva. Questa sequela del Signore Gesù ebbe come effetto collaterale una riforma della Chiesa e l’impegno a esortare tutti ad abbandonare i vizi e vivere le virtù. 
Quali erano le fonti e le ragioni del suo carisma?
Il pensiero e la  spiritualità di frate Francesco d’Assisi, secondo quanto è possibile dedurre dai suoi scritti e dalle antiche fonti, si sono formati lungo gli anni mediante dei passaggi o stratificazioni che vari studi hanno cercato di individuare. Innanzitutto, come membro del ceto mercantile acquisì la capacità di leggere, scrivere e far di conto; infatti egli era alfabetizzato anche se non acculturato. A questo strato nel periodo giovanile si aggiunse l’ideologia cavalleresca, cioè il suo desiderio di diventare cavaliere, atteggiandosi e vestendo come uno di loro; dopo il cambiamento di vita, pur abbandonando tale stile di vita, ne rimasero tracce nella cultura cortese che, in un certo qual modo portò sempre con sé. Cambiando vita, è il Vangelo il suo riferimento costante, ma conosciuto soprattutto mediante la liturgia, la quale fu tramite anche del pensiero patristico.
Che cosa del pensiero e delle azioni di san Francesco è ancora attuale oggi?
Frate Francesco d’Assisi morì nel 1226 e fu canonizzato, ossia riconosciuta canonicamente la sua santità, nel 1228. Quindi la sua è una esperienza datata tra la fine del secolo XII e l’inizio del XIII. L’attualità di Francesco d’Assisi, come di ogni altra personalità o scritto del passato, non sta in loro ma nelle persone del presente, cioè in noi che decidiamo chi e che cosa è ancora attuale. E così si scopre che mentre molti dicono che san Francesco è attuale, al concreto lo è per motivi opposti! Quindi, per onestà intellettuale, è meglio parlare di cosa la vicenda di Francesco d’Assisi può offrire all’oggi.
Quali caratteristiche e insegnamenti dell’attuale Pontefice sono simili o vanno nella direzione indicata da san Francesco?
«Io mi sento gesuita nella mia spiritualità […] Non ho cambiato di spiritualità, no. Francesco, francescano: no. Mi sento gesuita e la penso come gesuita. Non ipocritamente, ma la penso come gesuita». Così disse papa Francesco nella conferenza stampa durante il volo di ritorno dal viaggio a Rio de Janeiro, domenica 28 luglio 2013, alla domanda se, da quando è papa, si sente ancora gesuita. Lui stesso ha detto di aver scelto come nome pontificio quello del Santo d’Assisi a motivo dell’amore per i poveri e all’impegno per la pace. 
Umiltà, povertà, amore appassionato per l’eucaristia e per la Chiesa. Il poverello di Assisi si consumò per testimoniare queste virtù. Come si fa a far conoscere e praticare la spiritualità di San Francesco nei tempi moderni?
Se uno vuole praticare la spiritualità di Francesco d’Assisi oggi basta che legge i suoi scritti e li applica! Certo, comincerebbe ad andare a Messa principalmente per vedere l’ostia consacrata e farebbe la comunione solo nelle grandi solennità e questo non è proprio secondo la maggior consapevolezza attuale dell’importanza della comunione anche quotidiana, raggiunta lungo i secoli grazie a diversi apporti quali ad esempio di San Pio X. Quindi, come Francesco era attento alla lettera del Vangelo per osservarne lo spirito – altrimenti sarebbe diventato un integralista fondamentalista – così chi desidera guardare all’Assisiate come esempio, se non vuole diventare un integralista fondamentalista francescano – nei secoli c’è stato anche questo! – è bene che sappia coglierne il cuore, più che modalità concrete di vivere che certamente sono datate al secolo XIII. 
Quali sono le iniziative che la Scuola Superiore di Studi Medievali e Francescani della Pontificia Università Antonianum sta preparando per il prossimo anno accademico?
Oltre ai corsi finalizzati a dare gli strumenti per approcciarsi in modo retto alle fonti medievali, soprattutto francescane, è in atto un approfondimento della presenza francescana in Asia, in modo particolare in terra di Cina. Infatti, dopo che lo stesso Francesco andò in Oriente dove incontrò il sultano, già nel 1246 frate Giovanni da Pian del Carpine raggiunse l’Estremo Oriente e assistette nella capitale dell’impero mongolo alla elezione di Güyük, essendo morto Ögödei, il successore di Genghiz Khān.
Nel 1294 Giovanni da Montecorvino giunse in terra di Cina e papa Clemente V, nel 1307, lo nominò vescovo di Kambaliq, l’attuale Pechino; come metropolita, a sua volta, consacrò i vescovi di Zayton. Morto in fama di santità nel 1328, nel 1924 il Concilio plenario cinese, presieduto dal futuro cardinal Celso Costantini ne chiese la canonizzazione. Sarebbe bello se, in seguito a tali studi, si potesse giungere alla canonizzazione di questo primo vescovo in terra di Cina!
Ma vi furono anche diversi martiri come i frati Minori – tra cui il beato Tommaso da Tolentino – uccisi nel 1321 in India a Thane, accanto all’attuale Mumbai, i cui resti mortali furono recuperati dal beato Odorico da Pordenone. Oppure importante è il ruolo che già in quei tempi aveva la penisola di Crimea come base per i viaggi verso l’Estremo Oriente. A questo proposito è appena stato pubblicato il volume di Giuseppe Buffon, Khanbaliq. Profili storiografici intorno al cristianesimo in Cina dal medioevo all’età contemporanea (XIII-XIX sec.), Ed. Antonianum, Roma 2014.
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Segnaliamo che sabato 11 ottobre, presso la Pontificia Università Antonianum, si terrà, alle 16, un incontro con Marco Roncalli sul tema "Giovanni XXIII: una vista segnata da san Francesco".

Anche nonni impoveriti, gay e ragazze madri..



Sinodo: non solo divorziati risposati ma anche nonni impoveriti, gay e ragazze madri
Agi
(Salvatore Izzo)
Tra meno di una settimana inizieranno i lavori del Sinodo Straordinario sulle sfide attuali alla pastorale familiare e l'attenzione dei media e' concentrata sul tema importantissimo della comunione ai divorziati risposati, che rappresenta probabilmente una sorta di "cartina di tornasole": l'accoglienza che sara' data alle loro attese infatti sara' un segnale per quell'umanita' dolente che per tante ragioni si sente ai margini se non proprio esclusa dalla Chiesa.  La risposta su questo tema arrivera' tuttavia solo alla fine di un percorso iniziato in febbraio con il Concistoro e che proseguira' poi nel 2015 con un Sinodo ordinario: Papa Francesco non vuole spaccature e contrapposiziooni ma che si formi un consenso all'interno della comunita' ecclesiale. L'indirizzo e' pero' molto chiaro: la misericordia deve prevalere sui legalismi, come fa capire l'Instrumentum Laboris, il documento di base del Sinodo che raccoglie le risposte alle 38 domande che Papa Francesco ha fatto diffondere da tutte le Conferenze Episcopali. Di fatto, comunque, l'opposizione ad ogni apertura che proclamano alcuni cardinali appare minoritaria. "Nell'ambito di quelle che possono definirsi situazioni matrimoniali difficili, si celano storie di grande sofferenza, come pure testimonianze di sincero amore". Dunque "urge permettere alle persone ferite di guarire e di riconciliarsi, ritrovando nuova fiducia e serenita'. Di conseguenza, serve una pastorale capace di offrire la misericordia che Dio concede a tutti senza misura". Si tratta allora di "proporre, non imporre; accompagnare, non spingere; invitare, non espellere; inquietare, mai disilludere", spiega il documento.
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Dal testo dell'Instrumentum emergono invece problemi e situazioni meno trattati dai media ma ugualmente urgenti e certamente molto sentiti dalla gente. "Nella societa' occidentale, sono ormai numerosi - ad esempio - i casi in cui i figli, oltre che con genitori separati o divorziati, risposati o meno, si trovano pure con nonni nella medesima situazione", rileva il documento per il quale il problema dei genitori dei divorziati (che spesso poi divorziano anche loro) sta anche nel fatto che proprio i nonni "devono supplire ai disagi della situazione". Infatti proprio "i divorziati e i separati che restano fedeli al vincolo" finiscono con lo scivolare in una situazione di disagio caratterizzata da "solitudine e poverta'"." Risulta che questi sono pure i 'nuovi poveri'".
Secondo l''Instrumentum laboris', "in dialogo con lo Stato e gli enti pubblici preposti", la Chiesa dovrebbe svolgere "un'azione di concreto sostegno per un dignitoso impiego, per giusti salari, per una politica fiscale a favore della famiglia, cosi' come l'attivazione di un aiuto per le famiglie e per i figli". Si segnala, in proposito, "la frequente mancanza di leggi che tutelino la famiglia nell'ambito del lavoro e, in particolare, la donna-madre lavoratrice. Si constata inoltre che l'area del sostegno e dell'impegno civile a favore delle famiglie e' un ambito in cui l'azione comune, cosi' come la creazione di reti con organizzazioni che perseguono simili obiettivi, e' consigliabile e fruttuosa". Piu' in generale, afferma il documento, "nelle risposte e nelle osservazioni, ricorrente e diffuso e' il riferimento alle ristrettezze economiche che attanagliano le famiglie, cosi' come alla mancanza di mezzi materiali, alla poverta' e alla lotta per la sussistenza". "Si tratta - rilevano i vescovi - di un fenomeno esteso, che non coinvolge solo i Paesi in via di sviluppo, ma e' menzionato con insistenza anche in Europa e in America del Nord" e c'e' attesa di "una forte parola profetica della Chiesa in relazione alla poverta', che mette duramente alla prova la vita familiare". "Una Chiesa 'povera e per i poveri'- infatti - non dovrebbe mancare di far sentire alta la sua voce in questo ambito".
"Un'attenzione particolare va data alle madri che non hanno marito e si prendono cura da sole dei figli". Lo afferma l''Instrumentum laboris' del prossimo Sinodo dei vescovi. "Vanno ammirati - si legge - l'amore e il coraggio con cui hanno accolto la vita concepita nel loro grembo e con cui provvedono alla crescita e all'educazione dei loro figli". Ma, se "da parte della comunita' cristiana va prestata una sollecitudine che faccia percepire la Chiesa come vera famiglia" ai figli delle regazze madri, lo stesso atteggiamento di apertura deve essere adottato nel caso in cui le persone che vivono unioni di fatto, anche coppie gay, "chiedano il battesimo per il bambino".
Centrale nel documento e' il richiamo alla protezioen dell'infanzia e delle donne, troppo spesso vittime, come i bambini, di indicibili violenze. "Si tratta - afferma l''Instrumentum laboris' del Sinodo Straordinario - di un dato davvero inquietante, che interroga tutta la societa' e la pastorale familiare della Chiesa". "La promiscuita' sessuale in famiglia e l'incesto - sottolinea il testo - sono ricordati esplicitamente in certe aree geografiche (Africa, Asia e Oceania), cosi' come la pedofilia e l'abuso sui bambini. A questo proposito si fa menzione anche dell'autoritarismo da parte dei genitori, che trova espressione nella mancanza di cura e di attenzione per i figli". Il documento denuncia in particolare la sovrapposizione tra una mentalita' maschilista e la "legge naturale" che arriva in alcuni contesti a considerare "naturale" la poligamia ", cosi' come "naturale" e' considerato "il ripudiare una moglie che non sia in grado di dare figli, e, tra questi, figli maschi, al marito". Grave e' soprattutto, si legge nel documento elaborato sulla base delle risposte alle 38 domande del questionario, "la mancanza di considerazione per i bambini si unisce all'abbandono dei figli e alla carenza ripetutamente sottolineata del senso di una genitorialita' responsabile, che rifiuta non solo di prendersi cura, ma anche di educare i figli, abbandonati totalmente a se stessi".
"Piu' episcopati - infatti - segnalano il dramma del commercio e dello sfruttamento di bambini. A questo proposito, si afferma la necessita' di rivolgere un'attenzione particolare alla piaga del 'turismo sessuale' e alla prostituzione che sfrutta i minori specialmente nei Paesi in via di sviluppo, creando squilibri all'interno delle famiglie". Il contributo al dibattito sinodale sottolineano poi "come tanto la violenza domestica, nei suoi diversi aspetti, quanto l'abbandono e la disgregazione familiare nelle sue varie forme, abbiano un impatto significativo sulla vita psicologica della persona e conseguentemente sulla vita di fede, dal momento che il trauma psicologico intacca in maniera negativa la visione, la percezione e l'esperienza di Dio e del suo amore". Tra le diverse situazioni critiche interne alla famiglia vengono menzionate costantemente le dipendenze da alcol e droghe, ma anche dalla pornografia, talvolta usata e condivisa in famiglia, cosi' come dal gioco d'azzardo e da videogiochi, internet e social network. "Quanto ai media - afferma l''Instrumentum laboris' - da una parte, si sottolinea a piu' riprese l'impatto negativo di essi sulla famiglia, dovuto in particolare all'immagine di famiglia veicolata e all'offerta di anti-modelli che trasmettono valori errati e fuorvianti". "Di fatto televisione, smartphone e computer possono essere un reale impedimento al dialogo tra i membri della famiglia, alimentando relazioni frammentate e alienazione", tanto che e' "ricorrente nelle risposte (al questionario) la sottolineatura di come anche il tempo libero per la famiglia sia catturato da questi strumenti".


