martedì 25 novembre 2014

L’attività diplomatica della Santa Sede



Nel discorso dell’arcivescovo Mamberti ai vescovi australiani. 

In occasione della sua visita in Australia, su invito dell’arcivescovo di Melbourne e presidente della Conferenza episcopale, Denis J. Hart, l’arcivescovo Dominique Mamberti, segretario per i Rapporti con gli Stati, ha pronunciato il 25 novembre a Sydney un discorso davanti ai vescovi australiani radunati in assemblea plenaria. Tema dell’intervento, che pubblichiamo in una traduzione italiana, è stata l’attività diplomatica della Santa Sede, con particolare riferimento alla drammatica situazione dei cristiani in Medio Oriente.
Fratelli Vescovi,
Ringrazio l’Arcivescovo Denis Hart per il gentile invito che mi ha rivolto a nome della Conferenza dei vescovi cattolici australiani a visitare l’Australia in occasione del Centenario della Delegazione Apostolica e a rivolgervi alcune parole in occasione del vostro incontro plenario. È una grande gioia incontrarvi tutti qui, a Sydney, avendo avuto l’opportunità, in altre occasioni, di incontrare molti di voi sia in gruppo sia individualmente in Vaticano. Vi porto anche i calorosi saluti del Santo Padre.
Essendo questa la prima visita di un Segretario per i Rapporti con gli Stati in Australia, e dato che il Nunzio Apostolico, l’Arcivescovo Paul Gallegher, che tutti voi conoscete bene, è stato nominato come mio successore, ho ritenuto che potesse essere utile parlarvi dell’attività diplomatica della Santa Sede, e anche della situazione attuale dei cristiani in Medio Oriente, questione che, come ben so, preoccupa tutti voi.
Come sapete, il Segretario per i Rapporti con gli Stati ha una particolare responsabilità per le attività diplomatiche della Santa Sede. La Segreteria di Stato ha due sezioni: la Sezione per gli Affari Generali e la Sezione per i Rapporti con gli Stati. Quest’ultima è riconosciuta, nel protocollo internazionale, come il Ministero degli esteri della Santa Sede, e il Segretario per i Rapporti con gli Stati è l’equivalente del Ministro degli esteri. La Costituzione apostolica Pastor bonus, promulgata da Papa Giovanni Paolo II nel 1988, che regola l’organizzazione della Curia Romana, descrive le diverse responsabilità della Sezione per i Rapporti con gli Stati ai numeri 45-47. La Sezione tratta tutte le questioni riguardanti i governi civili. Promuove le relazioni diplomatiche con gli Stati e con altri soggetti di diritto internazionale e si occupa delle questioni di mutuo interesse per la promozione del bene della Chiesa e della società civile, talvolta attraverso concordati e convenzioni analoghe. Rappresenta la Santa Sede presso le organizzazioni e gli incontri internazionali e, in alcuni casi, specialmente laddove esistono accordi con i governi civili, è impegnata nelle questioni riguardanti l’erezione e la mutazione di diocesi e le nomine episcopali.
1. Un chiarimento della terminologia
Poiché a molti potrebbe apparire strano che la Chiesa cattolica s’impegni nella diplomazia, dato che l’attività diplomatica è una prerogativa degli Stati e deriva direttamente dal loro essere costituiti come entità sovrane rispetto ad altri Stati, ritengo opportuno dire qualcosa su questo aspetto della missione della Chiesa e sui fini della diplomazia pontificia in generale.
