martedì 30 dicembre 2014

Theologiae moralis rudimenta

teologia

Da Fabrizio Cannone
Sulle eccezioni alla norma morale positiva. Padre Dragone: “I figli devono obbedire in tutto ai genitori,eccetto quando comandano il male”(p. 296-297, neretto mio); “Dio è padrone della vita. Non è quindi lecito uccidere, eccetto in tre casi: In guerra (…); Per legittima difesa (…); Dall’autorità competente” (p. 300, neretto mio). Dire “eccetto” vuole dire che si danno eccezioni. Proprio come insegna lo Jone: “La cooperazione nell’approvazione di una legge cattiva
è peccato. Si fa eccezione soltanto quando i deputati, con la loro cooperazione, possono impedire qualche male peggiore” (p. 155, n. 295, neretto mio).
Sul cosiddetto “volontario indiretto”. Jone: “Fare un’azione dalla quale segue un effetto cattivo, è lecito solo quando si avverano tutte quante le seguenti quattro condizioni: a) L’azione stessa che si compie deve essere in sé buona o almeno moralmente indifferente. b) Almeno altrettanto simultaneamente deve derivare dall’azione anche un e
ffetto buono (…). c) L’intenzione deve essere indirizzata solo verso l’effetto buono [precisazione importante: l’intenzione determina la moralità dell’azione a doppio effetto. Se essa è buona l’azione è lecita, se cattiva l’azione è illecita] (…). d) Deve esservi un motivo sufficiente per permettere l’effetto cattivo” (p. 6, n. 14). E il grande teologo fa questo esempio: “Per questa ragione, non è lecito ad una donna ricorrere a pratiche abortive per sottrarsi al disonore; mentre le sarà permesso, in caso di malattia, prendere medicine anche se queste, occasionalmente, le causassero l’aborto” (p. 6, n. 14).
Sul duplice effetto. “Nulla impedisce che un atto abbia due effetti, di cui uno è intenzionale e l’altro è involontario. Gli atti morali però ricevono la specie da ciò che è intenzionale, non da ciò che è involontario, essendo questo un elemento accidentale” (ST, II-II, q. 64, a. 7).
Sui principi della moralità (oggetto, circostanze, fine). “L’intemperanza nel mangiare per sé è solo peccato veniale” (Jone, p. 68, n. 111). “L’ubriachezza o ebrietà fino alla perdita parziale dell’uso di ragione è peccato soltanto leggero” (p. 68, n. 111). “L’ubriachezza fino alla perdita totale dell’uso di ragione è peccato grave, se è causata senza un motivo sufficiente” (p. 68, n. 111, corsivo mio).  “Un motivo sufficiente per privarsi provvisoriamente dell’uso di ragione è per es. quello di curarsi da un male grave” (ibid.). “Gravemente peccaminoso è pure l’ubriacare totalmente un altro; però anche qui si danno cause scusanti; per es. se con ciò si potesse impedire all’altro di commettere un peccato grave” (ibid.). Ubriacare un altro è peccato grave. Eccezione: se lo si fa con l’intenzione di impedirgli di compiere un peccato grave, non è più peccato. Ancora: “Prendere narcotici in grandi dosi, così che si perda l’uso di ragione, per sé è peccato grave. Tuttavia può essere lecito per un motivo proporzionatamente grave” (p. 69, n. 111, corsivo mio). E’ peccato in teoria o facendo astrazione delle circostanze, ma in certi contesti non lo è più… Ad esempio, “nel caso di operazioni chirurgiche, affinché il malato non senta i gravi dolori” (ibid.). Ancora: “Lo stordire un moribondo con simili mezzi, nell’intento di procurargli una morte senza dolori, in generale è illecito (eutanasia)” (p. 69, n. 111). “E’ però lecito tale procedimento con un ammalato già ben preparato alla morte, quando v’è pericolo che egli altrimenti cada di nuovo in peccato” (pp. 69-70, n. 111). Ciò che “in generale è illecito”, può divenire lecito in certe circostanze…
Secondo s. Tommaso, “in morale, come si è detto, il fine determina la specie” (ST, II-II, q. 43, a. 3). “Dire quindi che i peccati differiscono specificamente secondo il fine è come dire che differiscono secondo l’oggetto” (ST, I-II, q. 72, a. 1). “La specie dell’atto umano viene determinata formalmente in base al fine e materialmente in base all’oggetto esterno” (ST, I-II, q. 18, a. 6). “Le azioni umane  (…) desumono la loro bontà dal fine a cui tendono, oltre che dalla bontà intrinseca di esse” (ST, I-II, q. 18, a. 4).
