giovedì 29 gennaio 2015

L’unità? Non lasciamola ai dittatori



A colloquio con il cardinale Koch. 

(Nicola Gori) C’è l’incontro, c’è la preghiera, c’è la sofferenza. Manca ancora il consenso. Così il cardinale Kurt Koch, presidente del Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani, fotografa lo stato di salute dell’ecumenismo. In questa intervista al nostro giornale, a conclusione della settimana di preghiera per l’unità, il porporato sottolinea i progressi dell’ecumenismo della carità, dell’ecumenismo spirituale e dell’ecumenismo della sofferenza, ricordando quanto ancora c’è da fare nel campo del dialogo teologico.
Papa Francesco ha più volte ribadito che l’unità dei cristiani dev’essere «una priorità» per la Chiesa. Come rispondete a questo invito?
Questa è l’indicazione del Vaticano II ed è la convinzione di tutti i Papi del dopo concilio, in particolare di Giovanni Paolo II, di Benedetto XVI e ora di Francesco. Il quale conferma che ancora oggi, a distanza di cinquanta anni dal decreto conciliare Unitatis redintegratio, l’ecumenismo è di prioritaria importanza per la Chiesa. Da parte nostra, continueremo a portare avanti i quindici diversi dialoghi aperti per ritrovare l’unità con tutte le Chiese e comunità ecclesiali.
Il Pontefice ricorda spesso che il dialogo non può prescindere dall’incontro personale. Quanto incide questa dimensione nella vostra attività?
Nel movimento ecumenico si fa distinzione tra l’ecumenismo della carità e quello della verità. Quest’ultimo rappresenta il dialogo teologico necessario per approfondire tutte le questioni che hanno diviso le Chiese e serve per ritrovare un consenso sulle verità della fede. Il dialogo fraterno basato sulla carità è la ricerca della vicinanza di tutte le realtà ecclesiali ed è il fondamento di tutto l’ecumenismo. Senza questo dialogo della carità non possiamo fare un dialogo sulla verità. 
In che modo l’«Unitatis redintegratio» continua oggi a ispirare l’impegno ecumenico della Chiesa?
Dobbiamo considerare due cose. In questi cinquanta anni abbiamo intessuto una grande rete di rapporti personali amichevoli con tutte le Chiese e comunità ecclesiali, ma non abbiamo ancora raggiunto la meta dell’ecumenismo, l’unità di tutti i cristiani. Oggi è molto importante riflettere sulla meta dell’ecumenismo, perché dopo cinquanta anni ci ritroviamo con un grande problema: la mancanza di consenso. Ci sono diverse opinioni. La Chiesa cattolica e quella ortodossa sono convinte che l’unità deve essere un’unità visibile nella fede, nei sacramenti e nei ministeri. Ma non poche delle comunità ecclesiali nate dalla riforma non condividono questo scopo. Hanno un’altra meta, un’altra visione, cioè il riconoscimento mutuo di tutte le realtà ecclesiali: la somma di tutte queste espressioni è l’unica Chiesa. Questa visione non coincide con quella del cattolicesimo e nemmeno dell’ortodossia. Dobbiamo perciò ritrovare un nuovo consenso sulla meta da raggiungere.
C’è un cambiamento nell’atteggiamento dei cattolici nei confronti degli altri cristiani, e viceversa?
Nella quotidianità c’è stato un grande cambiamento, perché l’ecumenismo non è più un’idea astratta ma un fatto riconosciuto da tutto il mondo cristiano. Vedo molti buoni passi compiuti nelle parrocchie e a livello regionale in diversi Paesi. Sono tornato da poco dalla Polonia, un Paese molto cattolico, dove ho visto un grande impegno ecumenico. C’è uno sforzo per ritrovare l’unità tra cattolici, ortodossi e protestanti. 
Che contributo hanno dato in questo senso le traduzioni ecumeniche della Sacra Scrittura?
La Bibbia è il fondamento di tutte le Chiese. È un bene che possiamo avere traduzioni comuni della sacra Scrittura. È un grande contributo per l’unità, perché questa va ritrovata nelle fondamenta della parola di Dio. Nonostante i grandi sforzi del passato, dispiace che in alcuni Paesi, come la Germania, non sia più possibile fare la traduzione comune. 
Qual è oggi il ruolo dell’ecumenismo spirituale? 