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Forte: «Il Sinodo? Né chiusure né fughe»

Misericordia, preghiera e riflessione. Sono i tre punti irrinunciabili indicati da Bruno Forte segretario speciale del Sinodo, arcivescovo di Chieti-Vasto, teologo originale e apprezzato, a pochi giorni dall’avvio della grande assemblea sulla famiglia voluta da papa Francesco.

Tra i tanti problemi che dovranno essere affrontati qual è a suo parere quello centrale?
La crisi diffusa della famiglia. Crisi che si manifesta a tutti i livelli, non solo con l’aumento delle convivenze, delle separazioni, dei divorzi. Si tratta di un vero e proprio misconoscimento dei valori che sono alla base del messaggio cristiano, come se ciò che la Chiesa indica fosse ormai qualcosa di superato. D’altra parte, dall’Instrumentum laboris, emerge come tra i giovani ci sia un diffuso desiderio di famiglia, un bisogno di relazioni autentiche, la speranza di trovare situazioni in cui concretizzare la propria fiducia nell’amore che dura nel tempo. Atteggiamenti apparentemente contraddittori su cui saremo chiamati a riflettere.

È sbagliato affermare che dal Sinodo dovrà uscire una terapia efficace per quell’ospedale da campo in cui, almeno in parte, oggi si è trasformata anche la pastorale familiare?
Le attese sul Sinodo sono tante. Lo dimostra il numero di risposte al questionario pervenute. Ma queste attese, pur comprensibili e legittime,  devono tenere conto di due aspetti. Il Sinodo si svolgerà in due tappe. Quella straordinaria di quest’anno e quella ordinaria dell’ottobre 2015. Tra le due assemblee ci sarà tempo per la riflessione. Inoltre, come richiesto da papa Francesco, il nostro scopo sarà quello di annunciare la bellezza della famiglia, la validità alta, positiva del suo scopo. Ma con un linguaggio nuovo, più adatto e più comprensibile alle società complesse della nostra posmodernità.

Il Papa ha più volte ribadito il fatto che questo sguardo dovrà essere modulato sulla misericordia. 
Sì, il richiamo alla misericordia è insistente di fronte a tante famiglie spezzate. Dobbiamo trovare una strada per rendere efficace questo sguardo nuovo. E riuscire a discernere come, nel rispetto della dottrina, sia possibile andare incontro alle persone che sono in situazioni difficili, accompagnandole con un rinnovato abbraccio di tenerezza.

Ecco, proprio in riferimento al dibattito che si è innescato sulla possibilità di riammettere alla comunione i divorziati risposati, qualcuno ha fatto notare come sarebbe un po’ semplicistico pensare di risolvere le ferite di tante famiglie spezzate, rimodulando semplicemente una disposizione canonica. Il suo parere?
Direi che vanno valutati due aspetti. Innanzi tutto quello della nullità del vincolo.  Sappiamo che il Papa ha avviato un commissione per semplificare i processi. Ci si chiede se due sentenze conformi per arrivare alla sentenza di nullità siano davvero un’esigenza irrinunciabile. D’altra parte la possibilità dell’appello va mantenuta. La necessità di valutare la validità di tanti matrimoni è una questione molto delicata, che necessita di discernimento spirituale e dell’aiuto di persone esperte. 

L’altro aspetto?
Riguarda chi ritiene in coscienza che il primo matrimonio celebrato sia perfettamente valido ma si trova a vivere una seconda unione stabile, che non può essere superata se non a prezzo di causare nuove sofferenze, magari per la presenza di figli verso cui si hanno doveri umani e cristiani. Spesso ci troviamo di fronte a persone di fede profonda. E cosa diciamo loro? Che basta la comunione spirituale? Ma così c’è il rischio di svalutare la forza della struttura sacramentale visibile. Dobbiamo procedere con cautela ed esplorare tutte le vie che potrebbero riammettere queste persone all’Eucarestia. Che, d’altra parte, non è sacramento dei perfetti ma dei pellegrini.

Il ricorso alla prassi ortodossa potrebbe essere preso in considerazione?
Attenzione. Anche nell’ortodossia il matrimonio rimane uno. Per il secondo o terzo cosiddetto matrimonio è prevista soltanto una benedizione da parte del sacerdote.  Si tratta di una strada che non potrà essere assunta tout court ma, alla luce della nostra tradizione occidentale, si potrebbe valutare l’ipotesi di un cammino penitenziale che concorra a risolvere queste difficoltà.

Perché oggi la sensibilità dominante sembra così distante dalle nostre posizioni sulla famiglia?
Due ragioni. Le profonde trasformazioni del contesto culturale che guarda con crescente problematicità la prospettiva di un legame eterno, fedele, irreversibile. E poi le difficoltà di comunicazione. Ecco perché dobbiamo guardare con lucidità al cambiamento in atto e trovare nuove modalità,  sia linguistiche che di prassi, per rendere credibile il valore della dignità della famiglia.

Sarà possibile un’autentica apertura all’accoglienza senza ridefinire anche alcuni ambiti dottrinali?
Papa Giovanni XXIII volle che il Vaticano II avesse innanzi tutto un taglio pastorale. Credo che anche per questo Sinodo dovremmo metterci su questa strada. Non si tratta di mettere in discussione una fede radicata. Chi pensa di difendere la dottrina da un attacco combinato, non ha colto il carattere pastorale scelto dal Papa, che vuol dire scendere a toccare i problemi concreti della gente, abbracciare le sue fatiche, con uno sguardo di luce e di misericordia capace di sostenere la fede.

Abbiamo elencato tanti problemi, una nota di speranza?La preghiera. Il Papa ha voluto che l’inizio e poi lo svolgimento del Sinodo fosse accompagnato da alcuni momenti di preghiera. L’abbiamo fatto ieri, lo rifaremo con la veglia del 4 ottobre e durante tutto il corso dell’assemblea. La preghiera ci può far capire che certe sfide non vanno risolte né con una chiusura pregiudiziale, né con un atteggiamento avventuroso, ma alla luce della fede, in un spirito di ascolto, grazie appunto alla preghiera perseverante e fiduciosa.
Avvenire

Avevo tredici anni



Ricordo della visita di Paolo VI nelle Filippine. 