Se ciò che è male possa, per un fine buono, diventare lecito. San Tommaso parlando della liceità dell’omicidio del peccatore (ST II-II, q. 64, a. 3) scrive nelle obiezioni che si pone contro la sua tesi: “Ciò che è in se stesso un male non può, per un fine buono, diventare lecito, come insegnano Agostino e Aristotele. Ma uccidere un uomo è in se stesso un male: poiché siamo tenuti ad amare con la carità tutti gli uomini (…). Perciò in nessun modo è lecito uccidere un peccatore”. Ma questa è la terza obiezione che si pone, non è la verità. A questa obiezione infatti risponde così: “Quindi, sebbene uccidere un uomo che rispetta la propria dignità sia una cosa essenzialmente peccaminosa, tuttavia uccidere un uomo che pecca può essere un bene, come uccidere una bestia” (ad 3). Quindi s. Tommaso distingue il termine dell’atto e le circostanze, e ciò che vale in generale (uccidere un uomo è illecito), non è più valido in concreto (uccidere un uomo peccatore può essere lecito). Stesso ragionamento svolge per il furto, di norma illecito ma che diviene lecito, in caso di grave necessità (cf. II-II, q. 66, a. 7). L’obiezione che Tommaso qui si pone afferma: “ciò che è male in se stesso [come il furto] non può divenire bene per un fine onesto [non morire di fame]”. Ma risponde, contro un’interpretazione materiale e univocista dell’assioma, che “tale necessità [estrema] rende nostro ciò che prendiamo per sostentare la nostra vita” (ad 2). Dunque, ciò che è de jure vietato come il furto, diventa legittimo “quando una persona versa in un pericolo tale da non poter essere soccorsa diversamente”.
Sull’importanza delle circostanze. “I peccati, dal punto di vista materiale, ossia della loro entità positiva, si distinguono per specie a seconda degli oggetti formali e delle circostanze che, in quanto hanno ragione di oggetto formale, variano la specie. Dal punto di vista formale, si distinguono prossimamente a seconda delle forme opposte, in quanto privano della rettitudine della virtù; si distinguono remotamente e fondamentalmente, a seconda degli oggetti” (S. Alfonso, Theologia moralis, vol. 2, pp. 731-732, sottolineatura mia).
Sull’intenzione come elemento decisivo della moralità dell’atto. “Colui, per es., che dalla nave getta in mare della merce per scampare la vita, non intende il gettito della merce, ma la propria salvezza: il gettito della merce non lo vuole in senso assoluto, bensì a motivo della salvezza” (SCG, 3, VI, 2).
Sulla coscienza perplessa. “La coscienza perplessa si ha allorché uno, posto fra due obbligazioni, crede di peccare in ogni caso, sia che si risolva per una parte sia che scelga l’altra” (Jone, p. 48, n. 86). Difficile trovare un esempio. Ammettiamo che io sappia in coscienza di dover andare a messa, altrimenti cadrei in peccato per la violazione di una legge ecclesiastica (cf. CDC, can. 1247). Ma sappia anche che, nell’unica messa celebrata nell’unica chiesa del mio paese ci sia un Tizio che mi ha minacciato di morte, dicendomi il giorno prima: “Se domani ti incontro in chiesa ti uccido, quant’è vero Iddio!”. Io, da un lato vorrei andare a messa, da buon cristiano. Ma temo che andandoci venga ucciso, facendo altresì compiere (in quanto causa materiale) un peccato mortale a Tizio. Esempio difficile e raro, ma non impossibile. Dato che tra andare a messa (rischiando la morte mia e il peccato altrui) e il non andarci (peccato mio, almeno in teoria) non c’è altra possibilità, che fare? Ebbene, “In caso di coscienza perplessa, bisogna fare ciò che ad uno sembra minor peccato. Se due azioni si ritengono entrambe egualmente peccaminose, si può scegliere ciò che si vuole” (Jone, p. 50, n. 90, corsivo mio). Il peccato è un male, e dire minor peccato equivale a dire male minore.
