domenica 28 settembre 2014

Papa Francesco, Charles Peguy e l'emergenza educativa


Quando la scuola non indica il vero, il bello e il bene fallisce

Papa Francesco e Charles Peguy: due punti di vista sull'emergenza educativa


di N. Rosetti
Lunedì la campanella è suonata e così siamo tornati tutti, studenti e insegnanti, nel nostro quotidiano ambiente di lavoro. Prima che le lezioni iniziassero mi sono domandato come avrei svolto la mia prima lezione quest’anno e così mi è venuto in mente di condividere con i miei alunni alcuni brevi testi che potessero dare senso al nostro stare in classe.

Il primo breve brano che ho proposto loro è tratto dal discorso che Papa Francesco ha rivolto al mondo della scuola lo scorso 10 maggio. Si tratta di una frase non lunga, ma piena di significato, che dice: “La missione della scuola è di sviluppare il senso del vero, il senso del bene e il senso del bello”.
Papa Francesco ha sintetizzato il compito della scuola in queste tre parole: vero, bene e bello. Se infatti ci facciamo caso, nonostante le discipline siano tante, hanno questa triade come comune denominatore.
Partiamo dal vero. In quali discipline noi vediamo emergere in particolar modo il vero? Possiamo pensare ad esempio alla storia. Quando noi studiamo storia, in fin dei conti non facciamo altro che cercare la verità dei fatti, andiamo alla ricerca di ciò che è veramente accaduto. Ma siamo alla ricerca della verità anche 
quando studiamo le scienze e tutte le leggi della natura ad esse collegate. Nel nostro studio la mente si china sulla realtà per conoscere la sua verità.
Quali sono poi le materie che ci avvicinano al bello? Sicuramente la storia dell’arte ci rende prossimi a quanto di migliore l’uomo è riuscito a produrre. Pensiamo a tutte le opere d’arte, pittoriche o scultoree, che ammiriamo nei libri di testo. Lo studio dell’arte non solo ci induce a osservare delle opere belle, ma crea anche in noi il desiderio e la ricerca della bellezza e del buon gusto.
Se la storia dell’arte ci fa appassionare al bello attraverso gli occhi, la musica lo fa attraverso le orecchie! Infatti, ascoltando un brano musicale, ci predisponiamo a cogliere l’armonia di una melodia.
È possibile cogliere la bellezza anche attraverso la letteratura. Studiando una poesia possiamo cogliere lo stato d’animo di un autore che, essendo un uomo come noi, può aver espresso con le parole dei sentimenti che noi stessi abbiamo provato.
Infine attraverso le discipline scolastiche possiamo riflettere sul bene. È possibile farlo con lo studio della religione attraverso gli insegnamenti di Gesù e le vite dei santi. Oppure, in modo diverso, cittadinanza e costituzione ci insegna quali sono le regole basilari per vivere bene insieme.
E la scuola o ci educa ad essere cercatori di verità, di bellezza e di bontà oppure abdica al suo compito, perché al vero, al bello e al bene tende ogni uomo e non c’è – o non ci dovrebbe essere – rottura fra la scuola e la vita.
C’è un altro brano che mi è sembrato particolarmente adatto per illuminare il percorso dell’anno scolastico che ci sta davanti. Si tratta di un brano di Péguy nel quale si parla di come si realizza una sedia.
“Un tempo gli operai non erano servi. Lavoravano. Coltivavano un onore, assoluto, come si addice a un onore. La gamba di una sedia doveva essere ben fatta. Era naturale, era inteso. Era un primato. Non occorreva che fosse ben fatta per il salario, o in modo proporzionale al salario. Non doveva essere ben fatta per il padrone, né per gli intenditori, né per i clienti del padrone. Doveva essere ben fatta di per sé, in sé, nella sua stessa natura. Una tradizione venuta, risalita dal profondo della razza, una storia, un assoluto, un onore esigevano che quella gamba di sedia fosse ben fatta. E ogni parte della sedia fosse ben fatta. E ogni parte della sedia che non si vedeva era lavorata con la medesima perfezione delle parti che si vedevano. Secondo lo stesso principio delle cattedrali. E sono solo io – io ormai così imbastardito – a farla adesso tanto lunga. Per loro, in loro non c’era allora neppure l’ombra di una riflessione. Il lavoro stava là. Si lavorava bene. Non si trattava di essere visti o di non essere visti. Era il lavoro in sé che doveva essere ben fatto”.
In questo brano l’autore insiste sulla necessità di costruire la sedia bene, perché è giusto che sia così, “per sé, in sé, nella sua stessa natura”, come egli stesso scrive. È questa la principale e l’unica motivazione che deve muovere l’operaio nel suo lavoro. Egli non deve essere mosso dal dalla retribuzione, dall’elogio del padrone o dei clienti.
Se il lavoro dell’operaio deve essere compiuto “per sé” è allora naturale che egli lavori al meglio sia le parti della sedia che si vedono che quelle che rimangono più nascoste. Per Péguy la sedia deve essere realizzata “secondo il principio delle cattedrali”. Chi ha avuto la fortuna di salire sulla cima di una cattedrale avrà potuto notare che i particolari che vi si trovano sono lavorati con la stessa cura degli elementi che si trovano in basso e che sono visibili a tutti.
In questo breve testo l’autore sembra aver magistralmente descritto quale debba essere la “spiritualità del lavoro”. Per trasposizione si può fare un analogo discorso per il mondo della scuola.
Dobbiamo amare lo studio e farlo amare ai nostri alunni “per sé”, perché è grazie ad esso che i nostri occhi si aprono sulla realtà. Saremmo dei bravi insegnanti se riuscissimo a far comprendere loro che non studiano per il voto o per fare un piacere agli insegnanti o ai genitori (il salario, il padrone e gli intenditori nelle parole di Péguy), ma per se stessi.
Quante volte l’esecuzione dei compiti a casa è fatta con superficialità, tanto per fare, tanto per non sentire le prediche dell’insegnante! E lo sappiamo tutti, perché anche noi siamo stati studenti! Quando ci siamo comportati così e quando ancora gli studenti di oggi fanno le stesse cose, non abbiamo amato lo studio “per sé”. Dobbiamo invece insegnare ad agire “secondo lo spirito delle cattedrali” perché solo così i nostri studenti potranno apprezzare a pieno il loro stare a scuola.
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Fonte:

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Se avessi sedici anni o giù di lì che educatore vorrei?