Anticipiamo la prefazione del cardinale arcivescovo di Manila al libro pubblicato dalla Emi del quale offriamo in anteprima uno stralcio. -- (Luis Antonio Tagle) Ripercorrere i viaggi di Paolo VI — come questo libro propone — per me significa riandare con la memoria a un giorno ben preciso della mia vita. Avevo tredici anni quando papa Montini venne nel mio paese. In quella fine di novembre del 1970 le Filippine si stavano rimettendo in piedi dopo un tifone. La visita del Papa offriva ai filippini un orizzonte luminoso verso cui guardare.
La comunità parrocchiale, la scuola, la famiglia, i mass media locali mi tenevano tutti costantemente aggiornato sull’evento che si stava avvicinando e facevano crescere in me le aspettative. Noi giovani di allora guardavamo ai preti con grande rispetto. Tremavamo con reverenza davanti a un vescovo. Mi chiedevo come mi sarei sentito trovandomi davanti il Papa! Quale emozione o quale esperienza avrebbe suscitato in me la sua presenza?
Il giorno dell’arrivo, la nostra scuola ci aveva portato ai bordi della strada da cui sarebbe passato Paolo VI giungendo a Manila dall’aeroporto. Eravamo lì ad accoglierlo sventolando le bandierine. La nostra eccitazione raggiunse il culmine quando sentimmo la sirena che anticipava l’arrivo della scorta papale. Tirando bene la schiena e il collo sgranai gli occhi per riuscire a vedere direttamente il Papa quando la sua auto sarebbe passata davanti a noi. E alla fine arrivò: un uomo vestito di bianco, un volto che irradiava pace, gioia e serenità. Vidi questa serenità. La avvertii profondamente. Ma a quel punto lui era passato. E noi tornammo a casa.
I giorni successivi furono pieni di immagini di Paolo VI rilanciate dai mezzi di comunicazione sociale. Rimasi particolarmente colpito dalla sua visita a una comunità di poveri nel distretto di Tondo, a Manila. Entrò nella baracca di una famiglia e si mescolò con persone che di solito erano rigorosamente tenute fuori dalla vista e dalla portata dei dignitari che facevano tappa nelle Filippine. Mi meravigliai anche al vedere come il Papa fosse in grado di radunare una moltitudine di persone, specialmente durante le messe e il rito dell’ordinazione di alcuni nuovi sacerdoti.
La visione di questi eventi mi fecero gustare nel Papa la presenza di Cristo, il pastore che raduna il suo gregge.
Piu tardi sarebbe arrivato il 1985, l’anno in cui mi recai alla Catholic University of America a Washington per perfezionare i miei studi in teologia. Desiderando approfondire il rinnovamento portato dal Vaticano II, accettai la proposta avanzata dal responsabile della mia licenza e del mio dottorato di studiare il concilio dal punto di vista di Paolo VI. Scrissi la mia tesi di licenza sul piano per il concilio tratteggiato dall’allora cardinale Giovanni Battista Montini. La mia dissertazione per il dottorato si concentrò in seguito sulla collegialità episcopale nel magistero e nell’azione di Papa Paolo VI. Era arrivato il mio turno di «viaggiare» nella grande mente, nel cuore e nell’anima di questo servo di Dio che ha guidato la Chiesa in un momento decisivo della sua storia.
Quando avevo tredici anni non avrei mai immaginato che quello sguardo fugace lanciato a Papa Montini sarebbe stato l’inizio di una vita in cammino al servizio della Chiesa, in spirito di comunione e di dialogo. Un cammino in cui oggi mi lascio accompagnare volentieri dal beato Paolo VI.

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Per il viaggio di Montini in Terra Santa. Un appunto che ha fatto la storia Anticipiamo uno stralcio dal volume «Paolo VI destinazione mondo. I viaggi di Montini incontro ai popoli» (Bologna, Emi, 2014, pagine 144, euro 13) di Giorgio Bernardelli e Lorenzo Rosoli, del quale riportiamo la prefazione in prima pagina. 
In principio fu un appunto. Quaranta righe scritte da Paolo VI di suo pugno, con la sua grafia chiara, che portano la data del 21 settembre 1963, «festa di San Matteo apostolo ed evangelista». Sembra il sogno di ogni storico della Chiesa: un’idea — il viaggio — destinata a rinnovare profondamente l’esercizio del ministero petrino compare nero su bianco su alcuni fogli sovrastati dallo stemma con la tiara e le chiavi incrociate. «Dopo lunga riflessione, e dopo aver invocato il lume divino, mediante l’intercessione di Maria Santissima e dei Santi Apostoli Pietro e Paolo — scrive il Papa — sembra doversi studiare positivamente se e come possibile una visita del Papa ai Luoghi Santi, nella Palestina». 
Quando annota queste parole sono passati tre mesi esatti dalla sua elezione. Una giornata speciale. Quel 21 settembre Montini ha incontrato la Curia romana, alla quale ha annunciato l’intenzione di procedere a una profonda riforma, nel segno del Concilio. Che sta per riprendere: è fissato infatti per domenica 29 settembre l’inizio della seconda sessione. E l’attesa per il discorso del nuovo Pontefice in apertura dei lavori è grande. Letto dentro questo contesto, è chiaro fin dall’inizio il legame profondo fra il Concilio e il progetto del viaggio in Terra Santa. Il Papa non vuole che la grande assemblea si areni su discussioni sterili. Perché, allora, non suggerire la via del ritorno alla sorgente, alle «radici della fede», attraverso il ritorno del successore di Pietro là dove l’annuncio del Vangelo è risuonato per la prima volta? 
Quell’appunto mostra come Montini abbia chiare fin dall’inizio le caratteristiche essenziali del viaggio. Intanto lo scopo: dovrà essere eminentemente religioso: «Rendere onore a Gesù Cristo, nella terra che la sua venuta al mondo ha reso santa e degna di venerazione e di tutela da parte dei cristiani. Ogni altro motivo, anche buono e legittimo, dovrebbe essere escluso da questo pellegrinaggio pontificio». Quindi lo stile e il respiro: «Sia rapidissimo, abbia carattere di semplicità, di pietà, di penitenza e di carità». Altri elementi abbiano il profilo di «fine subordinato»: come il risveglio dell’interesse cattolico per la difesa dei Luoghi Santi, l’implorazione della pace in «quella terra benedetta e travagliata», la speranza di trovare «qualche conveniente forma di avvicinamento» col mondo ebraico e quello musulmano.

Nel centenario della morte di Pio X.



Fraternità sacerdotale e centralità eucaristica secondo Papa Sarto
(Beniamino Stella) 
Pubblichiamo stralci dell’omelia che il cardinale prefetto della Congregazione per il clero ha pronunciato durante la messa celebrata a Riese — paese natale di Papa Pio X — a conclusione del ritiro dei sacerdoti della diocesi di Treviso organizzato in occasione del centenario della morte del santo pontefice. 
È noto che Pio X diede al suo ministero una direzione chiara, esplicitata nel suo motto episcopale, instaurare omnia in Christo, vissuto in chiave missionaria. In effetti, il ministero dei presbiteri è ordinato all’attuazione dell’invio in missione da parte di Gesù. Scorrendo le pagine del Vangelo, colpisce come Gesù stesso abbia associato la missione alla comunione fraterna tra coloro che la attuano. In Marco, ad esempio, l’istituzione dei Dodici ha lo scopo di radunarli in un collegio, per stare con lui e per essere inviati a predicare (Marco, 3, 14).
Perché Gesù ha desiderato che comunione e missione fossero ordinariamente congiunte? Lo ha spiegato lui stesso nel corso dell’Ultima cena; la comunione è fonte della missione e condizione per la sua efficacia, in quanto testimonianza della potenza della carità fraterna, che nasce dall’amore che unisce il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo.
La comunione è essenziale per la vita ordinaria, della Chiesa e di ogni presbitero. Come si può far sì che questa esigenza del nostro essere sacerdoti sia concreta e visibile? Certo, essa si manifesta innanzitutto nella collaborazione pastorale, agendo come membri di un unico presbiterio, aiutandoci a vicenda, cercando insieme i modi per annunciare il Vangelo oggi, sin nelle più remote periferie. Tuttavia, occorre essere attenti a non considerare la comunione solo come una forma strutturata di collaborazione; essa si fonda sul sacramento dell’ordine e genera una vera «fraternità sacramentale» (Presbyterorum ordinis, n. 8). Occorre pertanto che l’unità si manifesti nella quotidianità e che la fraternità sacerdotale penetri ogni dimensione del nostro “essere”, non limitandosi a costituire una modalità del nostro “fare”. Occorre unire le nostre forze per coltivare insieme, e meglio, il campo del Signore, ma è necessario unire anche le nostre vite, per sentirci una vera “famiglia sacerdotale”, dove i giovani collaborano con gli anziani e i sani aiutano i malati.
L’essere celibi è una vocazione speciale da parte del Signore, ma non ci deve portare a diventare “solitari” o, peggio, “individualisti”. La vocazione al celibato non può non permetterci, nell’equilibrio e nella disciplina degli affetti, di vivere e di sviluppare nel quotidiano ministero una serie di relazioni: con il Signore, con i confratelli e con i fedeli, e tra questi con gli amici e con la nostra famiglia; esse sono come le tre gambe di un tavolino, che si bilanciano a vicenda, se adeguatamente coltivate, e giovano al nostro equilibrio personale e spirituale, nonché alla nostra efficacia ministeriale.
Consolidati così nella nostra vocazione personale, esistono varie modalità per tradurre in pratica con i confratelli la fraternità sacramentale. La prima consiste nell’incontrarsi spontaneamente, soprattutto per condividere la Parola di Dio e pregare insieme, ma anche per condividere soddisfazioni e fatiche, magari a tavola, durante i pasti, che rendono più facile e immediata la condivisione, giovani e anziani insieme.
Anche la direzione spirituale tra preti è un’altra forma squisita della fraternità sacerdotale. Si tratta di un ministero fondamentale, sia tra noi sacerdoti, che da offrire ai fedeli. È auspicabile che in tale fraternità trovi posto anche un frequente ricorso al ministero della riconciliazione, per donarsi a vicenda la misericordia di Dio. La misericordia, ovviamente, non deve mai mancare anche nei rapporti quotidiani tra sacerdoti, attraverso un perdono reciproco e profondo, senza strascichi di risentimento, che permetta di andare oltre gli screzi e le incomprensioni, inevitabili anche nelle migliori famiglie.
Le varie forme di fraternità sacerdotale, vissute con differente intensità, trovano il loro pieno compimento nella vita comune, della quale Pio X affermava che produce «copiosi frutti». Essa è esigente, perché la serenità e la fecondità di ogni vita comune dipendono dalla carità. E sappiamo quanto impegno richiede la carità autentica.
In questa “famiglia sacerdotale”, in cui la fraternità tra i presbiteri, comunque si realizzi, è accompagnata e favorita dalla paternità del vescovo, la spiritualità diocesana è il comune denominatore, che modella e unisce tutti i sacerdoti posti al servizio di una determinata Chiesa particolare. La definizione dell’essenza e delle coordinate di tale spiritualità è il risultato di un sapiente equilibrio tra la vita pastorale e la vita spirituale.
La fraternità sacerdotale però non è semplicemente il frutto del nostro umano impegnarci, né una generica “fratellanza”; essa nasce da un sacramento, quello dell’ordine, e si alimenta e si consolida tramite un altro sacramento, la Santissima Eucaristia. Pio X ha voluto manifestare la fede nella potenza e nella fecondità dell’azione della Grazia, incoraggiando la comunione frequente e quotidiana e permettendo ai fanciulli di ricevere il Corpo di Cristo già a sette anni. La Chiesa, che è un mistero di comunione e di missione, trova il suo centro vitale nella comunione per eccellenza, che è l’Eucarestia. Quindi, carissimi sacerdoti, non celebrate mai l’Eucarestia come se fosse una funzione a voi esterna, un mero rito. La profondità della vostra preghiera insieme al vostro zelo di pastori vi porteranno a essere una sola cosa con Gesù, affinché l’Eucarestia sia davvero la fonte e il culmine della vostra fede personale, della vostra vita sacer-dotale, della vostra fecondità pastorale.
L'Osservatore Romano

