venerdì 31 ottobre 2014

Tra Assad e il Califfato



Esce in Europa, in Italia da Mondadori, «Il libro nero della condizione dei cristiani nel mondo». Diretto da di Falco, Radcliffe e Riccardi, e coordinato da Lieven, raccoglie approfondimenti dei più importanti studiosi del mondo. Anticipiamo il capitolo di Domenico Quirico

DOMENICO QUIRICO
I cristiani di Siria: li ho incontrati subito, il secondo giorno del mio ennesimo viaggio nella terra della rivoluzione, diventata atroce e feroce guerra civile. Yabrud è appena oltre il confine con il Libano, le cui vette appaiono lontane, coronate di nuvole, vette nude, granitiche, solenni. Per arrivare alla prima tappa del viaggio che nei piani dovrebbe portarmi a Damasco con una formazione di rinforzi dell’Armata siriana libera costeggiamo burroni profondi e paurosi, pieni di nubi. È al crepuscolo che la vasta pianura di Yabrud, e poi più in fondo Qara, mi appare ancora gloriosamente inondata di sole, i campi coltivati e i frutteti regolari come tappeti la screziano. Ma sono le sentinelle del deserto; dietro di loro si aprono le sconfinate pianure che portano a Damasco, dalle cui rocce e sabbie il cielo lontano sembra intorbidato.
 
Questa è da secoli terra di cristiani, che hanno resistito a tutto, Crociate e jihad, miseria e rivoluzioni, fanatismo e indifferenza. Hanno resistito soprattutto alla morsa del peccato imperdonabile: la disperazione. Nei miei precedenti quattro viaggi nella Siria ribelle non ho mai prestato attenzione particolare alla minoranza cristiana del Paese degli Assad, un 10-12%, le stime difficili in uno Stato dove l’appartenenza religiosa non è segnata sui documenti d’identità: mi sembrava, lo confesso, un problema secondario nell’abisso della tragedia che coinvolgeva e travolgeva tutti i 22 milioni di siriani, sunniti, alauiti, arabi, turcomanni, drusi, curdi. Certo, avevo constatato che i cristiani non erano presenti se non in numero modesto nelle formazioni dell’Armata siriana libera. Certo, quando ne parlavo con i ribelli, molti s’incupivano al solo sentirli citare: «I cristiani sono quasi tutti legati a Bashar a filo doppio, quello dell’interesse e della paura… Sospettano di noi rivoluzionari e ci accusano di essere integralisti e fanatici. Ma in realtà difendono i loro privilegi, le loro ricchezze, la posizione che si sono ritagliati nella società e trovano per questo che il regime sia una sicurezza e noi una incognita».

Ma, aggiungevano, ad Aleppo, città martire e simbolo della rivoluzione, divisa a metà tra i quartieri liberati e quelli ancora tenuti saldamente dai soldati del regime, «non ci saranno vendette: anche i cristiani troveranno posto nello Stato nuovo che immaginiamo democratico, pluralista e pluriconfessionale». (...)

I cristiani siriani, per tradizione e per necessità, hanno sempre sostenuto il partito Baath e lo Stato-nazione considerandolo un argine al fondamentalismo. La loro Età dell’Oro sono stati gli Anni Cinquanta, quando parteciparono attivamente alla vita politica e parlamentare della Siria da poco indipendente; alle elezioni del 1954 ottennero 16 parlamentari. Fu, quella, l’unica elezione democratica della storia del Paese.

