martedì 30 settembre 2014

Nel centenario della morte di Pio X.



Fraternità sacerdotale e centralità eucaristica secondo Papa Sarto
(Beniamino Stella) 
Pubblichiamo stralci dell’omelia che il cardinale prefetto della Congregazione per il clero ha pronunciato durante la messa celebrata a Riese — paese natale di Papa Pio X — a conclusione del ritiro dei sacerdoti della diocesi di Treviso organizzato in occasione del centenario della morte del santo pontefice. 
È noto che Pio X diede al suo ministero una direzione chiara, esplicitata nel suo motto episcopale, instaurare omnia in Christo, vissuto in chiave missionaria. In effetti, il ministero dei presbiteri è ordinato all’attuazione dell’invio in missione da parte di Gesù. Scorrendo le pagine del Vangelo, colpisce come Gesù stesso abbia associato la missione alla comunione fraterna tra coloro che la attuano. In Marco, ad esempio, l’istituzione dei Dodici ha lo scopo di radunarli in un collegio, per stare con lui e per essere inviati a predicare (Marco, 3, 14).
Perché Gesù ha desiderato che comunione e missione fossero ordinariamente congiunte? Lo ha spiegato lui stesso nel corso dell’Ultima cena; la comunione è fonte della missione e condizione per la sua efficacia, in quanto testimonianza della potenza della carità fraterna, che nasce dall’amore che unisce il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo.
La comunione è essenziale per la vita ordinaria, della Chiesa e di ogni presbitero. Come si può far sì che questa esigenza del nostro essere sacerdoti sia concreta e visibile? Certo, essa si manifesta innanzitutto nella collaborazione pastorale, agendo come membri di un unico presbiterio, aiutandoci a vicenda, cercando insieme i modi per annunciare il Vangelo oggi, sin nelle più remote periferie. Tuttavia, occorre essere attenti a non considerare la comunione solo come una forma strutturata di collaborazione; essa si fonda sul sacramento dell’ordine e genera una vera «fraternità sacramentale» (Presbyterorum ordinis, n. 8). Occorre pertanto che l’unità si manifesti nella quotidianità e che la fraternità sacerdotale penetri ogni dimensione del nostro “essere”, non limitandosi a costituire una modalità del nostro “fare”. Occorre unire le nostre forze per coltivare insieme, e meglio, il campo del Signore, ma è necessario unire anche le nostre vite, per sentirci una vera “famiglia sacerdotale”, dove i giovani collaborano con gli anziani e i sani aiutano i malati.
L’essere celibi è una vocazione speciale da parte del Signore, ma non ci deve portare a diventare “solitari” o, peggio, “individualisti”. La vocazione al celibato non può non permetterci, nell’equilibrio e nella disciplina degli affetti, di vivere e di sviluppare nel quotidiano ministero una serie di relazioni: con il Signore, con i confratelli e con i fedeli, e tra questi con gli amici e con la nostra famiglia; esse sono come le tre gambe di un tavolino, che si bilanciano a vicenda, se adeguatamente coltivate, e giovano al nostro equilibrio personale e spirituale, nonché alla nostra efficacia ministeriale.
Consolidati così nella nostra vocazione personale, esistono varie modalità per tradurre in pratica con i confratelli la fraternità sacramentale. La prima consiste nell’incontrarsi spontaneamente, soprattutto per condividere la Parola di Dio e pregare insieme, ma anche per condividere soddisfazioni e fatiche, magari a tavola, durante i pasti, che rendono più facile e immediata la condivisione, giovani e anziani insieme.
Anche la direzione spirituale tra preti è un’altra forma squisita della fraternità sacerdotale. Si tratta di un ministero fondamentale, sia tra noi sacerdoti, che da offrire ai fedeli. È auspicabile che in tale fraternità trovi posto anche un frequente ricorso al ministero della riconciliazione, per donarsi a vicenda la misericordia di Dio. La misericordia, ovviamente, non deve mai mancare anche nei rapporti quotidiani tra sacerdoti, attraverso un perdono reciproco e profondo, senza strascichi di risentimento, che permetta di andare oltre gli screzi e le incomprensioni, inevitabili anche nelle migliori famiglie.
Le varie forme di fraternità sacerdotale, vissute con differente intensità, trovano il loro pieno compimento nella vita comune, della quale Pio X affermava che produce «copiosi frutti». Essa è esigente, perché la serenità e la fecondità di ogni vita comune dipendono dalla carità. E sappiamo quanto impegno richiede la carità autentica.
In questa “famiglia sacerdotale”, in cui la fraternità tra i presbiteri, comunque si realizzi, è accompagnata e favorita dalla paternità del vescovo, la spiritualità diocesana è il comune denominatore, che modella e unisce tutti i sacerdoti posti al servizio di una determinata Chiesa particolare. La definizione dell’essenza e delle coordinate di tale spiritualità è il risultato di un sapiente equilibrio tra la vita pastorale e la vita spirituale.
La fraternità sacerdotale però non è semplicemente il frutto del nostro umano impegnarci, né una generica “fratellanza”; essa nasce da un sacramento, quello dell’ordine, e si alimenta e si consolida tramite un altro sacramento, la Santissima Eucaristia. Pio X ha voluto manifestare la fede nella potenza e nella fecondità dell’azione della Grazia, incoraggiando la comunione frequente e quotidiana e permettendo ai fanciulli di ricevere il Corpo di Cristo già a sette anni. La Chiesa, che è un mistero di comunione e di missione, trova il suo centro vitale nella comunione per eccellenza, che è l’Eucarestia. Quindi, carissimi sacerdoti, non celebrate mai l’Eucarestia come se fosse una funzione a voi esterna, un mero rito. La profondità della vostra preghiera insieme al vostro zelo di pastori vi porteranno a essere una sola cosa con Gesù, affinché l’Eucarestia sia davvero la fonte e il culmine della vostra fede personale, della vostra vita sacer-dotale, della vostra fecondità pastorale.
L'Osservatore Romano