giovedì 25 settembre 2014

Allo Spirito Santo i diritti d’autore




Intervista con il cardinale Roger Etchegaray. 

(Mario Ponzi) «Un cristiano si sente a disagio nella sua Chiesa se la indossa come un prêt-à-porter. Io ho amato e amo la Chiesa con il realismo della fede; anche con umorismo, soprattutto in tempi di crisi». A parlare è il cardinale Roger Etchegaray, vicedecano del collegio cardinalizio, che proprio oggi, 25 settembre, compie 92 anni. Ed è la gioia cristiana che illumina il volto sempre sorridente dell’anziano porporato francese. Un volto dagli occhi profondi sui quali, mentre le parole liberano i ricordi, si riflettono luci e ombre di una pagina fittissima di storia della Chiesa e del mondo. Il cardinale è una figura avvincente che della Chiesa cattolica ha conosciuto progressi, crisi, personaggi, segreti. Lui stesso ha svolto in diverse occasioni un ruolo importante. 
Esperto al concilio Vaticano II, presidente del Consiglio delle conferenze episcopali d’Europa, arcivescovo di Marsiglia e cardinale dal 1979, per oltre un ventennio è stato uno dei principali collaboratori di Giovanni Paolo II e suo inviato speciale per le missioni più segrete e delicate. Già la porta del suo appartamento ne svela l’indole. Sul campanello, oltre a nome e cognome, si legge una frase che esalta l’amicizia. Non ci sono stemmi né insegne. Lucidissimo, affascinante nel suo italiano «molto francese, nonostante la lunga permanenza a Roma» come confessa lui stesso, stupisce per la nitidezza dei ricordi, per la fluidità del discorrere, ricco di aneddoti perfettamente inseriti nella trama del racconto.
Eminenza, come si disegna una vita così ricca come la sua?
Bella domanda, ma bisognerebbe rivolgerla all’artista che l’ha tracciata. Le mie radici — della terra e del cielo — sono a Espelette, un piccolo villaggio dei Pirenei Atlantici dove nacqui il 25 settembre 1922 e fui battezzato alcuni giorni dopo con i nomi di Roger, Maria, Elia. Ho lasciato Espelette a dodici anni per gli studi secondari. Poi da sacerdote vi sono tornato ogni anno, almeno per una settimana.
E quali ricordi conserva di quegli anni?
Sono tanti, perché sono molto legato alla mia patria. Spesso dico che sulla suola delle mie scarpe, per tutta la vita e ovunque nel mondo, è sempre rimasta qualche zolla della mia terra natale. Non ho mai dimenticato gli anni trascorsi fra il ticchettio degli orologi, il rumore sordo della forgia, il martellare sull’incudine, lo stridore delle fresatrici, il baccano della segheria dei tronchi d’albero. E porto ancora nella carne la bruciatura della tenerezza di mia mamma. Devo in gran parte a lei, ma per la verità a tutta la famiglia il desiderio di farmi prete. Una vocazione nata il giorno della prima comunione. Avevo sette anni. Niente di meno miracoloso, niente di più vago: volevo semplicemente diventare come il sacerdote che quel giorno mi dette il corpo di Cristo. Ero incapace di precisare questa sorta di chiamata interiore ed è stata una scoperta passo dopo passo. Ma proprio la mamma e la mia famiglia sono state il mio primo seminario. E questa — dice indicando la sua croce pettorale — è il frutto di quella tenera bruciatura.
Delle stagioni vissute al servizio della Chiesa quale ha più inciso? 
Cominciamo dal concilio Vaticano II. Ricordo come se fosse ieri quel giovedì 11 ottobre 1962. Rimasi estasiato dalla sfilata della moltitudine di vescovi mitrati che precedeva il Papa sulla sedia gestatoria. Provai una grande emozione nel vedere tutti quei padri uscire dal Portone di Bronzo, attraversare piazza San Pietro, e salire cantando verso la basilica. Era piovuto per due giorni interi, ma quella mattina il cielo lasciò filtrare il sole. Ebbi netta la sensazione che stava per iniziare una nuova stagione nella vita della Chiesa.