L’emiro della formazione del Fronte al-Nusra, di cui sono stato prigioniero per dieci giorni, era un bell’uomo dagli occhi azzurri, un libanese dei villaggi di confine venuto a combattere la guerra santa in Siria e a saldare i conti con gli sciiti di Hezbollah, che, raccontava, avevano fatto strage nel suo villaggio. Di questa catena di vendette si nutre il moloch della guerra civile siriana. Un monaco guerriero come i suoi giovani combattenti, preghiera e guerra, una vita ascetica dove non c’era spazio per il sorriso, il cibo, la pietà. Quando ancora era notte passava nella stalla dove erano poveramente alloggiati i suoi combattenti e batteva, con un bastone che portava sempre con sé, contro le porte di ferro: «Svegliatevi, mujaheddin. Dio chiama, è l’ora della preghiera!». Aveva uno sguardo intelligente e crudele e le idee ben chiare. Quando gli ho chiesto quale sarebbe stato il futuro della Siria nel caso fossero riusciti a cacciare Bashar, non ha avuto esitazioni: costruiremo qui il califfato secondo la volontà di Dio grande e misericordioso. La sharia sarà l’unica legge. Ma non sarà che l’inizio… Poi getteremo a mare gli ebrei e conquisteremo il Libano, cacceremo i regimi atei e corrotti della Giordania, dell’Iraq… e poi l’Egitto, la Libia, la Tunisia, l’Algeria e al-Andalus, la Spagna, tutte terre di Dio. E il califfato tornerà a essere quello glorioso dei tempi sacri dell’islam vittorioso.
Gli chiedo quale sarà il destino dei cristiani nel futuro califfato: vivono qui da secoli, questa è la loro terra… Avranno una sorte migliore degli alauiti, la setta satanica di Bashar, che stermineremo e cacceremo tutti fino all’ultimo uomo, donna e bambino. I cristiani, se saranno obbedienti, potranno restare qui, ma dovranno pagare una tassa come tutti i dhimmi. Non saranno mai cittadini con gli stessi diritti dei veri credenti!

La guerra civile siriana nell’ultimo anno ha radicalmente mutato natura e attori. Le formazioni jihadiste, finanziate dall’Arabia Saudita, spesso formate quasi interamente da volontari stranieri, si sono moltiplicate e rafforzate e rappresentano ormai, sul terreno dove l’Armata siriana libera è scomparsa, la vera forza di opposizione all’esercito regolare. Hanno portato con sé un fanatismo assente nella prima fase della rivoluzione. L’abbattimento del regime, per loro, non è che una prima fase sulla via della ricostruzione del califfato nel Paese chiave del Medio Oriente. Nei confronti dei cristiani è difficile indicare una linea comune: ogni katiba, a seconda della sua composizione – ceceni, libici, tunisini, tatari, sauditi, europei – ha posizioni più o meno estremiste. La disinformazione, largamente utilizzata da entrambe le parti in conflitto, ha fatto nascere teorie e leggende. Giornali occidentali hanno raccolto e pubblicato, senza controllo, le voci raccapriccianti secondo cui i gruppi integralisti uccidono i cristiani, ne raccolgono il sangue in bottiglie e le spediscono ai sauditi che finanziano i loro gruppi, per dimostrare che stanno lavorando bene alla guerra santa! Allo stesso modo si è parlato, sulla base di video di origine dubbia, di crocifissioni di condannati cristiani. Esistono gruppi jihadisti di origine opaca, forse creati o infiltrati dai servizi segreti del regime per seminare confusione e condurre operazioni di guerra sporca. Chi ha ucciso, per esempio, con tre colpi alla nuca, a Homs, padre Franz van der Lugt, il gesuita olandese che aveva accettato di restare nel quartiere antico della città assediato da due anni, sotto le bombe e senza cibo, per testimoniare che per lui non esistevano «cristiani o musulmani, ma solo esseri umani»? I ribelli integralisti o l’esercito regolare, per vendetta? Chi ha rapito da più di un anno un altro gesuita, padre Paolo Dall’Oglio, il fondatore del monastero di Mar Musa, luogo di straordinario ecumenismo dove cristiani e musulmani pregavano fianco a fianco? Fin dall’inizio, contrariamente alle gerarchie cristiane con cui è spesso entrato in contrasto, aveva scelto il campo rivoluzionario, contro un regime di cui denunciava senza sfumature la corruzione e la violenza: sacerdote e rivoluzionario, dunque, senza contraddizioni e senza ipocrisie.

Voci insistenti, ma senza conferme portano, per il suo sequestro, a una delle formazioni più radicali del jihad, l’Isil, il movimento per l’emirato, che controlla territori al confine con l’Iraq, dove si sono perse le tracce del gesuita italiano. I meriti rivoluzionari di Dall’Oglio non hanno alcun rilievo, per questi nuovi ribelli fanatici, rispetto a due «colpe» capitali: essere occidentale e, soprattutto, cristiano.