venerdì 30 gennaio 2015

Il codino dei samurai




Isolazionismo e apertura all’occidente nella storia del Giappone. 

(Cristian Martini Grimaldi) «Ecco, è laggiù che il commodoro Perry è arrivato con le sue navi» dice Yuko, la mia interprete giapponese, indicando un punto non molto distante della baia di Yokohama dove una volta c’era il mare e oggi sorgono decine di palazzi che ormai nascondono alla vista anche il più piccolo scorcio di costa.
Era il 1853 quando il commodoro Mattew Perry guidò una spedizione di quattro navi da guerra nella baia di Edo (antica Tokyo), per stabilire un rapporto commerciale tra gli Stati Uniti e il Giappone. In questo modo mirava a favorire l’apertura del Paese che fino a quel momento aveva optato per un rigido isolazionismo, il cosiddetto periodo sakoku (Paese incatenato).
Sei anni dopo l’arrivo del commodoro americano il porto di Yokohama si apriva finalmente alle potenze straniere attraverso il trattato di amicizia e commercio. Da qui partivano seta e tè verde e arrivavano carichi con strumenti di tecnologia occidentale. Fu a Yokohama che per la prima volta i giapponesi vennero introdotti alla birra, alle lampade a olio, e perfino al gelato. Il calendario lunare venne rimpiazzato da quello solare, il vecchio regime scolastico elementare, che risaliva al periodo Edo e che prevedeva un solo insegnante per classe, venne aggiornato: c’erano dunque più insegnanti e più materie.
E le poste, prima affidate a singoli corrieri, vennero rivoluzionate con la realizzazione di un moderno apparato. Il vecchio codino dei samurai, simbolo stesso del loro status sociale, lasciava spazio a una nuova, meno severa, acconciatura: sciolti e liberi di muoversi ora i capelli riflettevano gli stessi ideali che stavano rivoluzionando il Paese.
Ma non tutti in Giappone salutarono con entusiasmo il cambiamento. Per di più la Tōkaidō road, utilizzata dai daimyo (funzionari militari) di tutto il Giappone per le regolari visite alla capitale al fine di rendere omaggio allo shogun di turno, passava proprio per il territorio di Kanagawa, ora assegnato agli stranieri (ancora oggi la linea di metropolitana che connette Yokohama con Tokyo mantiene il vecchio nome Tōkaidō Line).
La via Tokaido, una sorta di Appia antica del Giappone pre-moderno, era attraversata da mercanti e viaggiatori che si spostavano tra Kyoto, Osaka e Edo: era costruita così bene che nel Seicento, un viaggiatore inglese, nell’attraversarla, scrisse elogiando la splendida qualità della superficie piatta, fatta di sabbia e ciottoli. La grande «autostrada» era suddivisa in leghe attraverso l’utilizzo di alberi: questo per permettere a coloro che affittavano un cavallo di poter facilmente calcolare la percorrenza e non essere quindi ingannati sul prezzo.
Fu proprio per mantenere il più lontano possibile il quartiere straniero da questa importante arteria nazionale che lo shogunato prese a incentivare la costruzione di case, magazzini e negozi a ridosso della costa, lasciando infine agli occidentali quella striscia di terra lungo il mare che oggi è il quartiere di Kannai a Yokohama. E con l’arrivo degli stranieri si diffuse anche un nuovo, meno sobrio, stile di vita. Non è un caso che il vescovo anglicano di Hong Kong dichiarò proprio in quegli anni che Yokohama era «un porto deplorabile e di vita dissoluta».
La stessa popolazione locale guardava con sospetto a questa presenza «esotica», la cui cultura, per molti versi ancora indecifrabile, veniva vissuta più come una minaccia alla “purezza” nazionale che come un’opportunità per acquisire nuove conoscenze. L’assassinio di stranieri per mano di ronin, samurai «orfani di padrone», cominciò solo un mese dopo l’apertura del porto di Yokohama. Le prime vittime, due marinai russi, erano scesi dalla loro nave per fare rifornimenti. Vennero attaccati alle spalle da un gruppo di samurai furiosi che non si accontentarono di uccidere: i marinai vennero trovati con il cranio tagliato in due sino al naso e con gli arti mozzati. La frustrazione dovuta alla presenza straniera non si manifestava solo nelle fazioni xenofobe di samurai ma era condivisa dalle stesse autorità giapponesi che firmarono gli accordi di commercio solo perché costretti da una manifesta inferiorità sul piano militare. Non mancarono comunque le scuse ufficiali rivolte ai consolati esteri per le decine di omicidi di stranieri, incluso l’interprete olandese di Townsend Harris, colui che firmò per gli Stati Uniti il trattato di amicizia e commercio: ciononostante il Governo giapponese non si impegnò mai veramente nella ricerca degli assassini, che infatti non furono mai arrestati.
La situazione a Yokohama era degenerata al punto che nel 1863 Francia e Inghilterra si videro costrette a mandare in terreno nipponico propri eserciti per difendere i residenti. A dispetto del nome dato agli accordi tra il Giappone e le potenze straniere — trattato di amicizia — la qualità dei rapporti tra occidente e Sol Levante era lontana dal riflettere l’ottimistico linguaggio diplomatico: le leggi anti-cristiane erano ancora in vigore in molte città giapponesi — Yokohama inclusa — e ben evidenti erano le insegne che offrivano ricompense a chi avesse denunciato i fedeli al culto straniero.
Era questa l’atmosfera che accolse padre Girard al suo arrivo a Edo nel 1859. Giunto ufficialmente quale interprete del consolato francese solo quando si trasferì a Yokohama, ospitato da una famiglia cattolica, prese a indossare la tunica. Immediatamente costruì una chiesa all’interno del quartiere straniero con una grande insegna inkanji (i caratteri giapponesi) con la scritta tenshudo (il tempio del signore del cielo). La chiesa doveva fungere da richiamo per tutti quei cristiani giapponesi che durante le persecuzioni avevano vissuto la loro fede in clandestinità: era insomma un invito a venire allo scoperto. Fu la prima chiesa a riaprire in Giappone dopo l’entrata in vigore dell’editto che proibiva la pratica della religione cristiana più di due secoli prima. Pare che tra fedeli e curiosi almeno diecimila persone al mese passavano a visitare il luogo di culto appena inaugurato. La chiesa oggi non c’è più ma il luogo originario dove sorgeva è ricordato da una statua raffigurante Cristo, posta a ridosso dell’uscita della metropolitana Motomachi Chukagai, a due passi dal grande arco che segna l’ingresso a Chinatown. La statua venne eretta nel 1962, esattamente cento anni dopo la costruzione di quella prima chiesa.

L'Osservatore Romano