La responsabilità di proteggere.



Il cardinale segretario di Stato all’assemblea generale delle Nazioni unite. Responsabilità di proteggere. Risposte multilaterali al terrorismo nella cornice della legalità internazionale

(NdR. In fondo in italiano il testo integrale del discorso) La pace non è il frutto di un equilibrio di poteri, ma piuttosto il risultato di una vera giustizia a ogni livello e, soprattutto, è responsabilità condivisa di individui, istituzioni civili e Governi. Su questo principio, affermato dal cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato, nell’intervento di ieri all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, occorre costruire le risposte internazionali alle crisi di questa epoca, a partire dalla sfida dei terroristi del cosiddetto Stato islamico (Is) oggi in atto in Iraq e in Siria. Sfida alla quale occorre rispondere in modo multilaterale nella cornice della legalità internazionale. 
I terroristi dell’Is sono ancora impegnati in strenui combattimenti su più fronti. Le milizie peshmerga dei curdi iracheni hanno infatti lanciato all’alba di oggi un’offensiva in tre direzioni, a nord della città di Mosul, ancora controllata dai jihadisti, a sud della città petrolifera di Kirkuk, e su Rabia, al confine con la Siria, dove sono entrati in mattinata. In nottata, le forze aeree della coalizione, alle quali per la prima volta si è aggiunta la britannica Royal Air Force, hanno bombardato postazioni dell’Is nei pressi di Kobane, la città curda siriana situata alla frontiera con la Turchia. Ieri, le milizie dell’Is erano segnalate in avanzata verso questa frontiera.
La sfida portata dall’Is è in questi giorni uno dei temi principali dibattuti all’Onu. Vi ha fatto riferimento, tra gli altri, il ministro degli Esteri siriano, Walid Al Muallem, che a giudizio unanime dei commentatori avrebbe avallato l’intervento contro l’Is della coalizione guidata dagli Stati Uniti, pur non citandola esplicitamente. «Siamo vicini a ogni sforzo internazionale che ha lo scopo di combattere il terrorismo», ha detto il ministro dalla tribuna dell’Onu, sottolineando peraltro che armare altre formazioni significa alimentare il terrorismo. 
All’aspetto delle risposte internazionali aveva fatto riferimento anche il cardinale Parolin, ricordando che la sfida portata dall’Is minaccia gli Stati, puntando a scioglierli e a sostituirli con un governo mondiale pseudoreligioso. Questa impostazione è respinta con forza da tutte le religioni, a dimostrazione che quello in atto non è uno scontro di civiltà né tantomeno di fede. 
Al tempo stesso è evidente che servano le forze combinate di diverse Nazioni per garantire la difesa di cittadini disarmati e che questo sia un ambito di competenza del Consiglio di sicurezza dell’Onu. L’azione internazionale, infatti, deve dare risposte non solo alle ingiustizie mondiali, ma anche, sulla base di solidi criteri di diritto, a crimini odiosi come genocidio, pulizia etnica e persecuzioni religiose.
La dimensione transfrontaliera del terrorismo è confermata anche dalla sua capacità di attrarre adepti in diverse parti del mondo, compresi i Paesi ricchi. Su questo aspetto, tra gli altri, è intervenuto anche il Governo italiano secondo il quale almeno 48 persone sono partite dall’Italia per combattere con l’Is.
Traduzione (dall'inglese all'italiano)
La minaccia delle nuove forme di terrorismo va affrontata con urgenza in modo multilaterale e nella cornice della legalità internazionale
Signor Presidente,
Nell’estenderle le congratulazioni della Santa Sede per la sua elezione alla presidenza della 69ª Sessione dell’Assemblea Generale, desidero trasmettere i cordiali saluti di Sua Santità Papa Francesco a lei e a tutte le delegazioni partecipanti. Egli vi assicura della sua vicinanza e delle sue preghiere per il lavoro di questa sessione dell’Assemblea Generale, nella speranza che si possa svolgere in un clima di collaborazione produttiva, per la costruzione di mondo più fraterno e unito, individuando modi per risolvere i gravi problemi che oggi affliggono l’intera famiglia umana.
In continuità con i suoi predecessori, di recente Papa Francesco ha ribadito la stima e l’apprezzamento della Santa Sede per le Nazioni Unite quale mezzo indispensabile per costruire un’autentica famiglia di popoli. La Santa Sede apprezza gli sforzi di questa illustre istituzione, «realizzati a favore della pace mondiale e del rispetto della dignità umana, della protezione della persona, specialmente dei più poveri o più deboli, e dello sviluppo economico e sociale armonioso» (Discorso ai Membri del Consiglio dei Capi Esecutivi per il Coordinamento delle Nazioni Unite, 9 maggio 2014). Su questa linea, e in numerose occasioni, Sua Santità ha incoraggiato gli uomini e le donne di buona volontà a mettere le loro capacità efficacemente al servizio di tutti lavorando insieme, in collaborazione con la comunità politica e ogni settore della società civile (cfr. Messaggio al World Economic Forum, 17 gennaio 2014).
Pur ricordando i doni e le capacità della persona umana, Papa Francesco osserva che oggi esiste il pericolo di una diffusa indifferenza. Nella misura in cui questa indifferenza riguarda il campo della politica, colpisce anche i settori economico e sociale, «visto che una parte importante dell’umanità continua ad essere esclusa dai benefici del progresso e, di fatto, relegata a esseri umani di seconda categoria» (Discorso ai Membri del Consiglio dei Capi Esecutivi per il Coordinamento delle Nazioni Unite, 9 maggio 2014). Talvolta tale apatia è sinonimo di irresponsabilità. È questo il caso oggi, quando un’unione di Stati, creata con l’obiettivo fondamentale di salvare le generazioni dall’orrore della guerra che porta dolore indicibile all’umanità (cfr. Preambolo della Carta delle Nazioni Unite, 1), resta passiva dinanzi alle ostilità subite da popolazioni indifese.
Desidero ricordare le parole che Sua Santità ha rivolto al Segretario Generale all’inizio d’agosto: «È con il cuore carico e angosciato che ho seguito i drammatici eventi di questi ultimi giorni nel nord Iraq», pensando alle «lacrime, le sofferenze e le grida accorate di disperazione dei Cristiani e di altre minoranze religiose dell’amata terra dell’Iraq». Nella stessa lettera il Papa ha rinnovato il suo appello urgente alla comunità internazionale «ad intervenire per porre fine alla tragedia umanitaria in corso». Ha inoltre incoraggiato «tutti gli organi competenti delle Nazioni Unite, in particolare quelli responsabili per la sicurezza, la pace, il diritto umanitario e l’assistenza ai rifugiati, a continuare i loro sforzi in conformità con il Preambolo e gli Articoli pertinenti della Carta delle Nazioni Unite» (Lettera del Santo Padre al Segretario Generale dell’O.N.U. circa la situazione nel Nord dell’Iraq, 9 agosto 2014).
Oggi sono costretto a ripetere il sentito appello di Sua Santità e a proporre all’Assemblea Generale, come anche agli altri organi competenti delle Nazioni Unite, che questo organismo approfondisca la sua comprensione del momento difficile e complesso che stiamo vivendo.
Con la drammatica situazione nel nord dell’Iraq e in alcune parti della Siria, constatiamo un fenomeno totalmente nuovo: l’esistenza di un’organizzazione terrorista che minaccia tutti gli Stati promettendo di scioglierli e di sostituirli con un governo mondiale pseudoreligioso. Purtroppo, come il Santo Padre ha detto di recente, anche oggi c’è chi pretende di esercitare il potere forzando le coscienze e togliendo vite, perseguitando e assassinando nel nome di Dio (cfr. «L’Osservatore Romano», 3 maggio 2014). Queste azioni feriscono interi gruppi etnici, popolazioni e culture antiche. Occorre ricordare che questa violenza nasce dal disprezzo di Dio e falsifica la «religione stessa, la quale, invece, mira a riconciliare l’uomo con Dio, a illuminare e purificare le coscienze e a rendere chiaro che ogni uomo è immagine del Creatore» (Benedetto XVI, Discorso ai Membri del Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede, 7 gennaio 2013).