Poi giunse anche per lei una nuova stagione, a Marsiglia.
Eh sì, era proprio una primavera, quella del 1969, il mese di maggio. Fui ordinato vescovo e inviato a Marsiglia, una città che non conoscevo molto bene. Ho cercato di condividere il più possibile la vita del popolo marsigliese, di aprirlo alla missione della Chiesa universale. Marsiglia è stata per me una buona scuola, soprattutto per gli incontri con esponenti di altre religioni: ci siamo incontrati più che scontrati. La città era abituata a vedere sbarcare il mondo intero sui suoi moli millenari. Ma sapeva essere moderata con passione, pudica con esuberanza. Questo mi ha aiutato molto ad affrontare due fenomeni diversi ma convergenti: gli anni immediati dopo il concilio e dopo il Sessantotto. Oggi si parla molto di dialogo tra le religioni ed è una fortuna. Ma i loro punti estremi devono essere forgiati al fuoco di una fede vissuta da ciascuno come l’irradiamento di una forza tranquilla e tutta interiore. La missione di un cristiano che crede nel Cristo salvatore deve essere pressante ed esigente ma senza sincretismo o proselitismo. Come dice e testimonia Papa Francesco.
Una tensione, quella ecumenica e interreligiosa, che ha portato con sé a Roma. 
Era un giorno di marzo del 1984, quando il nunzio apostolico a Parigi mi telefonò per informarmi che Giovanni Paolo II desiderava chiamarmi a Roma per collaborare più da vicino con lui, e intendeva affidarmi due organismi della Santa Sede: Iustitia et pax e Cor unum. Da subito la nostra preoccupazione per la dimensione ecumenica fu una costante. Ricordo numerosi andirivieni fra Roma e Ginevra al Consiglio ecumenico delle Chiese, così come a Canterbury, Mosca, o sulle rive del Bosforo.
Fu questo l’inizio delle sue missioni “impossibili”, come a Cuba, in Iraq, Rwanda, Cina.
Non conosco missioni impossibili, poiché non esistono! Con Dio tutto è possibile, rivela l’angelo Gabriele a Maria. E poi non mi piace che ci si fermi alle missioni più mediatiche. Tra i casi da lei citati, ricorderei comunque la Cina e il Rwanda. La Cina, con la sua storia scandita da incontri mancati con la Chiesa cattolica. Giovanni Paolo II, come in un cerchio d’amore, non ha smesso di girarci intorno e Papa Francesco è stato il primo a poterla sorvolare durante il viaggio in Corea. Sulle orme di Matteo Ricci, la porta dell’amicizia rimane aperta per il bene del popolo cinese e per l’umanità intera.
E il Rwanda?
Il Rwanda è senza alcun dubbio la vicenda umanitaria più tragica della nostra epoca, quella dove mi sono avvicinato alle peggiori follie in un Paese largamente cristiano. L’ho visto in pieno e brutale genocidio; in appena cento giorni, tra l’aprile e il giugno del 1994, ottocentomila sono state le vittime dei massacri tra due etnie, con l’una che cercava di annientare l’altra. Vedo ancora la sala crivellata di proiettili, nella quale pochi giorni prima erano stati uccisi tre vescovi su nove. Ho presieduto la prima delle messe esequiali, davanti a tre cumuli di pietre sormontati da una croce, nella cattedrale deserta di Kabgayi. I presenti erano diciassette, poiché l’intero settore era stato evacuato dalla sicurezza militare. Vi sono tornato più volte, per dovere ma anche per compassione. Non si può amare qualcuno senza aiutarlo sino in fondo e non si può aiutarlo senza amarlo sino in fondo. Vent’anni dopo, il cammino della riconciliazione è ancora un calvario pieno di ferite aperte, tanto più che la comunità delle vittime deve vivere con la comunità dei carnefici. C’è un’immagine che non vuole abbandonarmi: quella di un uomo che ho visto accanirsi a distruggere fino all’ultima pietra delle fondamenta la casa di un suo vicino appartenente all’altra etnia.
È vero che ha visto Fidel Castro piangere?
