sabato 20 dicembre 2014

I terroristi di Boko Haram che contano sul nostro silenzio



di Pierluigi Battista
Non la smettono più. I terroristi di Boko Haram in Nigeria sequestrano, uccidono, stuprano le ragazzine, costringono alla conversione, massacrano, demoliscono scuole, impongono il loro credo fanatico, portano l’islamismo jihadista all’apice vertiginoso dell’efferatezza. E sanno di farla franca. Sanno che non ci sarà nessun impegno internazionale a fermare le loro stragi. Anche le campagne di opinione mondiali per salvare le donne che stanno torturando non hanno sortito alcun effetto significativo. I carnefici sanno di poter contare sulle dimenticanze del mondo.
Sono passate poche ore dall’eccidio islamista di Peshawar e già il mondo si è voltato da un’altra parte. Non si impegna. Non si mobilita. È impotente. Figurarsi se si fanno condizionare dai generosi appelli via Twitter «#Bring Back our Girls», con Michelle Obama capofila della protesta. Figurarsi se conoscono altro linguaggio che non sia quello militare della dissuasione internazionale. Figurarsi: sanno che nessuno si muoverà, e che la difesa delle persone schiacciate e umiliate, le campagne per i diritti fondamentali calpestati in porzioni immense del mondo, tutto questo è oramai un’arma spuntata, una battaglia spenta.
I violenti, i prevaricatori, gli intolleranti, i guerrieri della sopraffazione sanno che possono averla vinta, perché l’opinione pubblica delle nostre democrazie per prima è stanca, disillusa, impaurita, prigioniera della sua impotenza. Non ci sono le Nazioni Unite, da sempre invischiate nei veti, piene di Paesi che fanno strage dei diritti umani ma che hanno nell’Onu una vetrina, una tribuna per tutti i dittatori e i satrapi che si oppongono a ogni ingerenza umanitaria. Non c’è un Tribunale internazionale: un ente inutile, screditato, colpisce soltanto dittatori deposti, mai quelli al potere, mai quelli che possono fare ancora danni e che sono ancora pericolosi. Non c’è una diplomazia delle cancellerie, perché la ragione economica prevale su ogni altra considerazione. Nessuno interroga più la Cina sui dissidenti tenuti in carcere. Il Dalai Lama oggi passa quasi inosservato e i dirigenti di Pechino non hanno nemmeno bisogno di impaurire i governi occidentali affinché non ricevano chi è il testimone dell’oppressione del Tibet: l’opinione pubblica ha altro a cui pensare. Se c’era qualche perplessità sulla violazione sistematica dei diritti umani nella Russia di Putin l’argomento del realismo politico lo ha affossato. Un tempo il dittatore bielorusso Lukashenko era un motivo di imbarazzo per gli interlocutori democratici, oggi Romano Prodi può andare a incontrarlo con il sorriso senza che qualcuno possa sollevare anche un’ombra di disappunto. Dispiace che Putin abbia sconfinato in Ucraina perché questo costringe l’Europa a uscire dal suo torpore, ma è tutto qui.
E il lugubre Kazakistan che viola i diritti umani? Basta, non serve più a fini di politica interna, e quindi in Italia della dittatura kazaka nessuno parla più. Ma è la delusione attrice delle primavere arabe che oramai ha diffuso nel mondo la certezza che i diritti umani siano solo qualcosa di molesto, un fastidio da lasciare alle organizzazioni umanitarie. Anzi, meglio allearsi con i peggiori macellai della ragione pur di non darla vinta ai fondamentalisti. E dunque con Assad, che ha mietuto decine di migliaia di vittime. E dunque silenzio su Erdogan che fa le retate di giornalisti, perché potrebbe essere un utile alleato. E dunque silenzio sulla repressione a Teheran e su una ragazza condannata solo perché ha assistito a una partita di volley, perché con l’Iran ora bisogna coalizzarsi. E dunque silenzio con il Qatar e con l’Arabia Saudita anche se a Riad un cristiano trovato in possesso di un rosario viene condannato a morte. E in questo silenzio totale, noi abbiamo ancora il tempo di denunciare la vanità delle campagne su Twitter mentre in Nigeria Boko Haram fa strage di «infedeli» e di bambine da violentare?
Sarà pure una moda, una maniera per scaricarsi la coscienza con un gesto che non costa nulla e che anzi fa sentire chi espone un cartello «Bring Back our Girls» al centro della «bontà» internazionale. Sarà pure un modo per non volersi accorgere che le armi per combattere la barbarie del terrore devono essere più efficaci: armi vere, che mettano in fuga i terroristi e i decapitatori seriali. Ma almeno una scintilla di interesse ancora accesa non può far male. Un piccolo antidoto alla narcosi generale sul tema dei diritti umani non può che essere il benvenuto. È poco, pochissimo, ma almeno è qualcosa. E qualcosa che è meglio del silenzio complice, del realismo che camuffa la paura e l’impotenza. Meglio un cinguettio che il cinismo degli ultimi adepti della Real-Politik. Per cui, ancora una volta: «#Bring Back our Girls.
Corriere della Sera