In un mondo di comunicazioni globali, questo nuovo fenomeno ha trovato proseliti in molti luoghi ed è riuscito ad attrarre giovani da tutto il mondo, spesso disillusi da una diffusa indifferenza e dalla mancanza di valori nelle società opulente. Questa sfida, in tutti i suoi aspetti tragici, dovrebbe spingere la comunità internazionale a promuovere una risposta unificata, basata su solidi criteri giuridici e sulla volontà collettiva di cooperare per il bene comune. A tal fine, la Santa Sede ritiene utile concentrare l’attenzione su due ambiti importanti. Il primo è quello di affrontare le origini culturali e politiche delle sfide contemporanee, riconoscendo il bisogno di strategie innovative per far fronte a questi problemi internazionali in cui i fattori culturali svolgono un ruolo fondamentale. Il secondo ambito su cui riflettere è un ulteriore studio dell’adeguatezza del diritto internazionale oggi, vale a dire l’efficacia della sua attuazione da parte dei meccanismi utilizzati dalle Nazioni Unite per prevenire la guerra, fermare gli aggressori, proteggere le popolazioni e aiutare le vittime.
Dopo gli attacchi dell’11 settembre 2001, quando il mondo si risvegliò alla realtà di una nuova forma di terrorismo, alcuni media e centri di pensiero hanno eccessivamente semplificato quel tragico momento interpretando tutte le situazioni susseguenti e problematiche in termini di scontro di civiltà. Tale visione non teneva conto delle antiche e profonde esperienze di buone relazioni tra culture, gruppi etnici e religioni, e interpretava attraverso questa lente altre situazioni complesse quale la questione mediorientale e i conflitti civili attualmente in corso altrove. Similmente, ci sono stati dei tentativi per trovare cosiddetti rimedi legali per contrastare e prevenire la crescita di questa nuova forma di terrorismo. Talvolta sono state preferite soluzioni unilaterali a quelle fondate sul diritto internazionale. Anche i metodi adottati non hanno sempre rispettato l’ordine costituito o le particolari circostanze culturali di popoli che spesso si sono trovati involontariamente al centro di questa nuova forma di conflitto globale. Questi errori, e il fatto che siano stati approvati almeno tacitamente, ci dovrebbero portare a un serio e profondo esame di coscienza. Le sfide che pongono le nuove forme di terrorismo non devono farci soccombere a visioni esagerate e a estrapolazioni culturali. Il riduzionismo dell’interpretare situazioni in termini di uno scontro di culture, giocando sulle paure e i pregiudizi esistenti, porta solo a reazioni di natura xenofoba che, paradossalmente, servono a rafforzare proprio quei sentimenti che stanno al centro del terrorismo stesso. Le sfide che ci si pongono devono spronare a un rinnovato appello al dialogo religioso e interculturale e a nuovi sviluppi nel diritto internazionale, al fine di promuovere iniziative di pace giuste e coraggiose.
Quali sono, dunque, i cammini che possiamo seguire? Prima di tutto, c’è il cammino della promozione del dialogo e della comprensione tra culture, che è già implicitamente contenuto nel Preambolo e nel primo articolo della Carta delle Nazioni Unite. Questo cammino deve diventare un obiettivo sempre più esplicito della comunità internazionale e dei Governi se davvero siamo impegnati per la pace nel mondo. Allo stesso tempo dobbiamo ricordare che non spetta alle organizzazioni internazionali o agli Stati inventare la cultura, né è possibile farlo. Similmente, non compete ai Governi affermarsi come portavoce di culture, né essere gli attori principali responsabili del dialogo culturale e interreligioso. La crescita naturale e l’arricchimento della cultura sono, piuttosto, frutto di tutte le componenti della società civile che lavorano insieme. Le organizzazioni internazionali e gli Stati hanno sì il compito di promuovere e sostenere, in modo decisivo e con i necessari mezzi finanziari, quelle iniziative e quei movimenti che promuovono il dialogo e la comprensione tra culture, religioni e popoli. La pace, dopo tutto, non è il frutto di un equilibrio di poteri, ma piuttosto l’esito della giustizia a ogni livello e, cosa più importante, responsabilità condivisa degli individui, delle istituzioni civili e dei Governi. In effetti, ciò significa comprendersi reciprocamente e apprezzare la cultura e le circostanze dell’altro. Implica anche preoccuparsi gli uni degli altri condividendo i patrimoni spirituali e culturali e offrendo opportunità per l’arricchimento umano.
E tuttavia, non affrontiamo le sfide del terrorismo e della violenza solo con l’apertura culturale. Abbiamo a disposizione anche l’importante via del diritto internazionale. La situazione attuale esige una comprensione più incisiva di questo diritto, prestando particolare attenzione alla «responsabilità di proteggere». Di fatto, una delle caratteristiche del recente fenomeno terrorista è che ignora l’esistenza dello Stato e, di fatto, dell’intero ordine internazionale. Il terrorismo non mira solo a portare cambiamenti ai Governi, a danneggiare le strutture economiche o a commettere semplicemente dei crimini. Cerca di controllare direttamente aree all’interno di uno o più Paesi, di imporre le proprie leggi, che sono distinte e opposte rispetto a quelle dello Stato sovrano. Inoltre mina e rifiuta ogni sistema giuridico esistente, cercando di imporre il dominio sulle coscienze e il controllo completo sulle persone.
La natura globale di questo fenomeno, che non conosce confini, è esattamente la ragione per cui il quadro del diritto internazionale offre l’unica via percorribile per affrontare questa sfida urgente. Questa realtà esige Nazioni Unite rinnovate, che s’impegnino a promuovere e a preservare la pace. Attualmente, i partecipanti attivi e passivi di un tale sistema sono tutti gli Stati, i quali si pongono sotto l’autorità del Consiglio di Sicurezza e si impegnano a non intraprendere atti di guerra senza l’approvazione di questo stesso Consiglio. In tale quadro, l’azione militare svolta da uno Stato in risposta a un altro Stato è possibile solo nel caso di autodifesa quando si è sotto attacco armato diretto, e solo fino a quando il Consiglio di Sicurezza riesce a prendere con successo le misure necessarie per ripristinare la pace e la sicurezza internazionale (cfr. Carta delle Nazioni Unite, art. 51). Le nuove forme di terrorismo compiono azioni militari su vasta scala. Non riescono ad essere contenute da un solo Stato, e intendono esplicitamente dichiarare guerra alla comunità internazionale. In tal senso, abbiamo a che fare con un comportamento criminale non previsto dalla configurazione giuridica della Carta delle Nazioni Unite. Ciononostante, bisogna riconoscere che le norme vigenti per la prevenzione della guerra e l’intervento del Consiglio di Sicurezza sono ugualmente applicabili, su basi diverse, nel caso di una guerra provocata da un “attore non statale”.
È così, in primo luogo, perché l’obiettivo fondamentale della Carta è di evitare la piaga della guerra alle generazioni future. La struttura giuridica del Consiglio di Sicurezza, pur con tutti i suoi limiti e difetti, è stata stabilita proprio per questa ragione. Inoltre, l’articolo 39 della Carta delle Nazioni Unite attribuisce al Consiglio di Sicurezza il compito di determinare le minacce o le aggressioni alla pace internazionale, senza specificare il tipo di attori che compiono queste minacce o aggressioni. Infine, gli Stati stessi, in virtù della loro adesione alle Nazioni Unite, hanno rinunciato a qualsiasi uso della forza che sia incoerente con i fini delle Nazioni Unite (cfr. Carta delle Nazioni Unite, art. 2, 4).
Considerato che le nuove forme di terrorismo sono “transnazionali”, esse non rientrano più nelle competenze delle forze di sicurezza di un solo Stato: riguardano i territori di diversi Stati. Pertanto, saranno necessarie le forze combinate di diverse nazioni per garantire la difesa di cittadini disarmati. Poiché non esiste norma giuridica che giustifichi azioni di polizia unilaterali oltre i propri confini, non c’è alcun dubbio che si tratti di un ambito di competenza del Consiglio di Sicurezza. Ciò perché, senza il consenso e la supervisione dello Stato nel quale viene esercitato l’uso della forza, questa forza si tradurrebbe in una instabilità regionale o internazionale, e pertanto rientrerebbe negli scenari previsti dalla Carta delle Nazioni Unite.