Chi vuole conquistare un'anima a Cristo deve farlo con lo sguardo prima ancora che con le parole

di A. Ribeca
La scuola è cominciata e, dopo gli oratori estivi, stanno per iniziare anche gli incontri in parrocchia. Così mi sono chiesto: se avessi sedici anni o giù di lì, che educatore vorrei?

Per rispondere ho lasciato parlare il mio cuore perché è lì che la ragione va a bussare prima di prendere decisioni, prima di fare scelte come quella di andare all’incontro o starmene a casa. Il cuore deve darmi delle motivazioni valide perché non sono disposto a fare qualcosa per la quale non trovo il senso.
Ecco, quindi, il mio cuore chiede, innanzitutto, un educatore che prima di qualsiasi parola, sappia catturarmi con lo sguardo.
Vorrei un educatore che si interessi alla mia storia prima di raccontarmi la sua, perché la mia sarà sicuramente più acerba, forse zuppa di preoccupazioni sciocche e di lanci di entusiasmo che si spengono nel giro di poco tempo, fatta di ingenuità, incoerenze, delusioni e momenti di rabbia, ma è mia e ho bisogno di qualcuno che la ascolti. Ho bisogno di un educatore che mi ascolti.

Vorrei un educatore che a fine incontro non mi dica “ci vediamo venerdì prossimo”, ma “ci sentiamo in settimana”. Vorrei un educatore che venga a vedere i miei allenamenti di calcio, che mi chieda come è andato il compito di matematica, che festeggi con me la sua laurea, anche solo con un gelato. Vorrei che il fango della mia vita, così come il cielo, si mescoli con il fango e il cielo della sua.
Vorrei un educatore che mi insegni sì a pregare, ma allo stesso tempo a non ridurre la mia fede a una questione intima tra me e Dio. Vorrei un educatore che esca dalle aule parrocchiali, che mi faccia immergere nella realtà, perché altrimenti questi incontri sarebbero autoreferenziali, lui verrebbe per sentirsi una persona impegnata e io forse perché se stavo a casa avrei dovuto studiare.
Vorrei un educatore che non venga a farmi dottrina, che non venga a ripetermi le pagine del guidino quando quelle pagine non lo riguardano; perché se quelle pagine non gli dicono nulla, come può trasmettermi qualcosa?
Vorrei un educatore stanco e affaticato per la sua giornata, ma felice di incontrarmi.
Vorrei un educatore che non cerchi di adularmi o conquistarmi con il suo buonismo, ma che se serve mi rimproveri, senza paura che me ne vada. Perché se mi ha dato ragioni per tornare all’incontro ogni venerdì, quelle ragioni restano e non è sufficiente un rimprovero per andarmene per sempre. Però voglio pure un educatore che non mi richiami davanti a tutti se arrivo in ritardo, ma mi accolga a braccia aperte, perché è felice che ci sia anche io. Poi, se dopo l’incontro, prima di rimproverarmi, mi fermasse per chiedermi spiegazioni sul ritardo, lo capirei.
Ma soprattutto, vorrei un educatore che mi incuriosisca raccontandomi cose che non so e che faccia vibrare il mio cuore perché dice cose che hanno a che fare con me. Che mi parli di poesia, di arte, di cinema, di musica, del tramonto sul mare, di tutto ciò che sia bellezza, perché la bellezza ha dentro di sé il mistero dell’esistenza e ci rimanda a Dio. Che queste cose le dica con passione. Vorrei un educatore appassionato, che quando dice qualcosa lo dica con l’entusiasmo di uno che quelle parole le ha prima vissute, ne ha fatto esperienza.
Vorrei un educatore che mi faccia sognare. Vorrei un educatore-sognatore. Un educatore che mi insegni a sognare, mi insegni a fare sogni aderenti alla realtà, mi insegni a scoprire la mia strada, le mie capacità, che mi aiuti a comprendere chi sono io. Un educatore che non mi dica cosa devo fare, ma che, piuttosto, mi insegni a fare scelte coerenti con la mia persona perché ogni scelta mi definisce. Vorrei un educatore che mi insegni a stupirmi, che mi trasmetta il suo stupore.
Vorrei, infine, un educatore che mi dia speranza, perché ha incontrato Cristo e questo è tutto per un uomo.
Sì, lo so, un educatore che riesca ad essere tutto questo forse non esiste, ma un educatore che ci prova senza nascondere le sue debolezze, le sue fatiche, i suoi dubbi, la sua umanità, è un educatore che ama ed è di questo che ho bisogno. Non ho bisogno di un educatore perfetto; ho semplicemente bisogno di un abbraccio.
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Alessandro Ribeca è padre di famiglia, collaboratore de L’Ancora, scrittore. Ha pubblicato due libri: Il colore prima del Blu e La luce nei tuoi occhi.