Sul male: ente o no? “Il male non è un ente” (SCG, 3, X, 2). “Il male e la privazione si dicono enti, in quanto una cosa viene ad essere priva mediante la privazione” (SCG, 3, IX, 6). In un certo senso lo è, e in un certo senso (assai più abituale e comune in Tommaso) non lo è…
Sull’epikeia. “L’epikeja è l’eccezione di un caso a causa delle circostanze dalle quali certamente, o almeno probabilmente, si giudica che il legislatore non avesse voluto comprendere quel caso sotto la legge. Questa epikeia ha luogo non solo nelle leggi umane, ma anche in quelle naturali, quando l’azione può essere spogliata dalla malizia a causa delle circostanze” (S. Alfonso, Theologia moralis, vol. 1, p. 182). Le circostanze quindi possono spogliare della malizia un’azione, che altrimenti sarebbe cattiva…
Sulle componenti del peccato. “[Il peccato] Richiede quindi: a) una azione o un comportamento inconciliabile con l’ordine morale, o un modo di agire ad esso irriducibile, b) posto con piena avvertenza della mente e c) pieno consenso della volontà” (Enciclopedia Cattolica, vol. IX, col. 1019). L’EC distingue tra peccati mortali e veniali. E tra peccati ex toto genere suo e ex genere suo. I primi sono quelli “il cui oggetto include sempre una violazione sostanziale dell’ordine morale” (col. 1020). I secondi sono quelli “che solitamente costituiscono una violazione dell’ordine morale, però ammettono anche delle eccezioni” (neretti miei). Aggiunge l’EC che “Non è sempre facile stabilire se una determinata materia è sempre gravemente lesiva dell’ordine morale o no”. Questo spiega “le divergenze numerose tra i diversi autori” (col. 1020), divergenze ignorate dai tuzioristi. Il peccato è altresì un atto contro la propria coscienza, che è la “norma immediata di condotta” (col. 1021). “Sennonché la coscienza può anche essere difforme dalla norma oggettiva di condotta (fine, volontà divina). In tal caso abbiamo un atto che è buono, perché conforme alla norma soggettiva, e cattivo, perché difforme dalla norma oggettiva. I teologi dicono che si ha un atto formalmente buono, ma materialmente cattivo” (col. 1021). Un atto quindi può anche essere contemporaneamente cattivo e buono, ma in rapporto a considerazioni diverse. Infatti, “ogni azione tanto ha di bontà quanto possiede di entità; e per quanto l’azione umana manca di pienezza entitativa […] altrettanto manca di bontà, e viene detta cattiva” (I-II, q. 18, a. 1). E secondo l’EC è meglio seguire la propria coscienza (erronea), che la legge positiva (giusta), disobbedendo alla coscienza… (Ma questo i giansenisti di tutti i tempi non lo ammetteranno mai). Infatti, come nota con finezza l’EC, “chi non segue la propria coscienza [erronea], anche se oggettivamente agisce in conformità dell’ordine morale, finirà per staccarsi anche dall’ordine oggettivo” (col. 1021). Parlando della dilettazione morosa, che è il “volontario compiacimento della libera volontà di un’azione o cosa cattiva che il soggetto crea con la propria immaginazione” (col. 1022), si fanno delle notazioni interessanti. Il compiacimento comporta il peccato della stessa specie dell’azione rappresentata. Ma a volte, il “compiacimento può volgersi alla cognizione dell’oggetto peccaminoso; tale compiacimento non solo può essere lecito, ma anche talvolta obbligatorio. Così ad esempio al medico o al confessore, per il retto esercizio del proprio ufficio, sono necessarie