La mia Delegazione desidera ricordare che è sia lecito sia urgente arrestare l’aggressione attraverso l’azione multilaterale e un uso proporzionato della forza. Come soggetto rappresentante una comunità religiosa mondiale che abbraccia diverse nazioni, culture ed etnicità, la Santa Sede spera seriamente che la comunità internazionale si assuma la responsabilità riflettendo sui mezzi migliori per fermare ogni aggressione ed evitare il perpetrarsi di ingiustizie nuove e ancor più gravi. La situazione presente, pertanto, pur essendo di fatto molto seria, è un’occasione perché gli Stati membri dell’Organizzazione delle Nazioni Unite onorino lo spirito stesso della Carta delle Nazioni Unite parlando apertamente dei tragici conflitti che stanno lacerando interi popoli e nazioni. È deludente che finora la comunità internazionale sia stata caratterizzata da voci contraddittorie e perfino dal silenzio riguardo ai conflitti in Siria, in Medio Oriente e in Ucraina. È importantissimo che ci sia unità d’azione per il bene comune, evitando il fuoco incrociato di veti. Come Sua Santità ha scritto lo scorso 9 agosto al Segretario Generale, «la più elementare comprensione della dignità umana, costringe la comunità internazionale, in particolare attraverso le norme ed i meccanismi del diritto internazionale, a fare tutto ciò che le è possibile per fermare e prevenire ulteriori violenze sistematiche contro le minoranze etniche e religiose».
Pur essendo il concetto di «responsabilità di proteggere» implicito nei principi costituzionali della Carta delle Nazioni Unite e del Diritto Umanitario, non favorisce in modo specifico il ricorso alle armi. Piuttosto, afferma la responsabilità dell’intera comunità internazionale, in spirito di solidarietà, di combattere crimini odiosi come il genocidio, la pulizia etnica e la persecuzione per motivi religiosi. Qui con voi, oggi, non posso non menzionare i molti cristiani e le minoranze etniche che negli ultimi mesi hanno subito persecuzioni e sofferenze atroci in Iraq e in Siria. Il loro sangue esige da tutti noi un fermo impegno a rispettare e a promuovere la dignità di ogni singola persona in quanto voluta e creata da Dio. Ciò significa anche rispetto della libertà religiosa, che la Santa Sede considera un diritto fondamentale, poiché nessuno può essere costretto «ad agire contro la sua coscienza» e ognuno «ha il dovere e quindi il diritto di cercare la verità in materia religiosa» (Concilio Vaticano II, Dignitatis humanae, n. 3).
In sintesi, la promozione di una cultura di pace esige sforzi rinnovati a favore del dialogo, dell’apprezzamento culturale e della cooperazione, nel rispetto della varietà delle sensibilità. Quel che occorre è un approccio politico lungimirante che non imponga rigidamente modelli politici a priori che sottovalutano le sensibilità dei singoli popoli. Infine deve esserci una disponibilità autentica ad applicare scrupolosamente gli attuali meccanismi del diritto, restando allo stesso tempo aperti alle implicazioni di questo momento cruciale. Ciò assicurerà un approccio multilaterale che servirà meglio la dignità umana e proteggerà e promuoverà lo sviluppo umano integrale in tutto il mondo. Questa disponibilità, laddove viene espressa in modo concreto attraverso nuove formulazioni giuridiche, certamente porterà una rinnovata vitalità alle Nazioni Unite. Aiuterà anche a risolvere conflitti gravi, siano essi in atto o latenti, che ancora colpiscono alcune parti dell’Europa, dell’Africa e dell’Asia, e la cui risoluzione definitiva richiede l’impegno di tutti.
Signor Presidente,
Con la Risoluzione A/68/6 della 68ª Sessione dell’Assemblea Generale è stato deciso che la presente Sessione avrebbe discusso l’Agenda di sviluppo post-2015, perché fosse poi formalmente adottata durante la 70ª Sessione a settembre 2015. Lei stesso, Signor Presidente, ha opportunamente scelto il tema della presente Sessione: Delivering and Implementing a Transformative Post-2015 Development Agenda.
Durante il suo recente incontro con tutti i capi esecutivi delle agenzie, dei fondi e dei programmi delle Nazioni Unite (cfr. Discorso ai Membri del Consiglio dei Capi Esecutivi per il Coordinamento delle Nazioni Unite, 9 maggio 2014), Sua Santità ha chiesto che i futuri obiettivi per uno sviluppo sostenibile fossero formulati «con generosità e coraggio, affinché arrivino effettivamente a incidere sulle cause strutturali della povertà e della fame, a conseguire ulteriori risultati sostanziali a favore della preservazione dell’ambiente, a garantire un lavoro decente per tutti e a dare una protezione adeguata alla famiglia, elemento essenziale di qualsiasi sviluppo economico e sociale sostenibile. Si tratta, in particolare, di sfidare tutte le forme di ingiustizia, opponendosi alla “economia dell’esclusione”, alla “cultura dello scarto” e alla “cultura della morte”». Papa Francesco ha incoraggiato i capi esecutivi a promuovere «una vera mobilitazione etica mondiale che, al di là di ogni differenza di credo o di opinione politica, diffonda e applichi un ideale comune di fraternità e di solidarietà, specialmente verso i più poveri e gli esclusi» (ibid.).
A tale riguardo, la Santa Sede apprezza i diciassette «Obiettivi di Sviluppo Sostenibile» proposti dal gruppo di lavoro (Gruppo aperto di lavoro sugli obiettivi di sviluppo sostenibile), che cercano di affrontare le cause strutturali della povertà promovendo un lavoro dignitoso per tutti. Allo stesso modo, la Santa Sede apprezza che la maggior parte degli obiettivi e dei mezzi non rifletta i timori delle popolazioni ricche riguardo alla crescita demografica nei Paesi più poveri. Apprezza anche il fatto che gli obiettivi e i mezzi non impongano agli Stati più poveri stili di vita che di solito sono associati alle economie avanzate e che tendono a mostrare disprezzo per la dignità umana. Inoltre, per quanto riguarda l’Agenda di sviluppo post-2015, l’incorporazione dei risultati del Gruppo aperto di lavoro sugli obiettivi di sviluppo sostenibile, insieme con le indicazioni date dal Rapporto del comitato intergovernativo di esperti sul finanziamento dello sviluppo sostenibile e quelle che emergono dalle consultazioni tra le agenzie, appare indispensabile per la realizzazione degli Obiettivi di sviluppo sostenibile e dell’Agenda di sviluppo post-2015.
Tuttavia, e malgrado gli sforzi delle Nazioni Unite e di tante persone di buona volontà, il numero dei poveri e degli esclusi sta crescendo non soltanto nei Paesi in via di sviluppo, ma anche in quelli sviluppati. La «responsabilità di proteggere», come affermato prima, si riferisce alle aggressioni estreme contro i diritti umani, ai casi di grave spregio del diritto umanitario o alle catastrofi naturali gravi. In modo analogo, c’è l’esigenza di prendere provvedimenti giuridici per proteggere le persone da altre forme di aggressione, che sono meno evidenti ma altrettanto gravi e reali. Per esempio, un sistema finanziario governato solo dalla speculazione e dalla massimizzazione dei profitti, o in cui le singole persone sono considerate come oggetti usa e getta in una cultura dello spreco, potrebbe equivalere, in alcune circostanze, a una offesa contro la dignità umana. Ne consegue, pertanto, che le Nazioni Unite e i suoi Stati membri hanno un’urgente e grave responsabilità verso i poveri e gli esclusi, ricordando sempre che la giustizia sociale ed economica è una condizione essenziale per la pace.
Signor Presidente,
Ogni giorno della 69ª Sessione dell’Assemblea Generale, e di fatto anche delle prossime quattro Sessioni, fino a novembre 2018, recherà con sé il triste e doloroso ricordo della futile e disumana tragedia della prima guerra mondiale (una inutile strage, come l’ha definita Papa Benedetto XV), con i suoi milioni di vittime e l’indicibile distruzione. Ricordando il centenario dell’inizio del conflitto, Sua Santità Papa Francesco ha formulato l’auspicio che «non si ripetano gli sbagli del passato, ma si tengano presenti le lezioni della storia, facendo sempre prevalere le ragioni della pace mediante un dialogo paziente e coraggioso» (Angelus, 27 luglio 2014). In quell’occasione, il pensiero di Sua Santità si è concentrato in modo particolare su tre aree di crisi: il Medio Oriente, l’Iraq, l’Ucraina. Ha esortato tutti i cristiani e le persone di fede a pregare il Signore perché «conceda alle popolazioni e alle Autorità di quelle zone la saggezza e la forza necessarie per portare avanti con determinazione il cammino della pace, affrontando ogni diatriba con la tenacia del dialogo e del negoziato e con la forza della riconciliazione. Al centro di ogni decisione non si pongano gli interessi particolari, ma il bene comune e il rispetto di ogni persona. Ricordiamo che tutto si perde con la guerra e nulla si perde con la pace» (ibid.).
Signor Presidente,
Facendo miei i sentimenti del Santo Padre, spero fervidamente che possano essere condivisi da tutti i presenti. Porgo a tutti voi i miei migliori auguri per il vostro lavoro, fiducioso che questa Sessione non lesinerà sforzi per porre fine al fragore delle armi che caratterizza i conflitti in corso e che continuerà a promuovere lo sviluppo dell’intera razza umana, e in particolare dei più poveri tra noi.
Grazie, Signor Presidente.
L'Osservatore Romano