Tanto per cominciare, vorrei chiarire alcune questioni riguardanti la terminologia. Spesso molti commentatori parlano di “diplomazia vaticana” e alcuni mettono in discussione l’importanza di accreditare rappresentanti diplomatici presso il Vaticano, che è lo Stato indipendente più piccolo al mondo. In realtà, lo Stato della Città del Vaticano, in quanto tale, non mantiene relazioni diplomatiche con nessuno Stato, sebbene tecnicamente potrebbe farlo. Lo Stato della Città del Vaticano esiste meramente per garantire l’autonomia della Santa Sede che, data la sua sovranità spirituale, da secoli è riconosciuta come soggetto di diritto internazionale. È stato così anche quando la Santa Sede non possedeva un territorio, vale a dire negli anni tra il 1870, dopo la perdita dello Stato Pontificio, e il 1929, quando fu creato lo Stato della Città del Vaticano in seguito alla firma dei Patti Lateranensi tra la Santa Sede e l’Italia. Anche quando non aveva un proprio territorio, il Papa continuò a inviare e a ricevere rappresentanti diplomatici, e la Santa Sede fu chiamata a mediare o a prestare i suoi buoni uffici in non meno di 13 dispute internazionali, come quella del 1885 tra Germania e Spagna sulle Isole Caroline.
Che cos’è la “Santa Sede”? In senso stretto, il termine “Santa Sede”, o “Sede Apostolica”, si riferisce all’ufficio del Romano Pontefice. In senso lato, che è quello solitamente applicato, la “Santa Sede” comprende gli uffici e le altre istituzioni della Curia Romana, che assistono il Papa nel governo della Chiesa universale. Va pertanto distinta dallo “Stato della Città del Vaticano”, enclave territoriale all’interno della città di Roma, che funziona come gli altri Stati ed esiste solamente per assicurare l’autonomia della Santa Sede.
2. La situazione attuale
Oggi, come conseguenza del ruolo più ampio svolto dalla Santa Sede sulla scena internazionale, sono ben 180 gli Stati che intrattengono con essa pieni rapporti diplomatici. A questi vanno aggiunti l’Unione europea, il Sovrano Militare Ordine di Malta e una Missione di natura speciale, ovvero quella dello Stato di Palestina. La Santa Sede è rappresentata anche in diverse organizzazioni internazionali e regionali, delle quali è o membro od osservatore, come le Nazioni Unite, l’Organizzazione per la Sicurezza e Cooperazione in Europa, l’Agenzia Internazionale dell’Energia Atomica, l’Unione africana, l’Asean, l’Unesco, e così via.
Molti Paesi, compresa l’Australia, mantengono una Missione residente presso la Santa Sede a Roma. Includendo quelle dell’Unione europea e dell’Ordine di Malta, attualmente queste Missioni sono 82. Inoltre, la Missione dello Stato di Palestina e gli uffici della Lega degli Stati Arabi, l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni e l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati mantengono contatti regolari con la Santa Sede attraverso le loro cancellerie a Roma.
L’Australia ha deciso sei anni fa di avere un ambasciatore residente a Roma, e non vi è alcun dubbio che ciò abbia favorito le nostre relazioni bilaterali e portato a un contatto e uno scambio maggiori su una vasta serie di questioni internazionali di mutuo interesse.
3. I fini della diplomazia pontificia
Quali sono i fini della diplomazia pontificia? La Santa Sede, nell’esercitare la propria attività diplomatica conformemente al diritto internazionale e alla prassi stabilita, si distingue dagli altri Stati in quanto non ha particolari obiettivi commerciali, militari o politici da difendere o perseguire. Piuttosto, la sua attività diplomatica serve la missione universale del Papa, che è essenzialmente una missione spirituale, al servizio del Vangelo. In tal senso, spesso si dice che la Santa Sede eserciti una diplomazia del “potere morbido”, vale a dire una diplomazia che non dipende dalla forza militare, politica o economica, ma dalla capacità di persuadere. Si potrebbe dire che la Santa Sede agisce come una voce della coscienza, al servizio del bene comune, attirando l’attenzione sugli aspetti antropologici, etici e religiosi delle diverse questioni che riguardano la vita di popoli, nazioni e la comunità internazionale in generale.