Sì, a Cuba. Ero andato proprio per incontrarlo. Una sera, mi sembra fosse nel dicembre 1992, ci eravamo lasciati andare ai ricordi personali. Gli raccontavo che la mattina avevo presieduto il pellegrinaggio popolare — e un po’ sincretistico — al santuario di San Lazzaro, patrono dell’Avana, a trenta chilometri dalla capitale. Mi disse che sua madre vi si recava ogni anno e che lo portava con sé quando era bambino. Mi chiese a bruciapelo quanti santi c’erano in cielo. Imbarazzato, evocai il nugolo di santi, non iscritti nel calendario, che la Chiesa celebra nel giorno di Ognissanti. Aggiunsi che forse in quel momento sua madre e la mia si trovavano fianco a fianco a cantare insieme la gloria di Dio. Ci guardammo allora come due bambini, e mi accorsi che una lacrima gli scendeva sulla guancia.
Ha raccolto anche le confidenze di Saddam Hussein.
Sono stato inviato in Iraq nel febbraio 2003, proprio per incontrarlo. Il colloquio durò un’ora e mezza. Gli consegnai una lettera personale del Papa, ricordando la solidarietà del Santo Padre con le «sofferenze e le privazioni del popolo iracheno» — era una allusione all’embargo — e il suo desiderio di fare di tutto per evitare la guerra. Mi rispose che conosceva e apprezzava la posizione del Papa e della Santa Sede. Saddam non si accorse che nel corso di tutto il colloquio stringevo in mano il rosario mariano; ma io notai che anche lui sgranava di quando in quando il rosario coranico.
E cosa dire oggi di quanto sta accadendo in quel Paese?
È sconvolgente e assurdo. Qualche anno fa posi su un quotidiano un duplice interrogativo «Islam, chi sei? Islam, dove sei?» La mia era la domanda di un cristiano che ha sempre avuto uno sguardo amichevole sui musulmani e che cominciava a manifestare qualche perplessità sull’islam stesso. Un islam o i mille e un islam? Ho riflettuto molto sui rapporti tra musulmani e cristiani. Li considero molto complessi e nevralgici a causa del peso della storia ma soprattutto per via della natura stessa delle due religioni, che in fin dei conti sono molto più dissimili di quanto non si pensi abitualmente. Cosciente dei dibattiti all’interno dell’islam, vorrei assicurare i musulmani, figli di Abramo come me, dei nostri sforzi costanti per comprendere la loro fede. E vorrei anche ricordare la diagnosi che fece il cardinale Tauran ad Amman, il 21 maggio 2009 quando disse che «chiarire l’evoluzione dell’islam, le sue diverse componenti e i fattori interni che li mettono in movimento, con le loro ricadute positive e negative sulle nostre due comunità, è una necessità dettata dalla realtà quotidiana sotto i nostri occhi». L’islam, con più di un miliardo di fedeli, rappresenta con il cristianesimo il patrimonio religioso più considerevole che l’umanità abbia mai elaborato. L’ora del dialogo tra cristiani e musulmani suona oggi con la forza di un campanone, poiché le derive islamiche e i diversi comportamenti terroristici che segnano i nostri giorni stanno sfigurando il volto dell’islam e fanno dimenticare la qualità dei suoi valori religiosi. Dopo le primavere arabe, la stessa libertà religiosa dei cristiani di Oriente che vivono in Paesi islamici deve essere tutelata: temono per la loro permanenza su una terra che abitano da millenni, soprattutto quando constatano che la “primavera” è seguita e minacciata dai rigori di un inverno portato da correnti estremiste.
«Ho sentito battere il cuore del mondo...» è il titolo di un suo libro. Un titolo molto impegnativo. 
Lei vorrebbe dirmi che ci vuole una bella faccia tosta per fare una dichiarazione così enorme, vero? Eppure, alla fine della lunga strada che Dio mi ha fatto percorrere, essa risuona in me come una tranquilla evidenza e si prolunga in un’azione di grazia dagli accenti di eternità. Sì, ho sentito battere il cuore di un mondo che aspira instancabilmente a vivere in pace, che aspira follemente a essere amato, che ha bisogno di tanta carità La carità resta sempre al cuore delle lotte per la giustizia. Questa convinzione mi ha portato spesso a sventolare, accanto al vessillo della carità la bandiera della solidarietà, una parola più laica, probabilmente più leggibile, ma a cui la Chiesa, adottandola nella sua modernità, dà tuttavia un senso altrettanto pieno e divino.