Santa Teresa del Bambino Gesù a Roma..




È custodito in una chiesa a lei dedicata il velo che la celebre santa francese indossò quando, in udienza da Leone XIII, chiese al Pontefice di intervenire in suo favore per entrare in monastero prima dell'età prevista

di F. Cenci

Tra i tanti fedeli francesi che nell’autunno 1887 prendono parte a un pellegrinaggio per i cinquant’anni di sacerdozio di papa Leone XIII, c’è una quattordicenne dagli occhi vispi che celano idee chiare sulla sua vocazione. Si tratta di Teresa Martin, originaria del paese normanno di Alençon e appartenente a una famiglia numerosa radicata su solidi principi cattolici.

È proprio insieme ai suoi familiari che la giovane Teresa si unisce a questo copioso drappello guidato dal vescovo di Coutances e desideroso di recarsi a Roma e ricevere la benedizione del Santo Padre. L’appuntamento per gli oltre duecento partecipanti provenienti da ogni angolo di Francia è a Parigi, dove la famiglia Martin si reca con un giorno d’anticipo per visitare la capitale.
La chiesa di Nostra Signora delle Vittorie, dove la famiglia decide di partecipare a una Messa, rappresenta per Teresa l’ultima tappa di un suo personale viaggio spirituale che precede e dà impulso al viaggio fisico che di lì a poco la condurrà verso la Città Santa. La giovane si ferma dinanzi alla statua di Maria e le affida il pellegrinaggio e la sua vocazione, conservando in cuor suo i momenti di raccoglimento ai piedi di quella stessa Vergine che quattro anni prima - come racconterà Teresa nelle sue meditazioni - l’aveva guarita da una grave malattia.
Il treno speciale che parte da Parigi attraversa la Francia, passa per la Svizzera e scende lungo lo stivale italiano regalando allo sguardo curioso di Teresa scenari meravigliosi. Scriverà nel suo celebre diario Storia di un’anima: “Mi dicevo: più tardi, nell'ora della prova, quando prigioniera al Carmelo non potrò contemplare che una piccola porzione di cielo, mi ricorderò di ciò che sto vedendo oggi”.
Teresa sa già che il suo destino è intrecciato al Carmelo di Lisieux, laddove anni prima è già entrata la sua amata sorella Pauline. Ma in Teresa arde la volontà affinché questo destino si compia al più presto, persino prematuramente rispetto all’età consentita per potersi fare suora. È proprio per questo che si sta recando a Roma: con un’ingenua baldanza tipicamente giovanile ella è convinta di poter avvicinare il Papa e chiedere personalmente al Vicario di Cristo in terra di intervenire in suo favore per consentirle di entrare in monastero con anticipo rispetto ai tempi canonici.
Visitare Roma dopo aver fatto tappa in altre città italiane gravide di testimonianza e bellezza cristiana come Milano, Venezia, Padova, Bologna e Loreto rappresenta però per Teresa anche altro. “Ah, che viaggio! Mi ha istruita di più da solo, che non i lunghi anni di studio”, confiderà Teresa anni dopo. E aggiungerà inoltre: “Ho visto delle cose bellissime, ho contemplato le meraviglie dell’arte e della religione, soprattutto ho camminato sulla terra stessa degli apostoli, la terra pervasa dal sangue dei martiri, e l’anima mia si è dilatata a contatto con le cose sante”.
Il 20 novembre 1887, domenica, il folto gruppo di pellegrini francesi si reca a San Pietro, ricevuto in udienza da Leone XIII. L’audacia di Teresa è premiata: nonostante il divieto di parlare in presenza del Pontefice imposto dal vescovo che accompagna i fedeli, la giovane con uno scatto si inginocchia davanti al Papa e lo implora di concederle l’ingresso in monastero. Leone XIII la ascolta attentamente e le risponde che se la sua entrata in monastero è scritta nella volontà di Dio, questo desiderio si adempirà. Dopo di che, Teresa viene braccata da due guardie pontificie e allontanata.
Epilogo che può far pensare a un fiasco, se non fosse che di lì a poco succede qualcosa. Sulla via del ritorno - costellata di soste altrettanto meravigliose di quelle dell’andata come Napoli, Pompei, Assisi, Firenze, Pisa e Genova - il vescovo della sua diocesi cambia opinione e concede l’agognato permesso a Teresa. Le sagge parole del Papa trovano così compimento il 9 aprile 1888, quando la giovane di Alençon, poco più che quindicenne, entra in monastero assumendo il nome di Teresa del Bambino Gesù, aggiungendovi in seguito “del Volto Santo”.
Saggezza, quella di Leone XIII, che troverà riscontro nella “via di infanzia spirituale” che farà di Teresa del Bambino Gesù “la più grande santa dei tempi moderni”, per usare una definizione che le assegna Pio X, successore di Leone XIII, prima ancora che ella venga beatificata. A farlo sarà Pio XI nel 1923, lo stesso Papa che due anni più tardi la canonizzerà. Il 19 ottobre 1997 verrà riconosciuta da Giovanni Paolo II Dottore della Chiesa, la terza donna dopo Teresa d’Avila e Caterina da Siena a ricevere questo titolo.
Il culto di Santa Teresina, co-patrona di Francia insieme a Giovanna d’Arco e patrona dei missionari, è oggi assai popolare e diffuso in tutto il mondo. Le radici della sua vita religiosa affondano a Roma, e proprio a Roma c’è ancora oggi una traccia fisica di quel provvidenziale pellegrinaggio che la Santa fece nel 1887. Si trova nella chiesa a lei dedicata, Santa Teresa di Gesù Bambino in Panfilo, situata nel signorile quartiere Pinciano. È il velo indossato durante l’udienza da Leone XIII, un velo nero con merletti a punto, lavorazione tipica di  Alençon. Donata ai confratelli carmelitani scalzi di Santa Teresa a cui la chiesa è affidata, la reliquia è custodita all’interno di una teca in vetro che si può ammirare in una cappella alla sinistra dell’abside.
Domani, 1° ottobre, ricorre la memoria liturgica della celebre santa normanna. Questa piccola chiesa, la quale non è più parrocchia dal 2011, tornerà come ogni anno a gremirsi di devoti a Santa Teresina. In tanti si alterneranno in ginocchio dinanzi alla preziosa reliquia, un modo per manifestare la loro devozione. Un modo condiviso dalla stessa Teresa, la quale racconta in Storia di un’anima dello stupore provato, nella chiesa di Santa Croce in Gerusalemme, dinanzi al frammento della Croce e dell’audacia che ebbe quando insinuò il suo mignolo per toccare “il chiodo che fu bagnato dal sangue di Gesù”.

Il vangelo pansessualista




La teologia desiderante di Kasper sopprime l’amore cristiano, punto.

Roma. “Il vangelo della famiglia esiste ed è luce per la Chiesa e per gli uomini. Dinanzi all’insistenza di Papa Francesco di vegliare alla gerarchia delle verità nella trasmissione del messaggio, possiamo affermare che la verità della famiglia appartiene a questo nucleo”. A scriverlo nel libro “Il vangelo della famiglia nel dibattito sinodale - Oltre la proposta del cardinal Kasper” (edito da Cantagalli, sarà in libreria dal 1° ottobre) sono due docenti al Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per Studi su matrimonio e famiglia, l’ordinario di Antropologia filosofica Stephan Kampowski e l’ordinario di Teologia pastorale del matrimonio e della famiglia, Juan José Pérez-Soba. La prefazione al volume è del cardinale George Pell. “Prendiamo come riferimento per la questione il libro del cardinal Kasper, ‘Il vangelo della famiglia’, che contiene sì importanti riflessioni, ma a nostro parere anche significative imprecisioni. Il nostro contributo deve poter sviluppare gli elementi positivi, contribuire a chiarire quelli ambigui, esprimere le ragioni per cui alcune affermazioni ci sembrano erronee, ma soprattutto, andare oltre il libro”, aggiungono.

“Andare oltre Kasper – spiegano gli autori – significa invitare a compiere il passo che egli non ha compiuto, ovvero passare da una descrizione della bellezza del vangelo della famiglia alla sua capacità trasformatrice della pastorale della Chiesa, del soggetto morale e della cultura circostante”. Tanti i temi toccati, “in una prospettiva di una logica d’amore che deve pervadere le azioni della chiesa”: la sfida culturale come chiave fondamentale per comprendere il ruolo della famiglia nella chiesa-mondo, la centralità della famiglia nell’annuncio cristiano, la descrizione (testi patristici alla mano) di come la chiesa primitiva viveva la questione. Infine, Kampowski e Pérez-Soba delineano un’ipotesi di pastorale adeguata alle sfide della contemporaneità. Dal libro, pubblichiamo il saggio “E’ pensabile l’astinenza? La Familiaris consortio e la Sacramentum caritatis sui divorziati risposati civilmente”.

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ARTICOLI CORRELATI Anche se tutti, noi noDobbiamo far notare uno degli aspetti più curiosi del discorso del Cardinal Kasper al Concistoro. Nella quinta parte, che affronta la questione dell’ammissione alla comunione dei divorziati risposati civilmente, egli sostiene che sia San Giovanni Paolo II, sia Benedetto XVI hanno accennato, rispettivamente in Familiaris consortio e in Sacramentum caritatis, a possibili soluzioni al problema, e ne elenca due: l’alta incidenza di matrimoni non validi e la possibilità di una comunione spirituale. Perché non semplificare le procedure di annullamento, suggerisce Kasper, così che ai divorziati risposati civilmente e convinti che il loro primo matrimonio non fosse valido, sia più facile regolarizzare la propria situazione sotto il profilo del diritto canonico? Per giunta, se i divorziati risposati civilmente possono ricevere una comunione spirituale “extrasacramentale”, perché non quella sacramentale? Non sarebbe pensabile un’evoluzione della dottrina in direzione della tolleranza verso il loro stile di vita?

Tuttavia, nella discussione che ci occupa in queste pagine ci concentreremo piuttosto su ciò che egli non dice. Parleremo cioè di un silenzio carico di significato. Il fatto è che, per qualche ragione, qui il Cardinale non ci restituisce il quadro completo dello stato del dibattito prima di presentare le sue proposte di nuove soluzioni. Cita Familiaris consortio n. 84 e Sacramentum caritatis n. 29 per porre l’accento sul tono nuovo e più misericordioso che la Chiesa ha saputo trovare per parlare dei divorziati risposati, e per suggerire che in quei documenti “vengono già accennate delle soluzioni” quali l’annullamento e la comunione spirituale. Tuttavia la prassi cui entrambi i passi non si limitano ad “accennare”, ma che propongono esplicitamente, è quella che il Cardinale non si disturba neanche a menzionare. Essa ha due elementi. Il primo riguarda il generale “obbligo della separazione”. Nei paragrafi di cui stiamo parlando, tuttavia, entrambi i documenti riconoscono che possono esservi casi in cui è impossibile ottemperare a questo obbligo senza violare impegni seri già assunti, in particolare quelli nei confronti dei figli nati dalla seconda unione. In questo caso la prassi invocata da entrambi i documenti si ferma prima della separazione.