Al centro di questa missione c’è una concezione precisa della persona umana, che viene vista come avente una dignità innata, che va sempre rispettata, perché essenzialmente essa è creata a immagine e somiglianza di Dio e dotata di ragione, volontà e libertà. Questa visione della persona umana è alla base della dottrina sociale della Chiesa, che è un corpo di insegnamenti sviluppato nel corso dei secoli, specialmente negli ultimi duecento anni, riguardante l’organizzazione della società e diverse questioni che interessano la persona umana nella sua dimensione sociale, come la famiglia, l’economia, la cultura, la politica, la giustizia, i diritti umani, la pace e l’ambiente. Nella sua attività diplomatica, la Santa Sede fa costantemente riferimento a questa dottrina che, in larga misura, non dipende dalle particolari credenze religiose della persona come base per la coesistenza sociale pacifica e come contributo al bene comune.
La diplomazia della Santa Sede ha diversi obiettivi particolari, che scaturiscono dalla sua missione principalmente spirituale. Tra questi vi sono la difesa dei diritti e delle libertà della Chiesa e della libertà religiosa in generale, la promozione di una visione etica nelle diverse questioni riguardanti la vita umana, la società e lo sviluppo, la difesa della dignità umana e dei diritti umani, la promozione della riconciliazione e della pace, la promozione dello sviluppo umano integrale e degli interessi umanitari, la protezione dell’ambiente e, laddove viene richiesto, la mediazione nelle dispute.
Il Papa fa uso del sistema diplomatico e delle possibilità di cui dispone non perché è intrinsecamente legato al ministero petrino nel senso che non potrebbe funzionare senza di esso, ma perché è uno strumento utile e prezioso per esercitare il suo ministero nel mondo. La diplomazia pontificia permette al Papa di svolgere la sua missione profetica nel foro internazionale e contribuisce alla difesa della libertà della Chiesa, dei diritti umani e della libertà religiosa in diversi Paesi in tutto il mondo.
A questo proposito, è interessante notare l’attenzione che la comunità internazionale presta a ciò che la Santa Sede potrebbe dire su un determinato argomento. Non che la Santa Sede cerchi di imporre una visione religiosa particolare; un simile tentativo verrebbe in ogni caso respinto dagli altri attori della scena internazionale. Piuttosto, utilizzando gli strumenti della diplomazia di cui dispone e argomentando a partire da principi razionali, la Santa Sede apporta al tavolo un contributo particolare, basato su considerazioni etiche e religiose, che serve ad arricchire il dibattito e portare all’attenzione degli altri partecipanti discernimenti che altrimenti potrebbero passare inosservati o essere ignorati.
4. La situazione dei cristiani in Medio Oriente
A questo punto, vorrei parlare della preoccupazione della Santa Sede per la situazione dei cristiani in Medio Oriente. Per ovvie ragioni, la Santa Sede s’interessa da molto tempo a questa regione, nella quale è nato il cristianesimo e che è la patria della comunità cristiane più antiche. Siamo molto preoccupati per la graduale scomparsa di queste comunità, causata da diversi fattori, tra cui le restrizioni sulla libertà di religione, la mancanza di opportunità sociali ed economiche, la discriminazione e, più di recente, la persecuzione di natura estremamente violenta.
Per queste ragioni, come parte dell’intensa attività diplomatica della Santa Sede e segno della sua preoccupazione, lo scorso mese si sono tenuti in Vaticano due incontri d’alto livello dedicati al Medio Oriente. Dal 2 al 4 ottobre, secondo il desiderio del Santo Padre, i Nunzi Apostolici presso i diversi Paesi della regione, gli Osservatori permanenti presso le Nazioni Unite a New York e a Ginevra e il Nunzio Apostolico presso l’Unione europea si sono incontrati con il Segretario di Stato e altri superiori e officiali dei dicasteri competenti della Curia Romana. Questo incontro ha consentito ai partecipanti di ricevere notizie di prima mano, nonché una visione generale della situazione dei cristiani nei diversi Paesi del Medio Oriente. Successivamente, il 20 ottobre, il Santo Padre ha convocato un incontro del Collegio dei Cardinali e dei Patriarchi per discutere della situazione e spiegare l’approccio della Santa Sede ai diversi e complessi problemi della regione. I vari interventi durante l’incontro si sono concentrati sul bisogno di pace e di riconciliazione in Medio Oriente, la difesa della libertà religiosa, il sostegno alle comunità locali, l’importanza dell’educazione per formare nuove generazioni capaci di impegnarsi nel dialogo e il ruolo della comunità internazionale.