cognizioni intorno alle opere cattive: devono perciò studiarle; ed un compiacimento di questa cognizione, non sarebbe peccato” (col. 1022). Simile il caso del “gaudio peccaminoso”, che è un “compiacimento intellettuale, deliberato di un’azione cattiva già compiuta, o dallo stesso soggetto o da altri” (col. 1023). Però, “Ci si può rallegrare (…) di un effetto buono, derivato da un’opera cattiva: l’effetto buono, preso a sé, non contiene alcun disordine. Così è lecito rallegrarsi di un’eredità che provenga da morte violenta: il compiacimento riguarda i beni e non la morte” (col. 1023). Sebbene, l’eredità sia conseguenza della morte. Infine, riguardo al “desiderio cattivo”, l’EC si chiede “se è lecito desiderare un male fisico, anche la morte, ad alcuno per un fine buono [desiderare un male a qualcuno di norma è peccato…], ad es., ad un figlio discolo perché si elimini una vita scandalosa, che in nessun altro modo si è riusciti a togliere. Assolutamente e teoricamente parlando, si risponde che sarebbe lecito; perché non si desidererebbe il male temporale [la morte], ma il bene spirituale [ovvero la cessazione dello scandalo] che è di ordine superiore” (col. 1023). Desiderare la morte altrui è peccato grave, ma desiderarla con una santa intenzione non lo è più. Ma questi distinguo sembrano fuorvianti ad alcuni.
Sull’esistenza del caso. “Ciò che deriva dall’agire di un agente senza la sua intenzione, si dice che avviene per caso” (SCG, libro III, cap. 3, 8). “(…) casuali o fortuite non sono le cose che capitano sempre o di frequente, bensì quelle che capitano di rado” (SCG, III, c. 3, 8). L’intero capitolo 74 della SCG è dedicato ad un principio basilare della teologia tomista: “La divina provvidenza non esclude la fortuna e il caso”.
Sulla natura della teologia morale. “Theologia Moralis definitur: Scientia, quae ex principiis divinitus revelatis, atque ab Ecclesia explicatis certas deducit conclusiones de rebus agendis, vel fugiendis, ut homo ultimum finem consequatur (…). Ex qua definitione unicuique patet, quondam sit principium materiale, et quondam formale Theologiae Moralis. Principium materiale sunt sacra Scriptura, et traditio; principium vero formale est vivum Ecclesiae magisterium” (Mons. Tommaso Bellacosa, Theologiae Moralis rudimenta, Neapoli, 1891, p. 7, corsivo mio).
Consigliare un male? “Consigliare un peccato minore [peccato minore = male minore] di quello che l’altro vuol commettere, in genere è lecito, se altrimenti l’altro non può essere trattenuto in modo alcuno da un peccato grave” (Jone, p. 102, n. 146).
Sul male minore. “Un artefice sapiente produce un male minore per evitarne uno maggiore: come il medico taglia un membro perché l’intero corpo non perisca” (ST I, q. 48, art. 6).

Bibliografia consultata e citata:
Catechismo della Chiesa cattolica, 1997
Codice di diritto canonico e leggi complementari, Coletti editore, 2004
S. Tommaso, Summa Theologiae e Summa contra Gentiles
S. Alfonso, Theologia moralis
E. Jone, Compendio di teologia morale, Marietti, 1955
Enciclopedia Cattolica, Sansoni, Firenze, 1949-1954
Parente, Piolanti, Garofalo, Dizionario di teologia dogmatica, Roma, 1952
L. Ott, Compendio di teologia dogmatica, 1964
A. Tanquerey, Synopsis theologiae moralis et pastoralis, 1906-1907 (3 voll.)
T. Bellacosa, Theologia moralis rudimenta, Neapoli, 1898
C.T. Dragone, Spiegazione del Catechismo di san Pio X, Verrua Savoia, 2009