Quanto poi all’obbligo generale di abbandonare un’unione solo civile, è degno di nota il fatto che il Cardinal Kasper non si limita semplicemente a non farvi cenno, ma anzi proponga l’esatto opposto, e cioè dica che può rendersi necessario contrarre un’unione civile, che talvolta sarà percepita “come dono dal cielo”: “Ma molti coniugi abbandonati dipendono, per il bene dei figli, da un nuovo rapporto e da un matrimonio civile, al quale non possono rinunciare senza nuove colpe”. E’ vero che, al n. 84, la Familiaris consortio riconosce che alcuni divorziati “hanno contratto una seconda unione in vista dell’educazione dei figli”. Ma il documento chiarisce che neanche questa motivazione, umanamente comprensibile, giustifica la violazione dei propri voti nuziali.

Per giunta non è soltanto, ci sembra, un argomento da classica fiaba, ma è un fatto statisticamente osservabile che il rapporto fra patrigno/matrigna e figliastri/figliastre è spesso tutt’altro che armonioso. Vi è una chiara evidenza che i figliastri/figliastre cor-rono maggiori rischi di subire abusi rispetto ad altri bambini. In altre parole, non è certo che per i figli di un coniuge ingiustamente abbandonato sia meglio crescere con un/a patrigno/matrigna piuttosto che con un solo genitore; o almeno, non è evidente quanto il Cardinale sembra ritenere. Comunque sia, l’idea che un coniuge abbandonato possa avere la necessità morale di contrarre una nuova unione – una unione tale da poterla considerare un dono dal cielo – è davvero una novità che ribalta letteralmente tutti i precedenti insegnamenti del magistero. Ma prendiamo ora il caso dei divorziati risposati civilmente che effettivamente condividono un serio impegno comune che ne rende moralmente impossibile la separazione: impegno come quello nei confronti dei figli nati da quell’unione. Anche qui, il n. 84 di Familiaris consortio e il n. 29 di Sacramentum caritatis sono espliciti. Entrambi i documenti affermano chiaramente che queste persone non si trovano fra Scilla e Cariddi, cioè in una condizione in cui devono necessariamente commettere peccato. Vi è infatti una via d’uscita perfettamente praticabile. Come leggiamo al n. 84 di Familiaris consortio, la riconciliazione nel sacramento della penitenza – che aprirebbe la strada al sacramento eucaristico – può essere accordata solo a quelli che, pentiti di aver violato il segno dell’Alleanza e della fedeltà a Cristo, sono sinceramente disposti ad una forma di vita non più in contraddizione con l’indissolubilità del matrimonio.

Ciò comporta, in concreto, che quando l’uomo e la donna, per seri motivi – quali, ad esempio, l’educazione dei figli – non possono soddisfare l’obbligo della separazione, “assumono l’impegno di vivere in piena continenza, cioè di astenersi dagli atti propri dei coniugi”(…). A nostro modo di vedere, è della massima importanza sottolineare che già oggi la prassi della Chiesa indica una condizione in cui le coppie conviventi di divorziati risposati civilmente possono accostarsi all’Eucaristia. I divorziati risposati civilmente possono infatti ricevere l’Eucaristia (e gli altri sacramenti) anche se vivono sotto lo stesso tetto, purché rinuncino a condividere lo stesso letto. Vien da domandarsi perché il Cardinal Kasper non faccia menzione di questa soluzione. Essa è proposta in documenti e passi di documenti che egli stesso cita: pertanto è improbabile che non ne sia a conoscenza. Forse che questa soluzione per lui è fuori questione, al punto che non ritiene valga nemmeno la pena menzionarla? Ma è proprio fuori questione? San Giovanni Paolo II e Benedetto XVI non ci presentano forse una visione altamente positiva, in cui la persona umana è considerata capace di autocontrollo e di dominio di sé, capace di integrare la propria sessualità nella sfera della responsabilità personale, e in quanto tale capace anche di astenersi dai rapporti sessuali, in particolare quando riceve la grazia dello Spirito Santo, la Legge Nuova, come nuovo principio di azione?

“La verità convince per mezzo della sua bellezza”. Ma se davvero la verità è bella, ciò non significa anche che la bellezza è un principio euristico di verità così come la bruttezza è indizio di falsità? La posizione più bella non è forse dire che la sessualità umana è un ambito in cui il comportamento responsabile è possibile, un ambito che non ricade fuori dalla sfera dell’autocontrollo e del dominio di sé, un contesto in cui l’amore può essere espresso in modo autentico? Non è forse molto meno bella – per non dire brutta – la posizione sostenuta dalla nostra cultura pansessualista, secondo cui l’astinenza non è possibile, e in effetti l’unica differenza rilevante fra il modo in cui gli esseri umani e gli animali irrazionali vivono i loro impulsi sessuali sta nel fatto che i primi sanno servirsi di un preservativo? (…). La morale che viene proposta è la seguente: tutto è accettabile, dentro e fuori dal matrimonio, fra persone dello stesso sesso o di sesso opposto, che fanno uso di qualsiasi orifizio del corpo. Fra adulti consenzienti, l’unico comandamento è: “Usate un preservativo”. Non è forse una visione altamente pessimistica della persona umana e della sua sessualità? Sembra proprio che la fedeltà coniugale non sia affatto considerata una possibile via per arrestare la diffusione delle malattie veneree. E a quanto pare le persone non hanno modo di padroneggiare i propri comportamenti sessuali. L’astinenza prematrimoniale come modo di evitare le gravidanze in età adolescenziale? Anche questo dovrebbe apparire completamente assurdo in una società che glorifica il preservativo come riscatto della sessualità umana. In questo contesto, per l’annuncio del vangelo della famiglia da parte della Chiesa che cosa mai potrebbe essere più fatale che dare anche solo lontanamente l’impressione che la Chiesa stessa non crede che la sessualità umana sia una sfera governata dalle esigenze dell’amore, che essa stessa non crede che se l’amore esige l’astinenza, questa sarà possibile?

Ecco dunque la più grande delle sfide pastorali sulla famiglia nel contesto dell’evangelizzazione: come annunciare il vangelo della famiglia in una cultura pansessualista? Si tratta di una cultura che ha fatto sue le premesse fondamentali della rivoluzione sessuale così come proposta, ad esempio, da Wilhelm Reich: l’energia vitale è energia sessuale; il sesso serve alla ricreazione e non alla procreazione; l’astinenza sessuale è impossibile tanto quanto quella dal cibo e dalla bevanda: le persone hanno bisogno di sesso così come hanno bisogno di pane e d’acqua. Non stupisce, allora, che le persone negozino i rapporti sessuali esattamente come negoziano tutte le altre cose necessarie per vivere, cioè acquistino e vendano sesso come fosse una merce. La Chiesa ha sempre contrastato queste premesse, proclamando che il sesso è per l’amore coniugale: un amore che è umano, totale, esclusivo, duraturo e fecondo. Naturalmente, agli occhi di molti nostri contemporanei la Chiesa insegna semplicemente che il sesso serve alla procreazione. Ora, è senz’altro vero che per la Chiesa, sesso e figli vanno pensati insieme: ma vi è di più. Secondo la Chiesa, infatti, anche l’uomo che va da una prostituta con l’esplicito intento di metterla incinta commette peccato. Ciò che la Chiesa insegna e ha sempre insegnato è che l’unico contesto appropriato per l’esercizio della sessualità umana è quello dell’amore coniugale. Così, la tesi della Humanae vitae è che il requisito dell’amore coniugale è di essere aperto alla procreazione di nuove vite umane in ogni e qualsiasi atto coniugale. In altre parole, un incontro sessuale in cui i coniugi si rendano deliberatamente sterili non si può definire un atto di amore coniugale e per questo è peccaminoso. Il sesso è per l’amore coniugale. Al di fuori del contesto di tale amore non raggiunge la sua verità né la sua bellezza. Il sesso può essere per l’amore soltanto se siamo liberi nel suo esercizio, cioè se siamo liberi di astenerci periodicamente o anche permanentemente, considerato che vi saranno sempre delle circostanze – l’assenza temporanea di uno dei coniugi per un viaggio di lavoro, una malattia dell’uno o dell’altro, una prole già numerosa – nelle quali l’astinenza diviene il requisito dell’amore. Astenersi potrà anche essere difficile e impegnativo; potremo cadere ed essere chiamati a rialzarci, ma in via di principio, astenersi è possibile.

Se noi, come figli della Chiesa, non crediamo che sia umanamente possibile, medicalmente sano o socialmente consigliabile limitare l’esercizio della sessualità umana agli atti coniugali, cioè atti liberamente scelti di intimità sessuale compiuti da un uomo e una donna che in pubblico si sono promessi fedeltà ed esclusività sessuale per tutta la vita e che si mantengono aperti alla procreazione di nuova vita, dovremo allora smettere di parlare di questioni attinenti alla sessualità umana, alla famiglia, alla vita umana e alla dignità umana. Praticamente tutto ciò che la Chiesa dice su questi temi sta in piedi o cade insieme a questo fondamentale insegnamento sul ruolo appropriato della sessualità umana. La Chiesa afferma infatti che pertiene alla dignità della persona umana essere concepita in un atto di amore coniugale, essere l’incarnazione dell’amore fra marito e moglie e non il prodotto della volontà di potenza e di dominio di qualcuno. Se è impossibile limitare l’esercizio della sessualità umana ad atti compiuti entro l’unione coniugale, allora non si potrà mai dire che un figlio ha diritto di nascere da una tale unione. Non si farebbe ingiustizia alcuna a un bambino nato da una madre che non ricorda neanche come si chiama il padre, né si farebbe ingiustizia alcuna a un figlio nato dal potere della tecnologia, fabbricato come prodotto di una volontà dominatrice. Se l’origine della vita umana non è un dono, perché non disfarsene quando non serve più? Se io non ho ricevuto me stesso in dono, ma sono stato forzato a venire alla vita dalla volontà manipolatrice del mio o dei miei genitori, perché mai non dovrei porre fine alla mia vita quando mi pare? E perché mai una società non dovrebbe porre fine alla vita dei suoi cittadini quando lo ritiene opportuno?
Il Foglio