So bene che la Chiesa in Australia ha un appassionato interesse per la Terra Santa e vi ringrazio per il vostro generoso sostegno a favore di quelle comunità cristiane. Per quanto riguarda il conflitto israelo-palestinese, la posizione di lunga data della Santa Sede è che le due parti dovrebbero arrivare a una soluzione negoziata. La Santa Sede si preoccupa dell’accesso ai luoghi sacri, che dovrebbe essere garantito ai seguaci delle tre religioni principali presenti in Terra Santa. Inoltre, per chiarire la situazione legale e finanziaria delle comunità e delle istituzioni cattoliche, la Santa Sede continua a negoziare diversi accordi con le autorità sia israeliane sia palestinesi e mantiene regolarmente contatti bilaterali d’alto livello con entrambe, al fine di affrontare in modo efficace le questioni di mutuo interesse.
Negli ultimi mesi abbiamo assistito all’aggravarsi della situazione in Siria e nel nord dell’Iraq. Grandi fette di territorio sono cadute nelle mani di gruppi terroristici, il cosiddetto “Stato islamico”. Abbassandosi a livelli di barbarie di una ferocia quasi inimmaginabile, questi terroristi hanno cacciato i cristiani e le altre minoranze dalle loro case, li hanno spogliati dei loro beni e hanno venduto donne alla schiavitù, reclutato minori come bambini soldato, eliminato spietatamente quanti si opponevano loro, ricorrendo perfino alla crocifissione e alla decapitazione, e commesso omicidi di massa.
Le sofferenze di queste comunità, all’inizio d’agosto hanno spinto Papa Francesco a scrivere al Segretario Generale delle Nazioni Unite, il signor Ban Ki-moon, lanciando un appello alla comunità internazionale e alle Nazioni Unite affinché prendessero misure urgenti per porre fine alla tragedia umanitaria. Permettetemi di citare una parte di questa lettera: «Gli attacchi violenti che stanno dilagando lungo il nord dell’Iraq non possono non risvegliare le coscienze di tutti gli uomini e le donne di buona volontà ad azioni concrete di solidarietà, per proteggere quanti sono colpiti o minacciati dalla violenza e per assicurare l’assistenza necessaria e urgente alle tante persone sfollate, come anche il loro ritorno sicuro alle loro città e alle loro case. Le tragiche esperienze del ventesimo secolo, e la più elementare comprensione della dignità umana, costringe la comunità internazionale, in particolare attraverso le norme e i meccanismi del diritto internazionale, a fare tutto ciò che le è possibile per fermare e prevenire ulteriori violenze sistematiche contro le minoranze etniche e religiose».
Lo stesso appello è stato ripetuto solo il mese scorso dall’Arcivescovo Bernardito Auza, Osservatore permanente della Santa Sede presso le Nazioni Unite a New York, durante il dibattito aperto del Consiglio di Sicurezza su «La situazione in Medio Oriente, compresa la questione palestinese». In particolare, egli ha chiesto alle Nazioni Unite di rafforzare il quadro giuridico internazionale per l’applicazione multilaterale della responsabilità di proteggere le persone dal genocidio, dai crimini di guerra, dalla pulizia etnica, dai crimini contro l’umanità e contro il diritto umanitario, sottolineando la necessità di dialogo, compreso quello interreligioso e interculturale, al fine di trovare una soluzione pacifica e duratura.