Esiste secondo lei una ricetta per vivere la solidarietà?
Con ogni probabilità non esiste alcuna ricetta, alcun piano sociale per vivere la solidarietà. Ma la Chiesa ci offre una chiave che, paradossalmente, ci introduce nella solidarietà universale attraverso una solidarietà specifica, la più sorprendente, anche la più coinvolgente: la solidarietà con i poveri. Tutti i progressi di un popolo verso l’umanità, lungo i secoli, sono stati realizzati a partire da alleanze con i poveri, e gli ordini religiosi hanno svolto in questo un grande ruolo. Il paradosso della nostra epoca è che il mondo si sveglia al dramma dei poveri con una mentalità da ricco, mentre la Chiesa vi si avvicina con un cuore di povero.
Cosa si aspetta l’uomo di oggi dalla Chiesa?
L’uomo oggi balbettante, titubante, deluso o tradito dalle proprie opere, si aspetta molto dalla Chiesa, molto più di quanto confessi o perfino pensi. Questa è anche la mia esperienza, alimentata da tutti i miei incontri attraverso il mondo. Certo, spesso la Chiesa è messa alla gogna delle piazze pubbliche, dove le si rimprovera tutto e il contrario di tutto. Certo, il corpo della Chiesa è piano di cicatrici e di protesi, nel suo orecchio risuona il canto del gallo udito da Pietro dopo che ebbe rinnegato tre volte, la sua agenda è piena di appuntamenti mancati. E, nutrito nel serraglio romano, potrei allungare questa lista nera, ma ricordo il mio incontro, in pieno regime comunista, a Mosca, con Alexander Men, un sacerdote ortodosso assassinato a colpi d’ascia nel 1990, e di cui sono stati pubblicati scritti dal titolo significativo: Le christianisme ne fait que commencer (“Il cristianesimo non fche iniziare”). Ciò che conta — mi aveva detto — è vivere malgrado tutto come se fossimo contemporanei di Gesù Cristo, fondatori di nuove Chiese con gli apostoli.
Dopo una vita così intensa come affronta ora l’età?
Mi dicono che la mia lunga vecchiaia sia un dono di Dio, e io ci credo. Ammetto poi che il gusto della vita terrena in me è ancora più forte dell’attesa di una vita celeste. Sì, con un corpo ormai intorpidito, mi appassiono ancora a questa terra degli uomini dove ho tanto faticato al servizio della Chiesa, della giustizia e della pace. Continuo sempre a cercare con attenzione i segni dell’incessante tenerezza del Dio di misericordia, che sono così numerosi quante le stelle nel cielo, seppure meno visibili.
Dopo averla ascoltata torna la domanda iniziale: come si costruisce una vita ricca come la sua?
Io penso di non avere mai barato con il mondo. Lo penso perché ho cercato di essere sempre un testimone del Vangelo di Cristo e di questa Chiesa dai quattro volti come quelli dei quattro evangelisti, una Chiesa che mi ha portato con le sue mani materne e mi ha aiutato sempre a correggermi dagli strabismi o dalle miopie di una fede individuale. Così — ma è l’arte di ogni cristiano — mi sono sorpreso io stesso, nel corso della vita, a scrivere il quinto Vangelo, quello mio personale, certo lasciando allo Spirito santo tutti i suoi diritti d’autore! Ciò che importa non è soltanto annunciare il Cristo, ma assicurarsi che sia proprio il Cristo a essere annunciato, un Cristo che non sia un personaggio da hit-parade né conservato in una serra protetta, ma il Cristo vero Dio e vero uomo, il Cristo degli apostoli, il Cristo dei piccoli e dei semplici, il Cristo di cui riconosco l’accento galileo così vicino al mio accento basco, il Cristo che dice a me come disse all’apostolo Filippo: «Roger, chi ha visto me ha visto il Padre!».
L'Osservatore Romano