domenica 28 dicembre 2014

Nessun liberatore si fa mai re

 La vicenda di Mosè ci ripete una grande parola: gratuità

di Luigino Bruni
Nessuno conosce il luogo in cui riposa. Per gli uomini della montagna, la sua tomba si trova nella valle; per gli uomini della valle, si trova sulla montagna. È dappertutto e altrove, sempre altrove. Nessuno era presente al momento della sua morte. In un certo senso, egli vive ancora in noi, in ognuno di noi. Perché, finché un figlio di Israele, da qualche parte, proclama la sua Legge e la sua verità, Mosè vive attraverso di lui, in lui, come vive il roveto ardente, che consuma il cuore degli uomini senza consumare la loro fede nell’uomo e nei suoi richiami strazianti
(Elie Wiesel, Personaggi biblici attraverso il Midrash).
Per imparare a rinascere dobbiamo reimparare a morire, lo abbiamo dimenticato. La civiltà dei consumi è prima di ogni altra cosa un gigantesco tentativo di esorcizzare la morte, il limite, la vecchiaia, un’enorme sofisticatissima industria d’intrattenimento perpetuo, che non deve lasciarci tempo e spazio per pensare che un giorno il grande gioco dei consumi finirà, la giostra arriverà al suo ultimo giro. Così cancelliamo l’ultimo giorno dall’orizzonte del nostro capitalismo, e celebriamo culti ai suoi idoli che si nutrono delle nostri merci. Gli idoli promettono esorcismi sbagliati e inefficaci della morte e del dolore. La Genesi e l’Esodo sono grandi, sublimi ed eterni canti alla vita, a tutta la vita, e per questo sono anche grandi insegnamenti sulla morte. Abramo, Isacco, Giacobbe, Giuseppe, ci hanno insegnato a vivere e ci hanno insegnato a morire ‘sazi di giorni’, in ‘una bella canizie’. La morte di Mosè, misteriosa e tutta diversa, è il culmine della sua vita, il senso ultimo delle parole che aveva ascoltato dalla ‘voce’, lo svelamento pieno della sua vocazione, e di quella di chi cerca di rispondere ad una vocazione di liberazione verso una terra promessa.  
Con la costruzione della dimora, resa possibile dalle mani e dalla mente benedette dei lavoratori, termina il libro dell’Esodo, non l’avventura di Mosè, che continua negli altri libri della Torah: “Poi Mosè salì dalle steppe di Moab sul monte Nebo, cima del Pisga, che è di fronte a Gerico. Il Signore gli mostrò tutta la terra: Gàlaad fino a Dan, tutto Nèftali, la terra di Èfraim e di Manasse, tutta la terra di Giuda fino al mare occidentale e il Negheb, il distretto della valle di Gerico, città delle palme, fino a Soar. Il Signore gli disse: «Questa è la terra per la quale io ho giurato ad Abramo, a Isacco e a Giacobbe: «Io la darò alla tua discendenza». Te l'ho fatta vedere con i tuoi occhi, ma tu non vi entrerai!»” (Deuteronomio 34,1-4). Mosè, il liberatore dalla schiavitù, colui che ha rivelato al popolo il nome di Elohim e la sua Legge, il solo uomo che parlava con Dio ‘bocca a bocca’ (Numeri 12,8), muore fuori dalla terra promessa. YHWH gliela mostra da lontano, ma non potrà raggiungerla: “Tu non attraverserai questo Giordano” (Deut 3, 28).