Dato tutto ciò, potreste domandare: la Santa Sede ammette l’intervento militare per risolvere la crisi creata dallo “Stato islamico”? Da un lato, vista la sua natura religiosa, la Santa Sede ha sempre evidenziato il primato della pace e la necessità di trovare soluzioni pacifiche attraverso il dialogo per risolvere le crisi. Proprio di recente Papa Francesco ha dichiarato: «La guerra è una follia». Pertanto, nella misura in cui è possibile, occorre compiere ogni sforzo per evitarla. Dall’altro, a determinate condizioni, la Santa Sede non esclude l’uso della forza per fermare l’aggressore ingiusto e proteggere le comunità perseguitate. Ricordiamo quanto detto dal Santo Padre lo scorso agosto in risposta alla domanda di un giornalista durante il volo di ritorno dalla Corea: «È lecito fermare l’aggressore ingiusto. Sottolineo il verbo: fermare. Non dico bombardare, fare la guerra, ma fermarlo. I mezzi con i quali si possono fermare, dovranno essere valutati. Fermare l’aggressore ingiusto è lecito. Ma dobbiamo anche avere memoria! Quante volte, con questa scusa di fermare l’aggressore ingiusto, le potenze si sono impadronite dei popoli e hanno fatto una vera guerra di conquista! Una sola nazione non può giudicare come si ferma un aggressore ingiusto».
È quindi lecito fermare l’aggressore ingiusto, a condizione che ciò venga fatto in maniera proporzionata e in conformità con il diritto internazionale, e non in modo unilaterale. Per questa ragione devono essere coinvolte le Nazioni Unite e l’intera comunità internazionale, in particolare i diversi Stati della regione mediorientale. È il modo migliore per garantire che le azioni della comunità internazionale abbiano una base legale oggettiva adeguata e per assicurare che il bene comune prevalga sugli interessi unilaterali. Detto ciò, la situazione presente in Siria e in Iraq è una situazione di emergenza che richiede una risposta rapida. In questo caso, il coinvolgimento di Stati a maggioranza musulmana in qualunque azione intrapresa è importante per evitare di creare l’impressione che l’intervento attuale sia una forma poco velata di aggressione occidentale o, peggio ancora, una guerra di religione, impressione che giocherebbe a favore dei fondamentalisti.
Tuttavia, è ovvio che il problema posto dal terrorismo non verrà risolto solo con una risposta militare. Al di là dell’aiuto umanitario urgentemente necessario, è essenziale affrontare le cause profonde che hanno permesso allo “Stato islamico” e ad altri gruppi terroristi di emergere. Deve esserci anche una chiara volontà politica di combattere il terrorismo impedendo il finanziamento illecito e il commercio illegale di armi, tecnologia e altre forniture, che permettono ai terroristi di continuare a combattere. I leader religiosi, sia cristiani sia musulmani, devono fare la loro parte e cooperare nel promuovere dialogo, educazione e comprensione reciproca, come anche condannando lo sfruttamento della religione per giustificare la violenza.
Come potete vedere, la Santa Sede è molto preoccupata per la tragica situazione che si presenta attualmente in Medio Oriente. Non propone soluzioni tecniche, ma è instancabilmente impegnata a suscitare la consapevolezza internazionale e a chiedere alla comunità internazionale di intervenire con urgenza al fine di fermare l’aggressore, fornire aiuto umanitario e affrontare le cause profonde della crisi attuale.
5. Conclusione
Vi ringrazio per questa opportunità che ho avuto di illustrarvi come opera la diplomazia pontificia. La Santa Sede s’impegna nell’attività diplomatica come parte della sua missione principalmente spirituale e come contributo al bene dell’umanità in generale. Così facendo, la Santa Sede può contare non soltanto sul sostegno e sul consiglio del personale della Chiesa cattolica in tutto il mondo — penso in particolare agli episcopati locali come il vostro e alle istituzioni accademiche — ma anche sulla preziosa assistenza di molte persone di buona volontà esterne alla Chiesa, con le quali mantiene un dialogo costante su una grande varietà di questioni, per aiutare a risolvere i numerosi problemi che affliggono il mondo attuale. Di tutto ciò la Santa Sede è profondamente grata.
L'Osservatore Romano