Il decreto conciliare afferma che l’ecumenismo spirituale è l’anima di tutto il movimento. Senza la spiritualità, infatti, non possiamo avere una buona intesa. La preghiera per l’unità è stata proprio la sorgente da cui è scaturito il movimento. La settimana di preghiera per l’unità, che abbiamo appena concluso, è nata infatti come iniziativa ecumenica soprattutto degli anglicani e degli episcopaliani negli Stati Uniti d’America. È stata poi accolta da Benedetto XV, che l’ha introdotta in tutta la Chiesa cattolica. Pertanto l’aspetto spirituale non può essere qualcosa da lasciare alle spalle, ma deve continuare e accompagnare tutti gli sforzi. È solo con la preghiera che diventiamo consapevoli della nostra impotenza davanti alla meta da raggiungere: non possiamo programmare la data dell’unità, perché è un dono dello Spirito Santo. La preghiera diventa così il fondamento di tutto l’ecumenismo. 
Cristiani di diverse appartenenze sono vittime di persecuzioni in molte parti del mondo. Questo «ecumenismo della sofferenza», come l’ha definito Papa Francesco, può aiutare nel dialogo? 
Questo è l’ecumenismo dei martiri, di cui parla Giovanni Paolo II nella sua enciclica Ut unum sint. Ricordo quando, durante una delle sue visite in Germania, Papa Wojtyła ricordò di aver sperimentato la dittatura nazista e comunista e di aver constatato come i dittatori non facciano distinzione tra protestanti, cattolici e ortodossi. Anche io sono persuaso che questa realtà dell’ecumenismo dei martiri è il fondamento di tutti gli sforzi verso l’unità. Papa Francesco si inserisce in questa prospettiva e parla di ecumenismo della sofferenza: i cristiani sono perseguitati non in quanto cattolici od ortodossi, ma in quanto cristiani. Questo sangue è il fondamento per ritrovare l’unità, perché esso unisce. Nell’incontro con il nostro dicastero, il Papa ci ha detto di avere l’impressione che i dittatori conoscano meglio l’unità che non i cristiani stessi. 
A Caserta il 28 luglio scorso Francesco ha lanciato un messaggio di amicizia ai pentecostali. A che punto è il dialogo ecumenico in questo ambito?
È un grande vantaggio che Papa Francesco possa approfondire questi dialoghi. La realtà degli evangelici pentecostali è molto diffusa nel mondo, ma in varie forme. Nel passato c’erano molti pregiudizi nei confronti della Chiesa cattolica, soprattutto sul papato. I rappresentanti dei movimenti evangelici incontrando il Papa possono superare molti di questi pregiudizi. Così il Pontefice può aprire molte porte che prima erano chiuse. Questo gesto di amicizia è stato per il nostro dicastero un grande incoraggiamento ad approfondire il dialogo con il mondo del pentecostalismo, perché numericamente rappresenta la seconda realtà del cristianesimo dopo la Chiesa cattolica. Dobbiamo parlare di una grande “pentecostalizzazione” del cristianesimo o di una quarta forma di essere cristiani dopo la maniera cattolica, ortodossa e protestante. 
Questo vale anche per l’amicizia del Papa con alcuni rabbini? 
È un’altra cosa, perché dobbiamo fare la distinzione tra dialogo ecumenico, che è la ricerca dell’unità, e dialogo tra le religioni. È chiaro che il dialogo con gli ebrei è una realtà particolare. Si vede già nell’organizzazione della Santa Sede. Abbiamo un Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso, che si occupa dei contatti con le altre religioni. Ma dell’ebraismo ci occupiamo noi, perché non è una religione come tutte le altre. È la madre del cristianesimo o, come ha detto il famoso teologo cattolico Erich Przywara, è la prima divisione che abbiamo nella storia del cristianesimo, tra sinagoga e Chiesa. E la riconciliazione tra sinagoga e Chiesa è una grande sfida da affrontare.
Durante il Sinodo sulla famiglia sono stati ascoltati anche i delegati fraterni. Il punto di vista ortodosso può aiutare la riflessione all’interno della Chiesa? 
Può essere un tema di dibattito, ma bisogna ricordare che la pratica tra le Chiese ortodosse e quella cattolica dipende da una storia molto diversa. Le Chiese ortodosse sono state sempre più legate allo Stato e dunque più disponibili ad accettare alcuni regolamenti statali all’interno della Chiesa. Invece la Chiesa cattolica ha sviluppato un diritto particolare del matrimonio. Possiamo perciò discuterne, ma non a prescindere da questa diversa storia.
L'Osservatore Romano