I Patriarchi della Genesi erano morti diversamente, circondati da mogli, figli, figlie, nipoti, dalle tante ‘stelle’ promesse il giorno della chiamata. Muoiono a casa, molti di loro sepolti nella stessa grotta di Macpelàh (Genesi 23), che fu l’unico lembo di terra promessa posseduto da Abramo. Mosè muore da solo, senza nessuno che lo accompagni nell’ultimo viaggio, senza la consolazione degli affetti. Muore come aveva vissuto, dentro quel dialogo solitario e continuo con la voce, che lo aveva chiamato dal roveto quando pascolava, da solo, il gregge di suo suocero Ietro sull’Oreb, e che poi gli aveva parlato ancora sul monte, nella tenda del convegno, in solitudine. Non sappiamo se in quell’ultimo viaggio sul monte Nebo la voce continuò a parlagli, se lo accompagnò o se si ritirò come è accaduto a molti profeti che sono morti nel silenzio della voce. Possiamo immaginarlo in compagnia del suo Dio se torniamo alle espressioni del libro dell’Esodo che ci suggeriscono un rapporto di vera intimità tra Mosè e YHWH: “amico di Dio” (Esodo 33,11), “hai trovato grazia ai miei occhi”, “ti ho conosciuto per nome” (33,17). Per la tradizione midrashica mentre Mosè esala l’ultimo respiro YHWH lo bacia sulla bocca, continuando fino alla fine quel dialogo ‘bocca a bocca’ misterioso e unico.
In questa morte misteriosa e dolorosa si rivela in tutta la sua forza e pienezza la natura della vocazione di Mosè, ma anche di ogni fondatore di comunità e di movimenti carismatici, di grandi opere spirituali. Tutti i profeti muoiono fuori dalla terra promessa, perché la promessa non era per loro ma per il ‘popolo’ liberato. Mosè è il liberatore dalla schiavitù e la guida attraverso il deserto, non è il sovrano del nuovo regno di Canaan. I profeti sono i compagni negli esodi, negli attraversamenti dei deserti, sono gli abitanti della tenda mobile dell’arameo errante. Il loro compito è portarci via dalla schiavitù, proteggerci dagli idoli, farci riconciliare e ricominciare dopo i tradimenti collettivi, portarci fin sulla soglia della nuova terra, farcela vedere. Senza oltrepassarla. La loro terra è quella che sta tra i campi di lavoro e Canaan, tra il Nilo e il Giordano. Sono gli uomini e le donne del guado notturno del fiume della liberazione, del passaggio, della soglia. Così, dopo i libri del Pentateuco, Mosè scompare quasi del tutto dalla Bibbia. Non lo troviamo nelle genealogie di Gesù, nella liturgia della Pasqua ebraica, è quasi assente nei Profeti, nei libri storici, nei Salmi. Mosè fu troppo grande, e Israele sentì il bisogno di proteggersi dalla sua grandezza. Un bisogno che la Bibbia non sentì per altri grandi protagonisti della salvezza (da Abramo a Davide). Ma Mosè era troppo grande, il più grande di tutti; fu necessario ‘farlo morire’ e quasi cancellarlo dalla memoria dopo la liberazione. Mosè è il profeta che muore per ordine di Dio, per suo comando scompare dalla scena, quando ancora “gli occhi non gli si erano spenti e il vigore non gli era venuto meno” (Deut 34,7). Non muore di vecchiaia, muore perché il suo compito è finito, per fare spazio a Giosuè, su cui Mosè aveva ‘imposto le mani’ (34,9).
C’è un momento preciso in cui il profeta deve ‘morire’, deve mettersi da parte, cancellarsi ed essere cancellato, se non vuole diventare un idolo e prendere il posto della voce (è questo il grande rischio di ogni profeta). È questo l’ultimo grande decisivo atto che dice definitivamente che le parole che il profeta ha ascoltato e trasmesso al popolo non erano parole della sua voce, ma che parlava al posto di un altro (pro-phetés), che le sue parole erano grandi perché non sue.
Tutti i fondatori muoiono prima del Giordano, e se lo oltrepassano diventando i re della nuova terra promessa, o la terra non è quella della promessa o sono falsi profeti. La terra raggiunta è quella della promessa se il profeta non la raggiunge. E non per una strana punizione di Dio (Mosè era stato sempre giusto), ma per la natura intima della vocazione. Qui Mosè va oltre Noè che salì anch’egli nell’arca che aveva costruito. Mosè costruisce un’arca che non è per lui, e per questo è il profeta più grande di tutti: “Non è più sorto in Israele un profeta come Mosè, che il Signore conosceva faccia a faccia” (Deut 34,10).
