martedì 30 settembre 2014

Avevo tredici anni



Ricordo della visita di Paolo VI nelle Filippine. 

Anticipiamo la prefazione del cardinale arcivescovo di Manila al libro pubblicato dalla Emi del quale offriamo in anteprima uno stralcio. -- (Luis Antonio Tagle) Ripercorrere i viaggi di Paolo VI — come questo libro propone — per me significa riandare con la memoria a un giorno ben preciso della mia vita. Avevo tredici anni quando papa Montini venne nel mio paese. In quella fine di novembre del 1970 le Filippine si stavano rimettendo in piedi dopo un tifone. La visita del Papa offriva ai filippini un orizzonte luminoso verso cui guardare.
La comunità parrocchiale, la scuola, la famiglia, i mass media locali mi tenevano tutti costantemente aggiornato sull’evento che si stava avvicinando e facevano crescere in me le aspettative. Noi giovani di allora guardavamo ai preti con grande rispetto. Tremavamo con reverenza davanti a un vescovo. Mi chiedevo come mi sarei sentito trovandomi davanti il Papa! Quale emozione o quale esperienza avrebbe suscitato in me la sua presenza?
Il giorno dell’arrivo, la nostra scuola ci aveva portato ai bordi della strada da cui sarebbe passato Paolo VI giungendo a Manila dall’aeroporto. Eravamo lì ad accoglierlo sventolando le bandierine. La nostra eccitazione raggiunse il culmine quando sentimmo la sirena che anticipava l’arrivo della scorta papale. Tirando bene la schiena e il collo sgranai gli occhi per riuscire a vedere direttamente il Papa quando la sua auto sarebbe passata davanti a noi. E alla fine arrivò: un uomo vestito di bianco, un volto che irradiava pace, gioia e serenità. Vidi questa serenità. La avvertii profondamente. Ma a quel punto lui era passato. E noi tornammo a casa.
I giorni successivi furono pieni di immagini di Paolo VI rilanciate dai mezzi di comunicazione sociale. Rimasi particolarmente colpito dalla sua visita a una comunità di poveri nel distretto di Tondo, a Manila. Entrò nella baracca di una famiglia e si mescolò con persone che di solito erano rigorosamente tenute fuori dalla vista e dalla portata dei dignitari che facevano tappa nelle Filippine. Mi meravigliai anche al vedere come il Papa fosse in grado di radunare una moltitudine di persone, specialmente durante le messe e il rito dell’ordinazione di alcuni nuovi sacerdoti.
La visione di questi eventi mi fecero gustare nel Papa la presenza di Cristo, il pastore che raduna il suo gregge.
Piu tardi sarebbe arrivato il 1985, l’anno in cui mi recai alla Catholic University of America a Washington per perfezionare i miei studi in teologia. Desiderando approfondire il rinnovamento portato dal Vaticano II, accettai la proposta avanzata dal responsabile della mia licenza e del mio dottorato di studiare il concilio dal punto di vista di Paolo VI. Scrissi la mia tesi di licenza sul piano per il concilio tratteggiato dall’allora cardinale Giovanni Battista Montini. La mia dissertazione per il dottorato si concentrò in seguito sulla collegialità episcopale nel magistero e nell’azione di Papa Paolo VI. Era arrivato il mio turno di «viaggiare» nella grande mente, nel cuore e nell’anima di questo servo di Dio che ha guidato la Chiesa in un momento decisivo della sua storia.
Quando avevo tredici anni non avrei mai immaginato che quello sguardo fugace lanciato a Papa Montini sarebbe stato l’inizio di una vita in cammino al servizio della Chiesa, in spirito di comunione e di dialogo. Un cammino in cui oggi mi lascio accompagnare volentieri dal beato Paolo VI.

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Per il viaggio di Montini in Terra Santa. Un appunto che ha fatto la storia Anticipiamo uno stralcio dal volume «Paolo VI destinazione mondo. I viaggi di Montini incontro ai popoli» (Bologna, Emi, 2014, pagine 144, euro 13) di Giorgio Bernardelli e Lorenzo Rosoli, del quale riportiamo la prefazione in prima pagina. 
In principio fu un appunto. Quaranta righe scritte da Paolo VI di suo pugno, con la sua grafia chiara, che portano la data del 21 settembre 1963, «festa di San Matteo apostolo ed evangelista». Sembra il sogno di ogni storico della Chiesa: un’idea — il viaggio — destinata a rinnovare profondamente l’esercizio del ministero petrino compare nero su bianco su alcuni fogli sovrastati dallo stemma con la tiara e le chiavi incrociate. «Dopo lunga riflessione, e dopo aver invocato il lume divino, mediante l’intercessione di Maria Santissima e dei Santi Apostoli Pietro e Paolo — scrive il Papa — sembra doversi studiare positivamente se e come possibile una visita del Papa ai Luoghi Santi, nella Palestina». 
Quando annota queste parole sono passati tre mesi esatti dalla sua elezione. Una giornata speciale. Quel 21 settembre Montini ha incontrato la Curia romana, alla quale ha annunciato l’intenzione di procedere a una profonda riforma, nel segno del Concilio. Che sta per riprendere: è fissato infatti per domenica 29 settembre l’inizio della seconda sessione. E l’attesa per il discorso del nuovo Pontefice in apertura dei lavori è grande. Letto dentro questo contesto, è chiaro fin dall’inizio il legame profondo fra il Concilio e il progetto del viaggio in Terra Santa. Il Papa non vuole che la grande assemblea si areni su discussioni sterili. Perché, allora, non suggerire la via del ritorno alla sorgente, alle «radici della fede», attraverso il ritorno del successore di Pietro là dove l’annuncio del Vangelo è risuonato per la prima volta? 
Quell’appunto mostra come Montini abbia chiare fin dall’inizio le caratteristiche essenziali del viaggio. Intanto lo scopo: dovrà essere eminentemente religioso: «Rendere onore a Gesù Cristo, nella terra che la sua venuta al mondo ha reso santa e degna di venerazione e di tutela da parte dei cristiani. Ogni altro motivo, anche buono e legittimo, dovrebbe essere escluso da questo pellegrinaggio pontificio». Quindi lo stile e il respiro: «Sia rapidissimo, abbia carattere di semplicità, di pietà, di penitenza e di carità». Altri elementi abbiano il profilo di «fine subordinato»: come il risveglio dell’interesse cattolico per la difesa dei Luoghi Santi, l’implorazione della pace in «quella terra benedetta e travagliata», la speranza di trovare «qualche conveniente forma di avvicinamento» col mondo ebraico e quello musulmano.