In questa morte di Mosè troviamo anche un paradigma della fede biblica. Dio non si vede, non lo si può rappresentare. È una voce che ci arriva attraverso la voce dei profeti. Il confine però tra la voce che parla al profeta e la voce del profeta diventa col tempo sempre più sfumato, sottile, quasi scompare, e per il popolo finiscono per diventare una sola voce. Il profeta si distingue dal falso profeta perché un giorno sa mettersi da parte, scomparire, cancellarsi, e così dire: ‘io non sono Elohim per voi’. Se Mosè fu il più grande di tutti, allora la fede biblica non è possesso. La fede è saper abitare lo ‘scarto’ tra la promessa e la fine del deserto, saper restare nel guado senza farsi travolgere dalla corrente del fiume. È questo scarto che consente alla fede di non diventare idolatria, adorazione degli idoli, degli altri, di se stessi.
Nella morte di Mosè c’è, infine, anche un meraviglioso insegnamento sulla condizione umana. Nessuna terra promessa è raggiunta, perché la vita è cammino, pellegrinaggio, esodo. C’è il momento – quasi sempre prima dell’ultimo giro di giostra - in cui ci accorgiamo che le promesse della vita non si sono compiute. Anche quando la vita è stata stupenda, anche quando abbiamo visto Dio ‘faccia a faccia’, i roveti ardere, la manna scendere dal cielo, la nube posarsi sulla nostra tenda, sentiamo che la promessa era un’altra, quella oltre il Giordano. La storia e la morte di Mosè ci dicono però che lo scarto tra la terra promessa e la terra raggiunta non è fallimento: è semplicemente la vita, è la nostra buona condizione umana. Quel guado non compiuto del fiume dice a tutti, incluso Israele, che la vera promessa non è una terra ferma ma un cammino nomade attraverso un deserto, dietro ad una voce; per scoprire, alla fine, che la terra promessa era proprio il deserto che si stava attraversando, perché è lì che si è svolta la nostra storia d’amore (Osea). Lì abbiamo visto scendere la colonna di fuoco, lì abbiamo ascoltato la voce e ricevute le sue parole, lì abbiamo liberato schiavi e li abbiamo protetti dagli idoli, lì abbiamo visto per il nostro popolo la terra promessa, lì abbiamo parlato con Dio ‘bocca a bocca’.
Allora la conclusione della vita di Mosè ci ripete, ancora una volta e definitivamente, la parola che ci hanno accompagnato durante tutta la meditazione del libro dell’Esodo: gratuità. La più grande gratuità che il profeta vive è il distacco dalla terra promessa, poterla e doverla vedere senza raggiungerla. Perché il prezzo della gratuità del profeta è tener vivo per tutti lo scarto tra ogni terra e ogni promessa. È nello scarto che si accende la vita, è lì dove si alimentano i desideri e i sogni grandi (il grande inganno del nostro tempo è spegnere con le merci i desideri dei bambini). È questo scarto che ci ricorda che ogni terra promessa è per la ‘nostra discendenza’, non è per noi. Il mondo vivrà finché continueremo a liberare qualcuno dalla schiavitù, e finché cammineremo verso una terra promessa da donare ai figli e ai nipoti, ai giovani di oggi e di domani. La felicità più importante non è la nostra, ma quella dei figli di tutti.
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Abbiamo iniziato il nostro viaggio con le levatrici d’Egitto, con quelle mani di donna amanti della vita che hanno salvato i bambini e Mosè, che disobbedendo al faraone hanno iniziato la liberazione dalla schiavitù. Ora lo terminiamo in tempo di Natale, con un altro bambino, un’altra donna, un’altra esultanza per un’altra vita che nasce e salva.
Un profondo grazie a chi mi ha seguito, con impegno e non senza difficoltà, in questo ‘anno biblico’, in cerca di parole più grandi per ricominciare. Alcune le abbiamo trovate, e nelle prossime domeniche le useremo per tornare a leggere la nostra situazione economica, morale e civile, che ha sempre più bisogno di essere guardata e amata da altre parole. Altre le continueremo a cercare continuando (tra qualche settimana) il cammino biblico, in compagnia prima di Giobbe e poi dei profeti e delle loro parole, che sono sempre diverse e più vere delle nostre.